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:: I venerdì da Enrico’s, Don Carpenter (Frassinelli, 2015) a cura di Giulietta Iannone

16 dicembre 2015
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Don Carpenter non ebbe in vita il successo che si sarebbe meritato, questo è un dato di fatto. Triste. Sì, molto triste se pensiamo che ancor oggi lo si cita  sempre partendo dalle cause della sua morte, cosa che non farò, perchè per me era e resta un autore starordinario che merita di essere ricordato più per i suoi romanzi, per i suoi racconti, per le sue sceneggiature (il suo incontro con Hollywood gli ha permesso di scrivere pagine  memorabili e inconsuete  sulla vita di scrittori, agenti, editori della Mecca del cinema, che già da sole meritano il prezzo del viaggio) che per il resto. Lasciò incompiuto un romanzo, Fridays at Enrico’s e solo grazie a Jonathan Lethem, che l’ha editato (sfoltendo qualche ripetizioni e giusto aggiungendo qualche pagina) e finito, è stato pubblicato nel 2014 da Counterpoint Press.  In italia è arrivato grazie a Frassinelli, nella traduzione lucida e asciutta di Stefano Bertolussi.  Mai una parola banale, mai un periodo privo di ripercussioni sul resto del testo e sull’animo del lettore, e molto è sicuramente merito di Lethem. Aveva un diamante ed è riuscito a tagliarlo alla perfezione. Quindi se di Carpenter non potremo leggere più nulla, di Lethem siamo ancora in tempo, e forse è questo il vero  splendido regalo postumo, che ci ha fatto generosamente Carpenter, oltre al suo libro. I venerdì da Enrico’s parla di scrittori, di libri, di carriere, di matrimoni, della scintillante stagione del Beat Generation vissuta a San Francisco ma non dalle star del movimento: Kerouac, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti, Mailer.  No, i nostri eroi sono altri, scrittori che vedono il loro maggior momento di gloria vendendo un racconto a Playboy, scrittori che ci mettono anni a scrivere il Romanzo capace di vedere cambiare le sorti della letteratura, per poi non pubblicarlo mai, venendo in extremis rincorsi da Hollywood per progetti che mai si realizzeranno, scrittori dotati di talento non ostante si mantengano facendo i ladri d’appartamento, e la cui tappa obbligata sia il carcere, scrittori che riescono ad amare i propri cari solo scrivendone su libri che scalano le classifiche.  Scrittori che Carpenter ha conosciuto, o che gli permettono di parlare di sè. Di quanto scrivere a volte sia più una maledizione che un dono, perchè uno scrittore ha bisogno di spazio, di silenzio, di estraniarsi e non essere interrotto, e questo quasi mai si concilia con le dinamiche familiari. Non ostante le ombre però la comunità degli scrittori sembra davvero un mondo a parte e Carpenter ce lo fa sentire così vicino e luminoso, un mondo di persone eccezionali pur nelle loro debolezze e fragilità.  I venerdì da Enrico’s  è questo e molto altro: è la neve che cade in Oregon, è girare il mondo in barca a vela, è un’adolescente alta e bellissima che guarda i suoi genitori non più insieme, è un bar dove bere un Lemon Hart, è un appartamento arredato in modo monacale, è una piscina in cui nuotare e prendere il sole nudi sotto il sole di Hollywood.  E’ difficile non innamorarsi di Charlie e Jaime, non parteggiare Stan Winger, quando impara a memoria il suo primo romanzo nella sua cella di isolamento, non rattristarsi per Dick Dubonet quando il padre naturale viene a riprendersi il figlio e Linda McNeill lo abbandona.  Che dire I venerdì da Enrico’s è un libro scintillante come i festoni a Natale, che si rilegge anche volentieri quando già si sa che finirà da Enrico’s a bere e sbronzarsi in solitudine. Perchè si è soli, sembra dire Carpenter, nonostante i figli, le storie d’amore che sembrano mai finire anche quando sono finite, i personaggi immaginari dei propri libri. E nonostante  questa nota di tristezza non si riesce a non sorridere e a complimentarsi con il destino che ti ha fatto incontrare un libro simile.

Don Carpenter nacque a Berkeley, California, nel 1931. Durante la Guerra di Corea si arruolò in aviazione. Al ritorno in patria si stabilì a San Francisco. Autore di dieci romanzi e numerosi racconti, fu molto apprezzato dalla critica e dai colleghi scrittori ma non ottenne mai successo di pubblico. Tra gli anni Sessanta e Ottanta si guadagnò da vivere scrivendo per Hollywood. Segnato da gravi problemi di salute, morì suicida nel 1995. I venerdì da Enrico’s è il suo ultimo romanzo, incompiuto e inedito fino al 2014, quando Jonathan Lethem ha deciso di portarlo a termine e pubblicarlo. La critica lo definisce già un classico moderno. Come Stoner di John Edwards Williams.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Lucia dell’ Ufficio Stampa Frassinelli.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Bengodi e altri racconti, George Saunders (minimum fax, 2015) a cura di Giulietta Iannone

14 ottobre 2015

saunders_bengodiChe l’America sia un gigantesco e bizzarro parco divertimenti (a tema) ne avevamo il sospetto anche noi che dell’America (forse) ne conosciamo poco o niente, per lo più forti di una visione letteraria, se non cinematografica.
Non tutti noi ne abbiamo una conoscenza diretta. E anche tra coloro che questa conoscenza l’avessero, non tutti hanno la sensibilità e la lucidità di gente come George Saunders. Scrittore texano, classe 58, autore di opere come Pastoralia, Dieci dicembre (difficile che non l’abbiate almeno sentito nominare) e tra altre anche di Bengodi e altri racconti, sua prima raccolta di racconti del 1996 (un secolo fa verrebbe da dire). Già uscita in Italia nel 2005 grazie a Einaudi con il titolo Il declino delle guerre civili americane, e sempre tradotta da Cristiana Mannella, come questa nuova edizione minimum fax, riveduta e ampliata (c’è in più un nuovo racconto e soprattutto una preziosa nota dell’autore, che sconsiglio vivamente di leggere prima dei racconti).
George Saunders è un autore stimato e premiato, prediletto dalla critica più sofisticata e con Dieci dicembre capace di raggiungere anche il grande pubblico con vendite più che ragguardevoli. Dunque ormai non più uno scrittore di nicchia, per palati difficili (come avrebbe facilmente rischiato di essere sbrigativamente etichettato, anche solo da coloro che per primi selezionavano i racconti per il New Yorker), sebbene la sua scrittura sia decisamente complessa, non tanto a livello di struttura sintattica, naturalmente ricercata, (la stesura di Bengodi e altri racconti, per esempio, gli ha portato via sette anni) ma più che altro per i significati occulti (a vari livelli di comprensione) che i suoi testi nascondono.
George Saunders non è un autore poco impegnativo quindi, ma chiarito questo è singolare come sappia catturare il lettore, divertirlo, in una fitta rete di strettissime maglie che vanno dalla critica sociale più radicale alla compassione (reale, non pietistica) che sanno ispirare i sentimenti più delicati e profondi, ancor più se sgorgano da persone che non vi aspettereste mai, pensate solo al padre ormai solo che cura la figlia handicappata del racconto Isabelle, il secondo racconto in ordine di apparizione, capace di regalarci anche un improbabile lieto fine. Poi venne la primavera e nel parco sbocciarono i fiori.
George Saunders sorvola il reale, e in questi suoi primi racconti è ancora più evidente, con una scrittura fantasmagorica e immaginifica, ma se stiamo attenti prorio del reale parla, del reale più profondo e se vogliamo doloroso. Che il suo scritto sia una grande allegoria è anche vero, e più si allontana dai canoni classici del realismo per perdersi nell’astrattezza più naïf, più forse si sente limpida la sua voce originale e non imitativa, col tempo destinata a lasciare le spiagge sicure dell’assurdo per una maggiore concretezza e un dissolversi del dualismo, immaginazione realtà.
Ma in questi racconti è ancora tutto in nuce, la libertà creativa spazia limpida senza vincoli come aspetattive o attese, solo animata dal desiderio di realizzare finalmente qualcosa nella vita. E in questo sta sicuramente la bellezza e la peculiarità di questo testo, di cui potremo anche vedere il rovescio creativo in controluce, appassionatamente descritto nella nota iniziale, che sinceramente avrei voluto durasse più a lungo. Ma forse l’essenziale c’era, e oltre sempre tutto è superfluo.
Molti critici hanno trovato parole bellissime per questa raccolta la cui forza penso sia proprio la malinconia per un tempo ormai definitivamente concluso, che sia la giovinezza, che sia l’America pre crisi, di cui Saunders vedeva tutti i sintomi di una malattia incurabile che presto si sarebbe abbattuta: razzismo, violenza, egoismo, disoccupazione, perdita, disperazione, e le invincibili regole del mercato capitalistico, spietate e fredde come una lama in mano a un serial killer.

George Saunders (Amarillo, Texas, 1958) è autore di una raccolta di saggi, Il megafono spento (minimum fax 2009) e delle raccolte di racconti Nel paese della persuasione (minimum fax 2010), Pastoralia (minimum fax 2014) e Il declino delle guerre civili americane (già uscita per Einaudi). Ha pubblicato racconti, articoli e reportage sul New Yorker, GQ e il Guardian, e ha vinto più volte il National Magazine Award. È stato incluso dal New Yorker nella lista dei «venti scrittori per il 21° secolo» e nel 2013 è stato insignito del PEN/Malamud Award, il più prestigioso premio statunitense per gli autori di short stories. La rivista Time l’ha inserito fra le 100 persone più influenti del mondo.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Alessandro dell’Ufficio Stampa minimun fax.

:: Io sono Jonathan Scrivener, Claude Houghton (Castelvecchi, 2014) a cura di Giulietta Iannone

17 agosto 2015
JO

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Ma infine una domanda ben precisa emerse dalla spuma di quel mare di aneddoti e scandali con cui Rivers si era dilettato fino ad allora. “Ma di che parlate, lei e Scriv, quando lui è qui? Lo chiamo sempre Scriv perché suona così inappropriato. Dunque, di che parlate?”.
“Scrivener non le ha detto che non ci siamo mai visti?” chiesi.
“Buon Dio, no! Dice sul serio?”.
“Si”.
“Oh ma è stupendo. Dobbiamo pranzarci su. Sembra l’inizio di un giallo. Assumere un segretario che non si conosce. Ottimo presupposto per la trama di un giallo! Sa che ne ho scritto uno, tempo fa? Ultimamente ne ho cominciato un altro. Mi giuri che non sta scherzando”.

Critici e pubblico concordano nel ritenere Io sono Jonathan Scrivener, (I Am Jonathan Scrivener, 1930) l’opera migliore di Claude Houghton, certamente quella di maggior successo. A volte qualità e successo non vanno di pari passo, ma in questo caso il libro si presta davvero a riflessioni interessanti, e anche profonde, sempre che il termine “profonde” non spaventi i lettori in cerca di una lettura rilassante e poco impegnativa.
Io sono Jonathan Scrivener è solo in apparenza un libro semplice e lineare, che nasconde (basta sapere dove cercare) grotte sotterranee e giochi di luce tra parti emerse e parti sommerse. Si parla di identità e niente forse è più fluttuante e indistinto di questo concetto, un’identità ricostruita tramite le riflessioni di alcuni personaggi “emersi”, di un personaggio “sotterraneo” che non compare mai sulla scena, e il vero mistero del libro è se mai comparirà. Se esiste davvero, (per lo meno come i personaggi lo vedono), se è vivo, morto, in fuga, un impostore, un manipolatore, un fantasma.
Mille facce per un uomo, nella realtà forse banale e comune, come banale e comune non è James Wrexham, vero protagonista del libro, e creatore di questo gioco di specchi, la cui identità e altresì un mistero tanto quanto quella di Jonathan Scrivener.
Solo che è il narratore della storia, l’alter ego dell’autore, quello che sceglie quali parti mostrare, in che luce, con che sfumature. Attraverso i suoi occhi vediamo la scena, e questa lisa consuetudine e frequentazione ci può indurre in errore, farci credere che lui non sia un miraggio, come il resto dei personaggi.
I dialoghi sono brillanti (molto british), così come le parti descrittive, un piacere per gli occhi, un gioco di intelligenza che riesce a non rendere noiose pagine e pagine in cui non capita sostanzialmente nulla.
Per darvene un saggio vi cito questo brano:

A volte si va a teatro per vedere un grande attore che vi è piaciuto immensamente anni prima, ma che da allora non avete più rivisto, la sua recitazione vi sembra quasi un plagio di se stessa, di quello che era nel suo periodo più felice. La voce, il modo di gesticolare, i suoi atteggiamenti, il suo stile non sono cambiati: ma questa volta riescono soltanto ad irritarvi. Non sono più indispensabili e inevitabili, perchè l’ispirazione, che un tempo li fondeva in un’ organica unità, è svanita. Erano stati, in passato, espressione spontanea di una grande vitalità: oggi sono consapevolmente, studiatamente sfruttati. L’attore non è più un artista: è diventato una collezione di trucchi del mestiere. (E continua, su questo tono, con la stessa leggerezza e malinconia).

Sì, seguiamo James Wrexham dalla rarefatta e claustrofobica atmosfera della biblioteca di Jonathan Scrivener, (è stato assunto come suo segretario in una maniera abbastanza singolare) alle peregrinazioni in un’altrettanto rarefatta e claustrofobica Londra, fatta di caffè, ristoranti alla moda, palchi dell’opera, case private, boschi oscuri, pioggia, lampioni e nebbia. Ma sia esterno che interno creano la stessa tensione, la stessa mancanza d’aria, tutto nell’economia della crescita della suspense, di un thriller, non thriller, dove sì ci sono anche i morti, per lo più deceduti in circostanze dubbie e misteriose, ma tutto è successo prima che il romanzo inizi, e ha ripercussioni poco meno che ininfluenti sullo svilupparsi della trama.
Temo che la mia recensione sia altrettanto misteriosa quanto il romanzo, e con i lettori me ne scuso, ma riflette senz’altro la profonda suggestione che questo libro mi ha trasmesso e il suo fascino, passato incorrotto dal 1930 a oggi, e per nulla datato. Il libro porta i suoi anni con disinvoltura, e molte sue riflessioni sono attualissime e straordinariamente reali, facendo sembrare la Londra postbellica (si parla della Prima Guerra Mondiale, con la Seconda a stretto giro di boa) molto simile alle nostre realtà metropolitane, popolate di individui cinici e nello stesso tempo ingenui (e a modo loro romantici), che dalla guerra hanno imparato a non prendere niente sul serio.
Io sono Jonathan Scrivener meriterebbe un testo di critica altrettanto lungo quanto il romanzo, ed evidentemente qui non è il luogo appropriato, ma senz’altro va citata la breve prefazione di Henry Miller, uno dei tanti scrittori blasonati che hanno apprezzato Houghton. Traduzione dall’inglese di Allegra Ricci.
Una lettura da non perdere.

Claude Houghton (Sevenoaks, 1889 – Eastbourne, 1961) Scrittore inglese, popolare e apprezzato dalla critica. Fu autore di romanzi psicologici attraversati da un’originale vena di misticismo, che ricevettero sostegno e ammirazione da parte di molti scrittori, da G.K. Chesterton a Hugh Walpole, da Graham Greene a Tomáš Masaryk. Per Castelvecchi è uscito Io sono Jonathan Scrivener, il suo libro di maggior successo e Vicini.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Giulia dell’Ufficio Stampa Castelvecchi.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Nel cerchio di Bernard Minier (Piemme, 2014) a cura di Giulietta Iannone

27 Maggio 2014

nel-cerchio1-185x300Dalla Francia arriva un nuovo autore da tenere d’occhio, per tutti gli amanti del thriller alla Grangè per intenderci. Si chiama Bernard Minier, e i più avveduti forse non si sono fatti scappare Il demone bianco, (da noi recensito da Stefano Di Marino, con toni più che lusinghieri anche da un punto di vista tecnico, qui trovate la sua recensione), vincitore del prestigioso Prix Polar, edito in Francia con XO Editions , (per chi legge in lingua è già possibile trovare N’éteins pas la lumière, terzo episodio della serie), con cui esordiva l’anno scorso in Italia con Piemme, editore che propone quest’anno il suo secondo romanzo, Nel cerchio.
Sempre il comandante Martin Servaz della polizia di Tolosa al centro della scena, sempre l’ombra di un pericolosissimo serial killer tutto europeo a piede libero, deciso a colpire il protagonista proprio nei suoi affetti più cari. Nel cerchio (Le cercle, 2012) tradotto da Giovanni Pacchiano, è dunque un thriller tutta suspense, colpi di scena, depistaggi, con un buono scavo dei personaggi, una certa originalità di fondo (abbiamo un poliziotto, mancato scrittore, che cita i classici latini con una certa disinvoltura) un buon senso del ritmo teso e privo di tempi morti. Lo stile scorrevole rende leggibili le quasi 600 pagine, e il gioco di incastri, con finale più che conclusivo (dell’indagine in corso per lo meno) da il là a un nuovo capitolo della serie dove forse lo scontro tra poliziotto e serial killer troverà un epilogo definitivo.
Il romanzo ha inizio nell’estate del 2010, in concomitanza con i mondiali di calcio. Un’estate dannatamente piovosa, allietata da temporali, black out, e chi più ne ha ne metta. A Marsac cittadina universitaria ai confini dei Pirenei una giovane professoressa Claire Diemar, viene uccisa nella sua vasca da bagno, legata e con una torcia conficcata nella gola. Nella piscina della sua abitazione diverse bambole galleggiano aumentando il macabro scenario di questo delitto che vede un solo presunto colpevole: Hugo, allievo della vittima, trovato drogato e in stato confusionale nella casa. Se non che la madre di Hugo, Marianne, una vecchia amante di Servaz, una donna che vent’anni prima gli aveva spezzato il cuore abbandonandolo per il suo migliore amico, presa dalla disperazione trova il coraggio di farsi viva, telefonandogli e chiedendogli aiuto.
Tentare di scagionare Hugo diventa per Servaz quasi un dovere, soprattutto quando scopre un CD di Mahler nello stereo della vittima, indizio che sembra la firma di un serial killer evaso da un manicomio criminale, sua vera e propria ossessione. Poi arriva una mail, poi le iniziali del serial killer su un tronco di un albero. Servaz sembra non avere dubbi su chi sia il colpevole.
Ora come per tutti i thriller il buon gusto impone di non andare oltre a descrivere la trama, anche se devo dire che Minier gioca parecchio con il lettore mettendo in scena un vero spettacolo di ombre cinesi, gettando i sospetti su tutti i personaggi che via via entrano in scena, dal politico che aveva una relazione con la vittima, che prima fornisce un’alibi falso e poi non vuole (o non può) fornire quello vero, al migliore amico di Hugo ritratto dalle telecamere di sorveglianza di una banca mentre abbandona il pub dove avrebbe dovuto essere, al serial killer che gira indisturbato per Tolosa, con lo scopo unicamente di vendicarsi di Servaz. Insomma di presunti colpevoli ce ne è più d’uno, e grazie all’abilità dell’autore tutti plausibili, poi naturalmente starà all’acume investigativo di Servaz districarsi tra false piste, e depistaggi veri e propri, (come lo stesso lettore) e scoprire la verità, una verità sepolta nel passato, più dolorosa di quanto Servaz vorrebbe.
Dunque che dire, è un ottimo libro, scorrevole, capace di tenere alta l’attenzione, di un autore che forse si rifà ai temi di Grangè, abbiamo una città universitaria in una valle sperduta, una verità sepolta nel passato che emergerà grazie all’acume della squadra investigativa, una vendetta se vogliamo come motore dell’intreccio, e penso a I fiumi di porpora principalmente, ma questo senso di dejavu non è spiacevole, anzi è gestito con disinvoltura da Minier, che non perde in originalità e atipicità. Forse avrei gestito in maniera più sofferta il conflitto di interesse che vive il protagonista, che però non perde in integrità, ponendo il suo lavoro di poliziotto e la scoperta della verità davanti ai suoi interessi personali. Ben caratterizzato il personaggio della figlia Margot, che si butta a capofitto anche lei nell’indagine, rivelando iniziativa e intraprendenza. Consigliato.

Bernard Minier, nato e cresciuto nel Sud della Francia, ha lavorato per anni come doganiere. Ha esordito con Il demone bianco, grande bestseller in patria, vincitore del prestigioso Prix Polar e candidato al Premio delle lettrici di Elle – così come il suo secondo successo, Nel cerchio.

:: Recensione di Ultima fermata a Brooklyn di Hubert Selby Jr (Feltrinelli, 2010) a cura di Giulietta Iannone

30 Maggio 2013

ultima fermataLa luna non s’accorge ne bada a Harry, lungo disteso ai piedi del cartellone, e continua il suo inalterabile viaggio.

A cinquant’anni dall’uscita – se vogliamo essere cavillosi se ne festeggerà l’anniversario il prossimo anno – ecco a voi in tutto il suo splendore Ultima Fermata A Brooklyn (Last Exit to Brooklyn,1964) di Hubert Selby Jr, letto da me ahimé non in lingua originale, ma nella quinta edizione del marzo 2010 nella collana Universale Economica di Feltrinelli, tradotta da Attilio Veraldi.
Dico ahimé non perchè il traduttore abbia fatto un lavoro scadente, anzi il suo sforzo di mimesi e di imitazione della lingua parlata, trasportando lo slang newyorchese fine anni cinquanta in italiano, è sicuramente encomiabile (e sfido chiunque a cimentarsi nell’impresa), ma semplicemente perché certi libri andrebbero unicamente letti nella lingua in cui sono stati scritti, anche a costo di non capirci nulla, faccio un altro celebre esempio Finnegans Wake di Joyce. La costruzione o meglio la decostruzione sintattica e grammaticale, l’unicità lessicale dello slang, fatto di contrazioni, allitterazioni, troncamenti, scardinamenti linguistici è umanamente irripetibile e calibrata per una lingua e seppure con una traduzione, parere mio probabilmente molti critici sarebbero pronti a contraddirmi, si può catturare lo spirito della narrato non se ne può riprodurre la genialità.
Ultima Fermata A Brooklyn è un testo, seppur relativamente breve, difficile e non solo per le scelte stilistiche dell’autore che, con un gusto anarchico e funzionale al messaggio sotteso nel racconto, stravolge grammatica, sintassi, punteggiatura,  dando libero sfogo alla cosiddetta “prosa spontanea” teorizzata da Jack Kerouac, arrivando per esempio a non racchiudere i dialoghi nelle canoniche virgolette, passando quasi in un magma caotico da soggetto a soggetto, ma forse principalmente per i temi trattati, duri, sgradevoli, al limite del ributtante, (non a caso all’uscita del romanzo si augurava che facesse vomitare i suoi lettori) incarnati da personaggi deprivati da ogni connotazione empatica, sentimentale, o finanche umana, per poi paradossalmente giungere all’umano parlando di illusioni, debolezze, aspirazioni quasi sempre naufragate in un mare di violenza e di dolore.
Ultima Fermata A Brooklyn è un romanzo feroce solo formalmente definito romanzo, in realtà racchiude due racconti Tralala e The Queen is Dead già usciti su riviste, e altre tre storie, più un’ appendice finale, sorta di doppio epilogo narrante la squallida cronaca della vita di uno stabile in cui tutto deve apparire ordinato e sottocontrollo. L’amministrazione dello Stabile è d’opinione che il bambino non appartenga a nessuno degli inquilini dello Stabile. La polizia indaga accuratamente nel quartiere e nello Stabile, ma finora nessun’altra informazione è stata rilasciata dalle autorità inquirenti. Questo è il secondo cadavere di bambino trovato nello Stabile nel corso del corrente mese.
Perseguitato per oscenità, per la crudezza e il realismo con cui trattava temi come la violenza delle gang, l’omosessualità, la tossicodipendenza, Ultima Fermata A Brooklyn conserva ancora oggi la sua carica sovversiva e disturbante e sebbene molti autori da allora si siano cimentati a descrivere le vite degli ultimi, degli emarginati, ad ambientare le loro storie nei più sordidi slum delle grandi metropoli, questo romanzo emana una così autentica disperazione che è difficile rimanere indifferenti o tacciarlo di inattualità, di arretratezza o di obsolescenza. C’è una sorta di universalità senza tempo che si sprigiona dalle pagine, difficili, dure, grondanti sangue e vomito, già all’inizio nel pestaggio del militare da parte della banda di perdigiorno che bazzica intorno alla pidocchiosa tavolacalda notte-giorno del Greco si intuisce che i fluidi corporei e la sordidezza dei più infimi dettagli non ci verranno risparmiati.
Se Georgette ci commuove con le sue illusioni d’amore, è Tralala a entrare nel profondo nell’anima di chi legge. Non a caso Hubert Selby Jr introduce ogni parte del romanzo con un passo della Bibbia e per Tralala utilizza il Cantico dei Cantici e i passi dell’amata che incontra la ronda e chiede: Avete visto colui che l’anima mia ama?, proprio in un romanzo dove l’amore è virulentemente negato. La scena dello stupro poi è sicuramente una delle più tristi e devastanti che mi sia capitato di leggere e riassume bene richiamandolo per negazione ciò che il romanzo vuole evocare, la mancanza di quei sentimenti, di quell’amore appunto che rende all’uomo la dignità tolta dalla povertà, dalla violenza e dallo squallore.
Tragico il personaggio di Harry, ributtante, egoista, debole, sessualmente represso sindacalista, in cui la violenza quasi vendicatrice del gruppo (Harry affatto innocente si macchierà di un goffo approccio sessuale fatto nei confronti di Joey, ragazzino di 10 anni del quartiere) si scatenerà appendendolo mezzo morto sul cartellone pubblicitario dello spiazzo desolato, mentre la luna indifferente continua il suo corso, noncurante della sua agonia. Per il gruppo è un divertimento massacrarlo, richiamando quasi alla mente il pestaggio del militare con cui si apre il romanzo, dando così un senso di continuazione e completezza agli episodi slegati della storia.
Romanzo di culto, da leggere sicuramente se apprezzate la letteratura americana contemporanea.

Hubert Selby Jr. (New York 1928-2004) è stato vicino alla beat generation e ha raggiunto la notorietà internazionale nel 1964 con Ultima fermata a Brooklyn (pubblicato da Feltrinelli nel 1966) che ha suscitato le violenze reazionarie di molti censori. Autore di culto e ispiratore di molti scrittori, ha collaborato alla sceneggiatura del film Requiem for a Dream di Darren Aronofsky, tratto da una sua opera. Anche Ultima fermata a Brooklyn è diventato nel 1989 un film di Uli Edel, lo stesso regista di Christiane F. I ragazzi dello zoo di Berlino. Delle sue opere successivamente pubblicate da Feltrinelli sono usciti il romanzo La stanza (1966) e la raccolta di racconti Canto della neve silenziosa (1989). E’ morto nell’aprile del 2004. Di lui ha detto Alessandro Baricco: “Selby, uno che quando lo leggi non scrivi più come prima”.

Source: acquisto personale del recensore.

:: Koto ovvero i giovani amanti dell’antica città imperiale di Yasunari Kawabata (Rizzoli BUR, 1974) a cura di Giulietta Iannone

19 Maggio 2013
Koto

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Chieko scoprì le violette fiorite sul tronco antico dell’acero…”

Koto ovvero i giovani amanti dell’antica città imperiale di Yasunari Kawabata inizia così, con eleganza e semplicità, e da questa breve frase si avverte già il tono poetico e delicato che attraverserà tutta la narrazione.
Pubblicato a Tokyo nel 1962 con il semplice titolo di Koto, mi sfugge a dire il vero il motivo del titolo italiano che facilmente può creare una certa confusione, (premetto che non è un romanzo storico, non ci sono amanti, si parla di due sorelle e le loro relazioni sentimentali sono del tutto incidentali, e l’antica città imperiale è Kyoto ma in tempi relativamente moderni) è senz’altro uno dei più limpidi esempi che caratterizzano la poetica in prosa dell’autore.
Esiste in commercio un’ edizione BUR Rizzoli del 1997 facilmente reperibile, ho controllato, io comunque ho esaminato la prima edizione BUR del settembre del 1974, che sebbene ingiallita, e inframmezzata di vecchi fiori secchi, (temo ormai specie protette, che se le raccogliete in montagna vi danno la multa), contiene tutte le pagine e ha fatto egregiamente il suo dovere. E’ una rilettura, appositamente fatta per questa recensione, per cui avverto i miei lettori che parte della spontaneità e della meraviglia della prima lettura è stata sostituita da un analisi più razionale e sistematica del testo, che comunque non precluderà a voi affatto il piacere della lettura. Nella edizione da me considerata la traduzione è affidata a Mario Teti e vi è anche presente un’ introduzione di Carlo Cassola, che vi consiglio di leggere al termine del romanzo.
Koto, come dicevo, è un romanzo breve, poco più di 150 pagine, appartenente ad un genere narrativo del tutto particolare che fonde la poesia con la prosa. Genere apparentemente tipico della narrativa giapponese classica, anche se in Kawabata niente è comune o scontato. Tutto anzi acquista una forza tragica e dirompente, seppure ciò di cui si narra non sono altro che i sentimenti e i moti misteriosi dell’animo umano. Innovativo e rivoluzionario nello stile, molto moderno se vogliamo, il romanzo tratta temi universali, seppure Kawabata li analizzi partendo, oltre che dalla sua dolorosa e esasperata sensibilità, anche dalla tipica ottica di un giapponese conscio delle tradizioni del suo paese, consapevole che l’unicità del suo pensiero non può essere slegata dalla società in cui viveva, dalla mentalità che caratterizzava il suo stato sociale, e dalla consapevolezza che il tempo che passa è inarrestabile e la provvisorietà dell’esistenza, in cui tutto è instabile e fugace, non può dare all’uomo certezze, ma solo il senso della sua vulnerabilità.
Koto è un romanzo caratterizzato da una trama semplice e lineare, quasi assente. E’ innanzi tutto la storia di due vite, di due sorelle, Chieko e sua sorella Naeko, sparate dalla nascita, immagini speculari di una femminilità forse lontanissima dai canoni della sensibilità occidentale, che incidentalmente nel corso della vita, si incontrano e si riconoscono. Ciò che le separa purtroppo è più forte del sentimento che le lega e sarà dunque invitabile che questo delicatissimo legame si spezzi facendo sì che le sorelle si perdano nuovamente, questa volta per sempre, ognuna destinata a seguire il proprio destino.
I personaggi di questo romanzo, sebbene il tema centrale sia la solitudine, svolgono un ruolo corale. I rapporti che li legano sono caratterizzati da lievi legami d’amore e solidarietà. L’amore tra genitori e figli, l’amore tra fratelli, il rapporto di stima e rispetto tra allievo maestro, tutto concorre a dare una dimensione affettiva e intima, sebbene l’utilizzo della terza persona consenta un certo distaccato e deprivi il narrato da ogni deriva eccessivamente sentimentale o peggio zuccherosa. Koto ha per temi soggetti fondamentali del romanzo classico giapponese: la natura, la bellezza, la solitudine, la separazione. La natura, nello scintoismo sacra e un tutt’uno con il divino, per Kawabata non è altro che lo specchio in cui si riflettono i moti dell’animo, la delicatezza dei sentimenti, la percezione dell’unicità dell’esistenza, la bellezza dell’amore.
L’estetica di Kawabata è sintetizzata dal breve scambio di battute tra il padre di Chieko e Hideo Otomo dove il giovane paragona la bellezza della ragazza a quella dei dipinti di un tempio. Il padre si indigna e sottolinea che non ci può essere paragone tra la bellezza dell’arte e quella della vita, perchè Chieko invecchierà e la sua bellezza sarà sciupata dal tempo che passa, mentre la bellezza dell’arte è eterna.  Hideo Otomo ribatte che proprio per questo la bellezza della ragazza è ancora più preziosa, proprio perché effimera, ma nello stesso tempo è viva, a differenza di un semplice affresco per quanto magnificamente dipinto.
La delicatezza e l’eleganza dello stile sono assoluti. Ogni scena racchiude in sé una piccola miniatura, utilizzando una tecnica quasi pittorica di accostamento di colori, brevità di passaggi, leggerezza di tratto.
Stilisticamente perfetto, non perde né in naturalezza, né in spontaneità. Né mai prende i connotati di freddezza che caratterizzano le opere solo esternamente e formalmente ineccepibili. Non è uno sterile esercizio stilistico. Sotto la calma apparente di una struttura narrativa lenta e fluente si nasconde un sincero e autentico atto d’amore per l’arte, la vita e la letteratura.
Il linguaggio poetico, usato sia per descrivere la natura sia i sentimenti dei personaggi, trasmette con semplicità e dolcezza tutta la bellezza e l’intensità insita nei profondi abissi dell’animo umano in comunione con lo splendore della natura stessa.
La storia è ambientata a Kyoto, e si chiude nell’arco di poche stagioni passando dalla primavera all’inverno. Ovvero dalla nascita alla morte. Apparentemente formali i dialoghi, sono in realtà la forma con cui i personaggi combattono la loro solitudine. Non a caso quando un personaggio si chiude in se stesso tace ed evita ogni comunicazione. Il silenzio acquista quindi una dimensione importante, quasi quanto la conversazione, tenendo anche presente che i dialoghi rispettano le gerarchie sociali, i rapporti interpersonali e la schematica struttura della rigida società giapponese, molto sensibile alla forma esteriore, che diventa paradossalmente tessuto interiore e sostanza fondamentale.

Yasunari Kawabata nacque ad Osaka nel 1899. Rimase orfano in tenera età e la morte di genitori incise grandemente sulla sua visione pessimistica della vita e sul costante senso di separazione che caratterizzò tutte le su opere. Nel 1924 si laureò a Tokyo in letteratura inglese e giapponese in questi anni fondò il movimento letterario Sensazioni nuove. Nel 1926 pubblicò la sua prima opera, La danzatrice di Izu, e fu accolta con un enorme successo. Oltre che romanzi scrisse saggi di critica e racconti. Ottenne il Nobel per la letteratura nel 1968 e fondò il più grande premio letterario giapponese L’Akugawata. Morì suicida nel 1972. Tra i suoi romanzi ricordiamo: Mille gru, Il suono della montagna, Il paese delle nevi, La casa delle belle addormentate, Koto, Bellezza e tristezza, Diario di un sedicenne e Gente di Tokyo.

Source: acquisto personale.

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:: Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller (Einaudi, 1979) a cura di Giulietta Iannone

19 Maggio 2013
morte commesso

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Titolo originale: Death of a Salesman
Autore: Arthur Miller
Anno di pubblicazione: 1979
Traduzione a cura di: Gerardo Guerrieri
Introduzione di Elena De Angeli
Casa editrice: Giulio Einaudi Editore

Nel teatro di Miller l’uomo comune e la vita di ogni giorno vengono nobilitati e acquistano valenza epica. Oltre a usare strumenti di analisi psicologica, l’originalità di Miller sta nell’introdurre metodi di analisi antropologica, sociologica, economica, e politica – non dimenticando di filtrare tutte le scuole di teatro precedenti- cercando di cogliere ciò che di meglio hanno  prodotto.
Rifiuta il teatro come mera forma di intrattenimento e rivendica la sua natura di rappresentazione della vita contemporanea e pretesto per analizzare argomenti di interesse pubblico e politico, sull’esempio del teatro sociale di Ibsen.
Inoltre inizia a elaborare un’ idea del teatro come laboratorio di formazione, cercando di sviluppare un senso critico nei suoi spettatori, coinvolgendoli sia intellettualmente che emozionalmente, fornendo strumenti per riflettere, per formare giudizi liberamente, acquistando così una coscienza critica e indipendente, strumento necessario e indispensabile per ottenere la vera libertà. Miller si interessa prevalentemente agli aspetti tragici del reale per dare più forza e veridicità alle sue opinioni.
Detto questo, che mi sembrava in un certo senso necessario, inizierò ad analizzare “Morte di un commesso viaggiatore”, pietra miliare del teatro americano del dopoguerra. Sicuramente l’opera teatrale più conosciuta e rappresentata di Miller e, nella sua apparente semplicità, la più complessa e difficile sia per struttura, sovrapposizione di tempi, analisi psicologica dei personaggi.
Tema conduttore di tutto il testo è il dualismo tra realtà e sogno e come questa  contrapposizione si risolve nella mente del protagonista, e per riflesso nei personaggi a lui collegati.
La trama di Morte di un commesso viaggiatore è molto semplice: l’intera opera si limita a essere una parabola morale che parte da un inizio di falsa sicurezza, si dispiega in un processo di autocoscienza, che porterà il protagonista nel suo punto massimo di consapevolezza nel momento del licenziamento,  oltre al quale  tutto si orienta irrevocabilmente verso il tragico epilogo del finale. Più in dettaglio narra la vita di Willy Loman, un tipico rappresentante di commercio, mediocre esponente di un’ intera classe sociale che vive nel mito del “Denaro” e del “Successo” come unica ragione di vita e affermazione.
Loman è il tipico uomo qualunque, senza particolari qualità che lo caratterizzino, anzi racchiude in sé più difetti che pregi, ma nello stesso tempo è animato da una profonda onestà che, a discapito dei falsi idoli che venera e per cui spreca la sua vita, gli fornirà la sua unica occasione di riscatto.
Proprio la sua onestà ne conserva la dignità e gli impedisce di diventare l’uomo di successo, eroe del Sogno americano, caricaturalmente delineato nella figura del fratello Ben, sicuro di sé, spavaldo, conscio del suo valore, l’uomo capace di cogliere le opportunità, ma animato dalla certezza che per vincere bisogna trattare gli altri da nemici e non giocare pulito con loro.
Loman, esponente di quella middle class frustrata che non riesce a emergere dalla sua mediocrità inseguendo il classico Sogno Americano, l’Alaska terra dell’oro, l’Eldorado consumistico che promette falsi paradisi di benessere, serenità e felicità, dedica tutta la sua vita inseguendo quel sogno, popolato solo da illusioni e progetti irrealizzabili, per poi accorgersi che tutto era solo un miraggio, solo fumo, e che le cose concrete che veramente contano gli sono sfuggite e non c’è più modo di tornare indietro a recuperarle. Questo senso del tempo perduto viene sottolineato dall’uso incrociato del passato e presente, coesistenti nella mente del protagonista. Non a caso il titolo originario dell’opera doveva essere proprio “Dentro la sua testa”.
Il “common sense ”, il modo giusto e normale di vedere le cose, viene dissolto e si stempera in un’apparente incoerenza, sintomo della sua mente ormai disturbata e della sua identità distrutta che lo porterà inarrestabilmente al suicidio. Loman sente la vecchiaia assalirlo, sente le forze abbandonarlo e guardando in sé non trova niente che veramente valga. Ripercorre la sua vita, che sperava costellata di grandi imprese, costellata invece di squallidi atti senza importanza. La sua intera vita spesa a comprare quel sogno, costellata solo di meschinità e mediocrità,  di rate e cambiali, di conti, di debiti, ora lo ripaga tradendolo e non tributandogli nemmeno quel minimo di considerazione, che in realtà è la sola cosa che ha sempre cercato.
Morte di un commesso viaggiatoreLa sua famiglia, che è tutto il suo mondo, è composta, oltre che dalla moglie,  da due figli: Happy che presto si sposerà sicuramente avviato a ripercorrere i suoi errori, e Biff che nel tentativo di affermare la sua identità e la sua scala di valori è riuscito solo a diventare un ladro per reazione, non trovando niente di veramente positivo oltre alla ribellione da contrapporre ai valori paterni.
La figura di Biff soprattutto si eleva tra le altre e pone Loman di fronte a uno specchio distorto di se stesso. Non essere riuscito a trasmettergli i suoi valori di onestà, di rettitudine, laboriosità lo pone seriamente a prendere coscienza di quanto il suo panorama morale sia limitato e fragile. Vedere i suoi sogni di sportivo fallire, i suoi vagabondaggi inutili, che l’hanno portato a essere senza casa, lavoro e prospettive sono l’unico fallimento dal quale non sa riprendersi.
Infine la moglie Linda, l’unico suo sostegno, la sola che tenga veramente a lui, anche lei ormai è vecchia e senza alcuna prospettiva di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in serenità.
Nonostante questa lenta presa di coscienza, Loman si ostina a credere di avere ancora un’altra occasione, che il suo lavoro, con cui afferma la sua identità, non è inutile e la sua clientela, che ha coltivato negli anni cercando di farsi amare e benvolere, continueranno a dare uno scopo, e un senso, alla sua esistenza. Il crollo e la disintegrazione della sua identità avverrà quando il giovane Howard Wagner, titolare della sua ditta, lo licenzia senza preavviso e senza fornirgli alcuna liquidazione o indennizzo, abbandonandolo alla più completa miseria con la giustificazione  “gli affari sono affari”.
Loman parla da solo, confonde presente e passato, soffre di allucinazioni e annaspa nel suo lungo calvario che lo accomuna agli uomini di ogni epoca, tormentato dalla lenta percezione dell’assurdo, del tradimento, dell’ingiustizia insita in una promessa non mantenuta. Dopo aver speso una vita per gli altri, al servizio dei suoi clienti, per la famiglia, per l’azienda, per il paese che in un certo modo ha contribuito a costruire, fisicamente usurato, con la vecchiaia che avanza, vede la sua ricompensa trasformarsi in condanna, vede i suoi figli persi, sua moglie destinata alla miseria, l’irriconoscenza e il cinismo dei datori di lavoro, il biasimo della società. La sua vita non raggiunge un compimento, l’uomo che sognava di essere si è dissolto.
Quando si lamenta “Non c’è niente di seminato nel mio pezzetto di terra, il mio giardino è senza piante” afferma il diritto e nello stesso tempo il dovere di dare concretezza alla sua umanità, un segno del suo passaggio, costruendo qualcosa non per sé ma per gli altri, superando il suo egoismo con l’unico atto eroico di cui è capace, sacrificare la sua vita per permettere alla moglie di percepire l’assicurazione.
La morte gli consente la sua ultima occasione di riscatto e liberazione da una vita mediocre, permettendogli di affermare il valore della sua persona e trasformandolo da semplice e volgare piazzista in un “uomo”.  Il protagonista condizionato dall’ambiente in cui vive accetta acriticamente e persegue una filosofia materialistica che fa dei soldi e del mito del successo un idolo vendicativo e crudele.
Willy non è un eroe nel senso classico del termine, anzi è pieno di difetti, e anche la sua scelta finale, seppure determinata da buone motivazioni, non è dall’autore della piece del tutto giustificata. La vita, la famiglia, gli affetti sono più importanti della sicurezza economica e il non capirlo decreterà la grande sconfitta e la inesorabile tragicità di quest’uomo irrimediabilmente solo. I personaggi non comunicano realmente tra loro. Un senso di grande solitudine, infatti, pervade tutta l’opera.  L’unica interazione reale, che supera l’isolamento in cui i personaggi si trovano, è il rapporto conflittuale tra Biff e suo padre, costellato da litigi, separazioni, abbandoni, ritorni che pur tuttavia permette di manifestare sentimenti sinceri. Quando realizza che suo figlio non lo odia, Willy percepisce che il suo fallimento non è completo, che qualcosa di sacro è riuscito a conservare e proprio questo se vogliamo è la molla che farà scattare la sua risoluzione finale.
La narrazione oscilla tra realismo ed espressionismo e utilizza il tempo cronologico con continui spostamenti tra passato e presente, per caratterizzare la sua mente disturbata. Oltre a usurargli il fisico, la sua vita spesa inseguendo falsi ideali ha corroso anche la sua mente e la sua anima. L’apparente realismo che pervade il testo crea un senso di familiarità con la vita privata dei personaggi che assumono una valenza universale rispecchiando problematiche, sentimenti, emozioni, comuni a tutti gli esseri umani. L’influenza del cinema nel teatro di Miller è evidenziata dallo specifico uso di tecniche narrative prevalentemente visive (uso dei flashback, delle luci, della musica).
Diamo infine, per concludere, un breve sguardo ai personaggi:   Linda, coscienza critica del testo, paziente e amorevole moglie del protagonista, partecipe del dramma del marito, avverte che sta pensando di suicidarsi e tenta di spingere i figli ad aiutarlo impedendo la tragedia. Happy è l’emblema del conformismo acritico e standardizzato, omologato. Vede nel conformismo l’unica via per affrontare la lotta per la sopravvivenza, e tenta di tramandarlo anche ai suoi figli e facendo anche di loro dei “prodotti in serie”, gli stessi prodotti che ha sempre venduto. Biff emblema della ribellione senza logica, che lo spinge alla cleptomania. Ben caricatura del “self made man”. Charley filantropo saccente che non stima Willy, ma lo aiuta per pietà e per sentirsi migliore. (Il rifiuto di Willy di accettare il suo aiuto è il suo ultimo risveglio di dignità). Willy ha sempre tenuto un registro dei sui debiti e non vuole elemosina ma giustizia. Howard Wagner spietato, indifferente, egoista, imprenditore sterile figura apparentemente realizzata e vincente ma dietro la maschera del potere e dell’efficienza nasconde una disumanità, che ne fa un arido burattino in una pantomima crudele e vuota di ogni significato. Le voci registrate dei suoi cari danno un senso di quanto i suoi legami siano vuoti e privi di senso.

Arthur Miller nacque a New York nel 1915 da una famiglia d’origine austriaca. Studiò giornalismo all’università del Michigan e iniziò a scrivere testi per la radio, racconti e cronache di guerra. Inseguito si dedicò al teatro vincendo il premio Pulizer per “Morte di un commesso viaggiatore”. E’ morto nel 2005.

Source: libro preso in biblioteca.

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:: Recensione di Il giorno della locusta di Nathanael West (Mattioli 1885, 2012) a cura di Giulietta Iannone

14 novembre 2012

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Lasciò la strada e salì lungo la spina dorsale della collina per guardare dall’altra parte. Da lì potè vedere una decina di ettari di campo di loglio, macchiati da ciuffi di girasoli e gomma naturale. Nel centro del campo c’era un gigantesco mucchio di fondali e oggetti di scena. Mentre li osservava, un camion che trasportava dieci tonnellate venne ad aggiungere altro carico. Era la discarica finale. Pensò al Mar dei Sargassi di Janvier. Proprio come quell’immaginario complesso d’acqua rappresentava la storia di una civiltà sotto forma di deposito di rottami marini, quel posto lo era in forma di discarica di sogni. Un Mar dei Sargassi della fantasia! E la discarica cresceva continuamente, perché non c’era sogno che galleggiasse da qualche parte che prima o poi non sarebbe finito lì, dopo essere stato reso fotogenico con gesso, tela, listelli e vernice. Molte navi affondano e non raggiungono mai i Sargassi, ma nessun sogno scompare mai del tutto. Da qualche parte turba uno sfortunato e un giorno, quando la persona in questione sarà stata sufficientemente travagliata, ecco che il sogno sarà riprodotto nello studio.  

Il giorno della locusta (The Day of the Locust, 1939), quarto e ultimo romanzo dello scrittore e sceneggiatore americano Nathanael West, – dopo La vita in sogno di Balso Snell, Signorina Cuorinfranti, e Un milione tondo tondo -, è forse la più lucida e feroce satira che sia mai stata scritta sullo scintillante e vuoto mondo del cinema della Hollywood degli anni Trenta, (che stigmatizza con il lapidario: Mangiavano cibo di cartone di fronte ad una cascata di cellophane) descritto come una vera e propria discarica emozionale e popolato da falliti di ogni risma, nutriti da falsi e corrotti valori morali, assetati di fama e felicità e destinati invece a vedere i propri sogni infranti dallo spietato meccanismo che regola quel mondo che essi stessi hanno contribuito a creare.
Tradotto da Nicola Manuppelli per la collana Originals, delle edizioni Mattioli 1885, dopo la precedente traduzione di Carlo Fruttero per Einaudi e la successiva di Marina Morpurgo per et al. – ma se avete occasione cercatelo anche in versione originale – e impreziosito dalla riproduzione della copertina originale del 39, Il giorno della locusta è un romanzo che non attrae, ne spinge a provare empatia per i vari personaggi che lo animano, anzi volontariamente crea un’algida barriera di sconcerto e repulsione che, solo se superata, permette di comprenderlo e apprezzarlo.
Non lasciatevi ingannare dalla raffinata ed elegante ricchezza espositiva, Il giorno della locusta è un romanzo permeato di violenza e di crudeltà: immaginata, (la scena in cui Tod fantastica di stuprare Faye, interrotto dal cameriere, spoglia il personaggio di ogni eroicità e pietà); rappresentata metaforicamente; mostrata nella realtà.
La tensione puramente sessuale è un altro filo conduttore incanalato nel personaggio di Faye, donna bellissima ma senza alcuna qualità morale, vivificata solo dall’ambizione di diventare attrice, e disponibile con tutti tranne che, immotivatamente, con il protagonista al quale si nega con un semplice: non ti amo.
Ambientato durante la Grande Depressione, in una Hollywood fatiscente e degradata, (molto lontana dall’immaginario comune fatto di lustrini, luci della ribalta, dive platinate, feste senza fine, ville milionarie quint’essenza simbolo del sogno americano), Il giorno della locusta narra le gesta ben poco eroiche di alcuni personaggi appartenenti al sottobosco che gravita intorno al mondo dorato del cinema degli anni d’oro.
Troviamo Tod Hackett, artista di un certo talento che sogna di diventare un pittore di successo e si accontenta di lavorare come costumista e scenografo nelle retrovie di una grande casa di produzione, alter ego dell’autore e voce critica di quel mondo che, seppure disprezza inarrestabilmente, lo affascina e lo attrae.
Poi c’è Harry Greener, l’anziano attore d’avanspettacolo gravemente malato e prossimo alla morte, che si arrabatta vendendo a porta a porta lucido per l’argenteria, sicuramente il personaggio più tragico del già doloroso affresco westiano e sua figlia Faye, una bellezza biondo platino che sogna di diventare una diva, totalmente priva di talento e di moralità, capace delle crudeltà più sgradevoli e ripugnanti, la cui sostanziale innocenza rasenta la stupidità e la cui unica dote è attrarre gli uomini e manipolarli per il suo interesse.
Infine, tra i personaggi maggiori, svetta per patetica intensità drammatica Homer Simpson, un provinciale del Middle West, sessualmente represso, un uomo che con Hollywood non ha nessun legame, è infatti in California per riposarsi, per riprendersi da un traumatico avvenimento che l’ha scosso nel profondo mentre faceva il contabile d’albergo a Wayneville nello Iowa e il cui unico vero errore, che lo porterà alla follia e alla distruzione, sarà innamorarsi di Faye.
A corollario una folla di personaggi minori: il nano Abe Kusich, la signora Jenning, attrice a fine carriera reciclatasi come tenutaria di bordello, il messicano Miguel, allevatore di galli da combattimento (la scena del combattimento nel garage è di un tale macabro sadismo da risultare raccapricciante almeno quanto la corrida ne Il serpente piumato di Lawrence), il cowboy Earle Shoop, simile a tante oscure comparse che popolano i film western del periodo, la signora Loomis, madre dell’aspirante divo bambino Adore che sarà protagonista e vittima nella maestosa scena finale della rivolta davanti al Persian Palace Theatre.
Il giorno della locusta è un libro complesso, e seppure breve, molti temi sono trattati, altri solo sfiorati o sottintesi. C’ un mondo travolto dalla povertà che la Grande Depressione ha portato in America, molti vanno in California a morire, un mondo alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, in cui la violenza, che West profeticamente solo intuisce, si manifesterà in tutto il suo potere distruttivo.
Il messaggio è chiaro: il sogno americano è una sordida menzogna per addomesticare le folle e Hollywood è il simulacro imbiancato di questo tragico inganno.
Bellissimo.

Nathanael West (1903-1940) Svolse in vita diverse attività, dal vicedirettore d’albergo allo sceneggiatore per la Columbia Pictures. Morì, semisconosciuto, a causa di un incidente d’auto e vide la propria fama incrementarsi sempre più a partire dagli anni ’50, quando venne riscoperto come uno degli autori più dotati della propria generazione. La sua opera è considerata profetica e il suo stile precursore di molti linguaggi moderni, come quello dei fumetti. È autore di quattro romanzi, fra cui La vita in sogno di Baiso Snell e Signorina Cuorinfranti.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Anna dell’Ufficio Stampa Mattioli1885.

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