Posts Tagged ‘Letteratura teatrale’

:: The Spank di Hanif Kureishi (Scalpendi Editore 2021) a cura di Giulietta Iannone

31 marzo 2021

Scalpendi editore non poteva inaugurare meglio la sua collana dedicata al Teatro, diretta da Federica Mazzocchi, che pubblicando The Spank di Hanif Kureishi, romanziere, drammaturgo, sceneggiatore anglo-pakistano di fama internazionale che molti conosceranno forse soprattutto per le brillanti sceneggiature di due magnifici film diretti da Stephen Frears: My Beautiful Laundrette e Sammy e Rosie vanno a letto, e che col tempo è diventato una delle voci più significative della sua generazione.

The Spank è un’opera, tradotta in italiano da Monica Capuani, che se vogliamo racchiude tutte le tematiche care all’autore e sprigiona un fascino di vita vissuta davvero rari. Tema centrale di questa piece è l’amicizia che lega due uomini, Vargas e Sonny, di mezza età, immigrati, di successo, giunti a quel punto della vita dove si iniziano a fare bilanci, e si ha la necessità, quasi dolorosa, di fare chiarezza sui propri sentimenti, sulle proprie scelte, sul senso da dare a una vita per certi versi anche subita, sulla ricerca dell’autenticità prima che dell’utile o del benessere materiale. La loro amicizia sembra indistruttibile, un rifugio, come lo stesso pub, The Spank appunto, dove passano ore e ore a confidarsi e a bere birra, quando un fatto inatteso (un amico vede l’altro in compagnia di un’amante) cambia le carte in tavola, e innesca una serie di eventi a cascata dalle conseguenze inattese.

Leggere il teatro è una sensazione incredibile, tanto quanto vederlo sulla scena recitato dagli attori, consente di immaginare mondi e atmosfere soprattutto quando è scritto da autori sensibili e anche divertenti come Hanif Kureishi che con levità e leggerezza parla dei temi più importanti della vita accompagnandoci con l’alchimia delle sue parole. Solo chi ha visto finire un’amicizia, visto tradita la fiducia che si ripone in un amico, apprezzerà e comprenderà le pieghe di questa commedia che lascia alla fine anche qualche graffio nell’anima, ma soprattutto la sensazione di avere compreso qualcosa di più sulla vita e su sé stessi.

Pagine di grande teatro dunque che ci accompagno in questo periodo di pandemie e di chiusure, in cui però non finisce la speranza. Se tutto andrà bene, accogliendo la volontà dell’autore, la prima mondiale della piece, con Valerio Binasco e Filippo Dini nei panni di Vargas e Sonny, avverrà al Carignano di Torino martedì 11 maggio e le repliche fino al 30 maggio. 

Hanif Kureishi è nato a Londra da padre pakistano e madre inglese. È romanziere, drammaturgo, sceneggiatore (e per una volta anche regista: “London Kills Me”, 1991). Ha scritto le sceneggiature per i film di Stephen Frears “My Beautiful Laundrette” (1985) e “Sammy e Rosie vanno a letto” (1987) e per “The Mother ”(2003), “Venus” (2006). L’autore ha scelto l’Italia per la prima assoluta di The Spank regia di Filippo Dini, con Valerio Binasco e Filippo Dini, Teatro Stabile di Torino.    

:: Il mare di Majorana – dramma teatrale in tre atti di Marco Pizzi

7 febbraio 2018

copertina majorana amazonEttore Majorana scomparve, in circostanze mai del tutto chiarite, il 27 marzo del 1938. Quest’anno cadrà l’ ottantesimo anniversario di una morte presunta, sulla quale ancora oggi ci si interroga, si ventilano ipotesi, si azzardano scenari più o meno avventurosi, o bizzarri.
L’ipotesi più accreditata è sempre stata quella del suicidio: si sarebbe gettato dal traghetto che da Palermo lo riportava a Napoli, e per via delle correnti o di altri impedimenti, il cadavere non fu mai più ritrovato.
I più romantici optano per la fuga, magari in qualche paese dell’ America Latina, lontano dal senso di colpa per aver contribuito, con i suoi studi, alla creazione della “bomba” definitiva. I bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki sarebbero seguiti nell’agosto del 1945 dimostrando al mondo il potere distruttivo di questa arma. Seppure non è la scienza il male in sé, ma l’uso che se ne fa il problema e Majorana era troppo intelligente per non esserne consapevole.
Tra le ipotesi meno battute invece va ad annoverarsi quella a cui giunge Marco Pizzi, autore di Il mare di Majorana, dramma teatrale in tre atti che ripercorre gli ultimi dieci anni di vita di Ettore Majorana. Non ve l’anticipo, la leggerete nel testo, o se avrete modo di vedere l’opera rappresentata, andrà in scena questo aprile a Roma.
Tesi che si discosta forse da quella di Sciascia nel suo saggio La scomparsa di Majorana (1975), ma è sia frutto di un’ intuizione letteraria (e umana), che di un confronto con le fonti storiche a sua disposizione.

Il mio punto di partenza sono state le fonti primarie e le varie testimonianze di chi conobbe personalmente lo scienziato (Laura Fermi, Segré, Amaldi, Heisenberg), nonché le recenti scoperte storiche di Nadia Robotti e Francesco Guerra, che hanno gettato nuova luce su una vicenda ancora molto nebbiosa[1].

Ma chi era Ettore Majorana? Nacque a Catania nel 1906 in un antica e influente famiglia di giuristi, politici e scienziati. La sua bravura nei calcoli matematici lo distinse fin da giovanissimo e lo accompagnò negli studi universitari prima di ingegneria e poi di fisica. A lui si rivolgevano amici, colleghi, persino i professori quando un risultato non era quello corretto, e lui risolveva le espressioni più complesse senza la minima fatica.
Il suo genio non fu accompagnato da una carriera altrettanto felice innanzitutto a causa del suo (pessimo) carattere, delle sue condizioni di salute e soprattutto a causa di una certa sfortuna che ben emerge da Il mare di Majorana, forse il punto più originale dell’ intera piece.
Di solito di Majorana si ricordano solo i successi, il brillante Teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone, articolo che contribuì, per chiara fama, a fargli ottenere la carica di professore di Fisica Teorica all’Università di Napoli, quando come sottolinea il Pizzi, lo scontro con Dirac, ebbe un peso non marginale nel suo crollo fisico e psicologico del 1934.

Dal 1928 al ’33: cinque anni di studi e calcoli stremanti – prima per impossessarmi della teoria dei gruppi, poi per riuscire a cogliere strutture matematiche fino ad allora inesplorate – uno sforzo mentale sovrumano con il miraggio di una teoria che potesse finalmente eliminare il mare di Dirac… ed ecco che, a un tratto, si scopre che quello sembrava il difetto più grave dell’equazione di Dirac è in realtà la sua più grande predizione: l’antimateria. E’ l’unico punto forte della mia teoria è quello più debole. Ho fallito.

Il mare di Majorana è un testo teatrale che Marco Pizzi ha autopubblicato su Amazon nel 2012, vincitore del Premio Teatro Helios nell’ambito del concorso Passione Drammaturgia 2012 e va un po’ a sfatare il preconcetto che su Amazon si autopubblichino solo testi di cattiva qualità.
Diciamo che gli ingredienti per un giallo storico ci sono tutti, l’importanza del personaggio protagonista, l’importanza dei coprotagonisti, Enrico Fermi su tutti e il gruppo di fisici conosciuti come i ragazzi di via Panisperna, tra cui Segrè prossimo premio Nobel, e Gentile jr, forse il suo più stretto amico, assieme alla sorella Maria, pianista di talento.
Le scene sono scarne, quasi spoglie, una lavagna, un letto, una scrivania. Le indicazioni dell’autore precise, e nello stesso tempo piuttosto libere, danno all’eventuale regista grande possibilità di manovra. Le luci giocano un ruolo importante, illuminando la scena e il protagonista nei frangenti più significativi. L’ uso alternato di dialoghi (mai banali, a tratti divertenti e ironici) e monologhi, rende la piece piuttosto vivace e affatto noiosa, anche solo da leggere.
L’uso di formule matematiche e le rigorose e puntuali spiegazioni di leggi della Fisica le ho trovate stranamente molto chiare e affatto avulse dal testo, sebbene le mie conoscenze in materia non siano approfondite (comunque a grandi linee dal liceo ricordo cosa è un atomo, un protone, un neutrino, o l’antimateria, che da sempre mi ha molto affascinato specie applicata ai buchi neri). Servono però senz’altro a dare un’ idea precisa del mondo di Majorana al pubblico a teatro e ai lettori del testo. Altra caratteristica che ho trovato originale della piece.
Che dire, in conclusione, le opere teatrali bisogna vederle a teatro, quindi appuntamento a Roma ad aprile.

Marco Pizzi è nato a Roma nel 1981. Si è laureato in Fisica alla Sapienza, dove poi ha conseguito il dottorato in Astrofisica nel 2008. Dopo una borsa di studio a Berlino ha abbandonato la ricerca per dedicarsi con maggior energia alla scrittura.
Per la narrativa ha scritto diversi racconti e due romanzi: Lucio. Episodi della vita di un ‘eretico’, un romanzo di formazione (2009); Incontro con Cristo. Il filosofo e il messia, un romanzo storico-filosofico sui vangeli (2012). Verdi contro Wagner, un racconto a puntate ambientato a Venezia nei giorni della morte di Wagner (2013).
Per il teatro ha scritto: Morte di un teledipendente, una satira sul mondo della televisione (2010); Il mare di Majorana, dramma in tre atti, vincitore del premio Teatro Helios a Pieve di Teco (2012; tradotto anche in inglese, 2014); Solo con Falcone, maxidramma in cinque atti, Segnalazione Speciale Vittorio Giavelli al Concorso Europeo Tragos (2017); Maternità inattesa, commedia drammatica (Roma, Teatro due, aprile 2017); Io, mamma e Ronconi, commedia brillante in due atti (2017).

Source: libro inviato dall’autore.

[1] http://marcopizziparalipomena.blogspot.it/2013/07/il-mare-di-majorana-dramma-teatrale.html

:: Il prezzo, Arthur Miller (Einaudi, 2015) a cura di Giulietta Iannone

25 ottobre 2015

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A dieci anni dalla morte, e a 100 anni dalla nascita, in un periodo di doppie commemorazioni fuori e dentro i teatri, luogo ideale dove l’anima di Arthur Miller ancora risiede, Einaudi porta per la prima volta in Italia in testo scritto, nella traduzione di Masolino d’Amico (già nel 1969 Raf Vallone la portò a teatro), una pièce di Miller del 1968, Il Prezzo, uscita come dal cappello a cilindro di un prestigiatore. Pochi la conoscono, ancora meno la citano (alcuni l’hanno fatto a sproposito confondendo lavori dell’autore) sta di fatto che Il Prezzo fu coronata dal successo di ben 429 repliche consecutive, dopo il debutto il 7 febbraio del 1968 al Moresco Theatre di Broadway. La Compagnia Orsini la sta portando attualmente a teatro in Italia. Vi confesso che nella sua tappa a Torino, non mi spiacerebbe vederla.
Lasciata la cornice della Grande Depressione e della crisi del 29, sembra scritta oggi; parla della crisi del mondo di oggi. (Qui mangiavamo immondizia, dice Victor al fratello). Quanta gente, specie pensionati, nell’Italia ottimistica di Renzi, sono costretti a rovistare nei cassonetti dei mercati rionali in cerca di pompelmi marci.
Non è singolare? Forse il grande teatro, (sarà una banalità dirlo), è davvero senza tempo. Se no non troveremmo moderno Euripide, o Shakespere, o Moliere. Quindi anche Miller è davvero baciato dall’antica musa, (se ancora qualcuno si ponesse questioni se fu o non fu il più grande drammaturgo della seconda metà del Novecento, spesso accostato a Tennessee Williams a dividersi il titolo) e ci porta a riflettere sul presente con una lucidità che a tratti spaventa.
Leggere testi dedicati al teatro ha limiti e grandezze. Forse il limite più grande è la mancanza del talento degli attori, ma tra le grandezze possiamo sederci in poltrona e creare nella nostra mente uno spettacolo tutto per noi, con luci e scenografie originali e sempre diverse, persino musiche, se vogliamo un sottofondo musicale. Con un po’ di esercizio, perchè l’immaginazione va esercitata, ci si riesce ed ecco a voi una stanza in cui sono accatastati vecchi mobili dal valore indefinito e due personaggi, un marito e una moglie. Rileggendo questa ultima frase sembra che anche i personaggi siano accatastati ed equiparati a oggetti, e non correggo, forse questa è la chiave di lettura del testo, a volte la si trova senza cercarla.
C’è tensione tra i due personaggi, insoddisfazione, risentimento forse legato a motivi economici o a qualcosa di più impalpabile, fumoso, legato a un terzo personaggio, Walter, il fratello medico, quello che nella vita ha raggiunto il successo e il benessere economico, grazie anche ai sacrifici dell’altro fratello che gli permisero di studiare.
E c’è il fantsma di un padre, ormai morto. Personaggio silenzioso ma a mio avviso fondamentale. In qualsiasi rappresentazione scenica lo metterei seduto (anche come manichino) nella poltrona imbottita dalle sfumature rosa. Infondo è lui il cardine su cui ruota tutta la storia, la vittima-carnefice: vittima della fine del sogno (economico) americano, carnefice dei suoi figli, la cui colpa maggiore resta senz’altro avere generato inimicizia tra loro, rispettando quello assente e sfruttando quello presente, a cui tiene nascosto di possedere (salvata in qualche modo rocambolesco dal fallimento) un’ ingente somma di denaro. C’è un prestito in ballo, questa omissione inciderà pesantemente nella storia.
I mobili sono tutto ciò che resta della sua vita e prima di venderli bisognerà dargli un prezzo, concetto ben lontano a quello di valore. Con Miller non si può mai stare tranquilli, usa criteri econmici per parlarci di altro, o per criticare il sistema economico stesso, meglio di un testo di economia. Insomma dare un prezzo a quegli oggetti sembra lo scopo che si persegue con pervicacia durante tutta la pièce e per far ciò viene chiamato in causa un antiquario/mercante ebreo, Gregory Solomon, anche lui perseguitato da un fantasma, quello della figlia suicida. Proiezione benigna del padre assente, Solomon persegue i suoi scopi, spuntare un prezzo favorevole per quegli oggetti, ai danni di Victor, (che non ostante i pungolamenti della moglie) non sa contrattare. La sua onestà resta un enigma, la sua pessima salute (è molto anziano) fa oscillare le certezze sulla consapevolezza che la morte imminente fa sfumare la volontà di essere disonesto e ammassare i beni terreni ai danni degli altri. Ma chi può dirlo, forse tutta la contrattazione è ancora un suo modo di sentirsi abile, forte, capace di fare un mestiere in cui forse si credeva finito.
Chi invece non si faceva scrupoli, e noi tutti della sua onestà dubitiamo, è Walter, che arriva al punto di escogitare un raggiro (perfettamente legale, ma imprevedibile negli esiti) per pagare finalmente il debito che ha contratto con il fratello e guadagnarne finalmente la sua stima e amicizia. Walter, molto più simile al padre di quanto creda nella sua foga manipolatoria, nasconde però debolezze e fragilità che lo rendono diverso da come in un primo tempo potrebbe apparire. Si è disfatto delle cliniche per anziani (non si immagina quanti soldi si possono spillare a figli impotenti che vogliono delegare la cura dei propri genitori anziani) per darsi alla pratica medica con l’intento di salvare vite e spillare soldi ai ricchi solo incidentalmente per mantenersi.
Victor, al confronto, spicca per onestà e simpatia, anche se dotato di una certa colpevole ingenuità che ci fa supporre che non sia tanto sveglio. E questa sensazione è proprio cosa Miller non voleva generare, giocando in un equilibrio di simpatia tra i due personaggi come spiega nella nota finale sull’allestimento, e noi affidiamo questo, senza esitazione, alla bravura degli eventuali attori impiegati nei rispettivi ruoli.
Tra i personaggi forse quello che più facilmente può essere sottovalutato, ma che racchiude sfumature inconsuete è senz’altro quello di Edith, la moglie di Victor, presunta alcolizzata, sempre con la borsetta in mano, come a dimostatre che non vorrebbe essere lì, sempre alla ricerca di una via di fuga. In un primo tempo la sua venalità, se non avidità, sembra relegarla tra i personaggi meschini e gretti a cui non daresti due cent di simpatia. Ma se si fa attenzione non è priva di sensibilità e empatia. Avverte gli stati d’animo degli altri personaggi e non è quella gorgone che potrebbe sembrare a una considerazione più superficiale. Anche lei partecipò ai sacrifici di Victor, e forse solo il suo desiderio di sopravvivere la spinge a vedere le ultime possibilità economiche di un futuro sereno che il marito non sembra cogliere: la pensione, la vendita a un prezzo equo dei mobili, il ventilato impiego nel laboratorio di Walter. Tutti miraggi che le si spengono davanti agli occhi, miraggi, solo miraggi.
Ormai il teatro di Miller sembra una costante nel mio blog, ho avuto modo di parlare di Morte di un commesso viaggiatore e L’orologio americano, anche se niente mi toglie la sensazione (piuttosto spiacevole) di vedere Miller, seduto in seconda fila tra il mio ipotetico pubblico, che si alza in piedi, mi indica, e mi dice: “lei signorina non ci ha capito un accidenti del mio teatro”. Ci rido su, ma sapete, il dubbio rimane.

Arthur Miller nacque a New York nel 1915 da una famiglia d’origine austriaca. Studiò giornalismo all’università del Michigan e iniziò a scrivere testi per la radio, racconti e cronache di guerra. Inseguito si dedicò al teatro vincendo il premio Pulizer per “Morte di un commesso viaggiatore”. E’ morto nel 2005.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Gaia dell’Ufficio Stampa Einaudi.

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:: Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller (Einaudi, 1979) a cura di Giulietta Iannone

19 Maggio 2013

morte commesso

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Titolo originale: Death of a Salesman
Autore: Arthur Miller
Anno di pubblicazione: 1979
Traduzione a cura di: Gerardo Guerrieri
Introduzione di Elena De Angeli
Casa editrice: Giulio Einaudi Editore

Nel teatro di Miller l’uomo comune e la vita di ogni giorno vengono nobilitati e acquistano valenza epica. Oltre a usare strumenti di analisi psicologica, l’originalità di Miller sta nell’introdurre metodi di analisi antropologica, sociologica, economica, e politica – non dimenticando di filtrare tutte le scuole di teatro precedenti- cercando di cogliere ciò che di meglio hanno  prodotto.
Rifiuta il teatro come mera forma di intrattenimento e rivendica la sua natura di rappresentazione della vita contemporanea e pretesto per analizzare argomenti di interesse pubblico e politico, sull’esempio del teatro sociale di Ibsen.
Inoltre inizia a elaborare un’ idea del teatro come laboratorio di formazione, cercando di sviluppare un senso critico nei suoi spettatori, coinvolgendoli sia intellettualmente che emozionalmente, fornendo strumenti per riflettere, per formare giudizi liberamente, acquistando così una coscienza critica e indipendente, strumento necessario e indispensabile per ottenere la vera libertà. Miller si interessa prevalentemente agli aspetti tragici del reale per dare più forza e veridicità alle sue opinioni.
Detto questo, che mi sembrava in un certo senso necessario, inizierò ad analizzare “Morte di un commesso viaggiatore”, pietra miliare del teatro americano del dopoguerra. Sicuramente l’opera teatrale più conosciuta e rappresentata di Miller e, nella sua apparente semplicità, la più complessa e difficile sia per struttura, sovrapposizione di tempi, analisi psicologica dei personaggi.
Tema conduttore di tutto il testo è il dualismo tra realtà e sogno e come questa  contrapposizione si risolve nella mente del protagonista, e per riflesso nei personaggi a lui collegati.
La trama di Morte di un commesso viaggiatore è molto semplice: l’intera opera si limita a essere una parabola morale che parte da un inizio di falsa sicurezza, si dispiega in un processo di autocoscienza, che porterà il protagonista nel suo punto massimo di consapevolezza nel momento del licenziamento,  oltre al quale  tutto si orienta irrevocabilmente verso il tragico epilogo del finale. Più in dettaglio narra la vita di Willy Loman, un tipico rappresentante di commercio, mediocre esponente di un’ intera classe sociale che vive nel mito del “Denaro” e del “Successo” come unica ragione di vita e affermazione.
Loman è il tipico uomo qualunque, senza particolari qualità che lo caratterizzino, anzi racchiude in sé più difetti che pregi, ma nello stesso tempo è animato da una profonda onestà che, a discapito dei falsi idoli che venera e per cui spreca la sua vita, gli fornirà la sua unica occasione di riscatto.
Proprio la sua onestà ne conserva la dignità e gli impedisce di diventare l’uomo di successo, eroe del Sogno americano, caricaturalmente delineato nella figura del fratello Ben, sicuro di sé, spavaldo, conscio del suo valore, l’uomo capace di cogliere le opportunità, ma animato dalla certezza che per vincere bisogna trattare gli altri da nemici e non giocare pulito con loro.
Loman, esponente di quella middle class frustrata che non riesce a emergere dalla sua mediocrità inseguendo il classico Sogno Americano, l’Alaska terra dell’oro, l’Eldorado consumistico che promette falsi paradisi di benessere, serenità e felicità, dedica tutta la sua vita inseguendo quel sogno, popolato solo da illusioni e progetti irrealizzabili, per poi accorgersi che tutto era solo un miraggio, solo fumo, e che le cose concrete che veramente contano gli sono sfuggite e non c’è più modo di tornare indietro a recuperarle. Questo senso del tempo perduto viene sottolineato dall’uso incrociato del passato e presente, coesistenti nella mente del protagonista. Non a caso il titolo originario dell’opera doveva essere proprio “Dentro la sua testa”.
Il “common sense ”, il modo giusto e normale di vedere le cose, viene dissolto e si stempera in un’apparente incoerenza, sintomo della sua mente ormai disturbata e della sua identità distrutta che lo porterà inarrestabilmente al suicidio. Loman sente la vecchiaia assalirlo, sente le forze abbandonarlo e guardando in sé non trova niente che veramente valga. Ripercorre la sua vita, che sperava costellata di grandi imprese, costellata invece di squallidi atti senza importanza. La sua intera vita spesa a comprare quel sogno, costellata solo di meschinità e mediocrità,  di rate e cambiali, di conti, di debiti, ora lo ripaga tradendolo e non tributandogli nemmeno quel minimo di considerazione, che in realtà è la sola cosa che ha sempre cercato.
Morte di un commesso viaggiatoreLa sua famiglia, che è tutto il suo mondo, è composta, oltre che dalla moglie,  da due figli: Happy che presto si sposerà sicuramente avviato a ripercorrere i suoi errori, e Biff che nel tentativo di affermare la sua identità e la sua scala di valori è riuscito solo a diventare un ladro per reazione, non trovando niente di veramente positivo oltre alla ribellione da contrapporre ai valori paterni.
La figura di Biff soprattutto si eleva tra le altre e pone Loman di fronte a uno specchio distorto di se stesso. Non essere riuscito a trasmettergli i suoi valori di onestà, di rettitudine, laboriosità lo pone seriamente a prendere coscienza di quanto il suo panorama morale sia limitato e fragile. Vedere i suoi sogni di sportivo fallire, i suoi vagabondaggi inutili, che l’hanno portato a essere senza casa, lavoro e prospettive sono l’unico fallimento dal quale non sa riprendersi.
Infine la moglie Linda, l’unico suo sostegno, la sola che tenga veramente a lui, anche lei ormai è vecchia e senza alcuna prospettiva di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in serenità.
Nonostante questa lenta presa di coscienza, Loman si ostina a credere di avere ancora un’altra occasione, che il suo lavoro, con cui afferma la sua identità, non è inutile e la sua clientela, che ha coltivato negli anni cercando di farsi amare e benvolere, continueranno a dare uno scopo, e un senso, alla sua esistenza. Il crollo e la disintegrazione della sua identità avverrà quando il giovane Howard Wagner, titolare della sua ditta, lo licenzia senza preavviso e senza fornirgli alcuna liquidazione o indennizzo, abbandonandolo alla più completa miseria con la giustificazione  “gli affari sono affari”.
Loman parla da solo, confonde presente e passato, soffre di allucinazioni e annaspa nel suo lungo calvario che lo accomuna agli uomini di ogni epoca, tormentato dalla lenta percezione dell’assurdo, del tradimento, dell’ingiustizia insita in una promessa non mantenuta. Dopo aver speso una vita per gli altri, al servizio dei suoi clienti, per la famiglia, per l’azienda, per il paese che in un certo modo ha contribuito a costruire, fisicamente usurato, con la vecchiaia che avanza, vede la sua ricompensa trasformarsi in condanna, vede i suoi figli persi, sua moglie destinata alla miseria, l’irriconoscenza e il cinismo dei datori di lavoro, il biasimo della società. La sua vita non raggiunge un compimento, l’uomo che sognava di essere si è dissolto.
Quando si lamenta “Non c’è niente di seminato nel mio pezzetto di terra, il mio giardino è senza piante” afferma il diritto e nello stesso tempo il dovere di dare concretezza alla sua umanità, un segno del suo passaggio, costruendo qualcosa non per sé ma per gli altri, superando il suo egoismo con l’unico atto eroico di cui è capace, sacrificare la sua vita per permettere alla moglie di percepire l’assicurazione.
La morte gli consente la sua ultima occasione di riscatto e liberazione da una vita mediocre, permettendogli di affermare il valore della sua persona e trasformandolo da semplice e volgare piazzista in un “uomo”.  Il protagonista condizionato dall’ambiente in cui vive accetta acriticamente e persegue una filosofia materialistica che fa dei soldi e del mito del successo un idolo vendicativo e crudele.
Willy non è un eroe nel senso classico del termine, anzi è pieno di difetti, e anche la sua scelta finale, seppure determinata da buone motivazioni, non è dall’autore della piece del tutto giustificata. La vita, la famiglia, gli affetti sono più importanti della sicurezza economica e il non capirlo decreterà la grande sconfitta e la inesorabile tragicità di quest’uomo irrimediabilmente solo. I personaggi non comunicano realmente tra loro. Un senso di grande solitudine, infatti, pervade tutta l’opera.  L’unica interazione reale, che supera l’isolamento in cui i personaggi si trovano, è il rapporto conflittuale tra Biff e suo padre, costellato da litigi, separazioni, abbandoni, ritorni che pur tuttavia permette di manifestare sentimenti sinceri. Quando realizza che suo figlio non lo odia, Willy percepisce che il suo fallimento non è completo, che qualcosa di sacro è riuscito a conservare e proprio questo se vogliamo è la molla che farà scattare la sua risoluzione finale.
La narrazione oscilla tra realismo ed espressionismo e utilizza il tempo cronologico con continui spostamenti tra passato e presente, per caratterizzare la sua mente disturbata. Oltre a usurargli il fisico, la sua vita spesa inseguendo falsi ideali ha corroso anche la sua mente e la sua anima. L’apparente realismo che pervade il testo crea un senso di familiarità con la vita privata dei personaggi che assumono una valenza universale rispecchiando problematiche, sentimenti, emozioni, comuni a tutti gli esseri umani. L’influenza del cinema nel teatro di Miller è evidenziata dallo specifico uso di tecniche narrative prevalentemente visive (uso dei flashback, delle luci, della musica).
Diamo infine, per concludere, un breve sguardo ai personaggi:   Linda, coscienza critica del testo, paziente e amorevole moglie del protagonista, partecipe del dramma del marito, avverte che sta pensando di suicidarsi e tenta di spingere i figli ad aiutarlo impedendo la tragedia. Happy è l’emblema del conformismo acritico e standardizzato, omologato. Vede nel conformismo l’unica via per affrontare la lotta per la sopravvivenza, e tenta di tramandarlo anche ai suoi figli e facendo anche di loro dei “prodotti in serie”, gli stessi prodotti che ha sempre venduto. Biff emblema della ribellione senza logica, che lo spinge alla cleptomania. Ben caricatura del “self made man”. Charley filantropo saccente che non stima Willy, ma lo aiuta per pietà e per sentirsi migliore. (Il rifiuto di Willy di accettare il suo aiuto è il suo ultimo risveglio di dignità). Willy ha sempre tenuto un registro dei sui debiti e non vuole elemosina ma giustizia. Howard Wagner spietato, indifferente, egoista, imprenditore sterile figura apparentemente realizzata e vincente ma dietro la maschera del potere e dell’efficienza nasconde una disumanità, che ne fa un arido burattino in una pantomima crudele e vuota di ogni significato. Le voci registrate dei suoi cari danno un senso di quanto i suoi legami siano vuoti e privi di senso.

Arthur Miller nacque a New York nel 1915 da una famiglia d’origine austriaca. Studiò giornalismo all’università del Michigan e iniziò a scrivere testi per la radio, racconti e cronache di guerra. Inseguito si dedicò al teatro vincendo il premio Pulizer per “Morte di un commesso viaggiatore”. E’ morto nel 2005.

Source: libro preso in biblioteca.

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:: Le Troiane di Euripide a cura di Giulietta Iannone

13 giugno 2008

EuripideEschilo, Sofocle ed Euripide sono senz’altro i tragediografi greci che più hanno lasciato, grazie alla miracolosa conservazione dei loro testi, una porta aperta sulla vita del loro tempo.
E’ singolare come la vita si riflette nel teatro, e viceversa, ed è ancora più singolare analizzare come la psiche umana, ovvero i sentimenti, il modo di ragionare, nonostante secoli di “civiltà”, sia per lo più immutata. Certo lo sfondo delle tragedie di Euripide è un mondo pagano, in cui mito e religione si sovrappongono e gli dei camminano tra gli uomini creando più scompiglio che aiuto, nonostante questo l’uomo di allora rispecchia fedelmente la vitalità, le aspirazioni, la ricerca di felicità che caratterizzano ogni epoca e ogni paese.
Il mondo greco è senz’altro dotato di una cultura evoluta, di una nobiltà di sentimenti, di un raffinato sentire e percepire l’arte, la poesia e la musica. Atene in un certo senso rispecchia tutto questo, ma forse mai come allora l’orrore, la violenza che perde e strazia è esasperata e accentuata, lasciando però sempre la certezza che il bene, morale ed estetico, ha qualcosa di così sacro da meritare sempre l’alloro della Vittoria.
Euripide si colloca in una posizione singolare e anomala nella polis greca, fucina di libertà e di democrazia; ne incarna in un certo modo lo spirito più critico e non convenzionale. Non inserito nel suo tempo, piuttosto incompreso e avversato dai contemporanei, Euripide si isola e nel suo isolamento riflette e medita. C’è in lui sicuramente una tensione morale non comune e una sottigliezza che permea le sue tragedie di un bizzarro soffio anarchico contenuto in una prosa di posata compostezza.
L’anarchia di Euripide non ha niente di violento o sovversivo, si limita a dare spazio alle emozioni contraddittorie che molte realtà evocano, a sottolineare la stupidità di certi comportamenti velati dalla nobilitante patina del conformismo, a ribellarsi all’assurdo. Lo spiccato individualismo, di cui è più vittima che orgoglioso rappresentante, ci permette dopo tanti secoli di osservare il mondo di allora come da uno spiraglio privilegiato e in un certo senso di vedere noi stessi con le nostre debolezze, le nostre virtù e in ultima analisi il nostro immutato desiderio di capire e conoscere.
“Le Troiane” è sicuramente una delle tragedie più amare di Euripide, che analizza i meccanismi più nascosti che regolano l’esistenza umana. Tema centrale è la descrizione di cosa la guerra porta e di quanto il concetto stesso di “Vittoria” sia labile e fuggevole. Euripide stravolge tutti canoni e gli archetipi dell’epoca e porge ai suoi spettatori una riflessione amara, ma non priva di logica.
Gli sconfitti e i vincitori sono attori di uno stesso dramma, la realtà è tragica ed implacabile per entrambi e in un certo senso fa giustizia ai vinti, rendendo il trionfo dei nemici breve, provvisorio, se non inutile. I bottini depredati ai vinti sono in realtà niente, considerato che l’unica vera ricchezza è la “vita” e sia i vincitori che i vinti sono accomunati dal fatto di aver ucciso ed essere morti.
Tra tutte le opere dell’antichità sicuramente questa pone in risalto in modo compiuto il concetto di quanto “la pace” sia davvero l’unica dea del mondo pagano che vada onorata e la sola portatrice di benessere e di vera giustizia. Non c’è giustizia nell’umiliazione dei vinti, nel loro dolore, nel prendere schiavi, nel bruciare città, e lasciare solo rovine. Non c’è onore in una guerra, solo vittime, questo è ciò che ci dice Euripide, conscio di dire una verità scomoda e contraria alla morale corrente che vede nella guerra una scelta, anche se dolorosa, pur inevitabile.
Euripide utilizza le divinità pagane in un certo senso areligiosamente, unicamente come catalizzatori. Poseidone ci introduce nel vivo del dramma e ci pone di fronte una città, Troia, distrutta e saccheggiata; dove prima c’era una fiorente e gloriosa comunità, simbolo di tutto quello l’ingegno umano sa creare, ora c’è solo più cenere e polvere. La vittoria dei greci, così tanto decantata e cercata, non ha niente di nobile, è anzi frutto di un inganno, una trappola, un cavallo contenente soldati che i troiani introducono nella cinta delle mura come tributo, per una sorta di religiosa pietà.
Di qui l’origine della vittoria, non dettata quindi dal valore, dal coraggio, dalla superiorità morale o etica, ma da qualcosa di empio, meschino, perfino crudele. Il dio dalla parte dei perdenti si prepara ad andarsene provando ripugnanza per i festeggiamenti dei vincitori, che si spartiscono donne indifese portandosi via oro e bottino e arrivando pure, massima empietà concepibile, a depredare gli altari grondanti di sangue.
Il dio sconfitto sottolinea che la guerra è un atto tristemente irreligioso, un delitto contro la gioia degli affetti, che separa figli e madri, mariti e spose, e crea solo orfani e vedove e non trionfanti vincitori. Tra le lacrime e i gemiti dei sopravvissuti si compie un ennesimo strazio, un ampliamento dell’empietà, la totale profanazione di ciò che è sacro, giusto, e inviolabile, la totale soppressione della dignità del vinto.
Atena, la dea vincitrice, dal canto suo non festeggia neanche essa, troppo occupata a rendere amaro il ritorno in patria dei greci da lei difesi, che oltraggiando con la violenza i suoi altari hanno commesso, oltre ad un atto irreligioso, l’abominio dell’irriconoscenza. “Devono imparare a onorare gli dei” argomenta pianificando i suoi propositi di vendetta.
Che l’arbitrio della violenza richieda una punizione è appunto essenziale compito degli dei e un giusto castigo è l’unico mezzo per ristabilire giustizia ed equità.
Euripide utilizza il coro come forza narrante e il personaggio di Ecuba è senz’altro il più umanamente riuscito ed emozionante. Tra tutte le prigioniere, madri, figlie, mogli, l’antica regina, ormai in catene e vestita di stracci, mostra in sé tutta la tragicità di quella realtà. Un tempo madre felice di figli valorosi e di figlie sagge, ora non può più opporsi al destino e può invocare solo la rassegnazione a sua difesa. E’ solo più una schiava, vecchia, destinata alla solitudine e, massima pena possibile, alla privazione della libertà.
“Stesa su un letto di pietra”, molto simile all’alveo di una tomba, non le è concesso che piangere e lamentarsi. Ma in lei qualcosa ancora vive, il suo antico spirito non è spento del tutto e nella sua debolezza trova ancora la forza di un moto di ribellione avversando l’odiosa moglie di Menelao, la bella Elena, causa, o più che altro pretesto, di quella guerra.
Il rancore di Ecuba per l’odiata spartana è privo di riscatto, irrazionale in un certo senso, in lei non c’è perdono. Ecuba identifica in Elena il nemico, la causa della sua desolazione, e questo odio senza perdono rende la sua disperazione inconsolabile.
Ecuba pur tuttavia resta regina, senza bisogno di corona guida e incoraggia le altre prigioniere, e la sua dignità di sovrana spodestata la innalza in una posizione addirittura superiore a quella precedente. La sua nuova grandezza si nutre unicamente della sua forza morale, e non più nello sfarzo delle vesti, nel suo matrimonio prestigioso, nel suo potere dato da uno scettro. La sua regalità è essenziale e assoluta e si identifica nella vera nobiltà e ne fa una figura più grande dei vincitori che si appresta a seguire in catene.

:: L’orologio americano di Arthur Miller a cura di Giulietta Iannone

8 giugno 2008

indexL’orologio americano è un dramma in due atti, con struttura frammentaria, di Arthur Miller.
Apparentemente murales sociale dell’America degli anni ’30, è in realtà una lunga riflessione socioeconomica sul periodo della Grande Depressione. Miller analizza il meccanismo economico legato al “trust” ovvero alla fiducia, piedi d’argilla su cui si poggia l’intera economia. Il tema principale della piece è la descrizione della fine dell’ “innocenza” dell’America (simboleggiata dal ragazzo che ruba la bicicletta al protagonista): la fine del sogno americano.
Tecnicamente è una aspra satira sull’ immaterialità del denaro, sulla spietatezza delle regole dell’economia e nello stesso tempo un’amara riflessione politica sull’inconciliabilità tra utopia e realtà.
Miller fa anche una lucida analisi dei rapporti umani, dei legami familiari che caratterizzano la civiltà contrapposti al materialismo sfrenato che porta alla barbarie. Interessante è la sua analisi sulle cause  della crisi del ’29 che per Miller sono da ricercare in primo luogo in una generalizzata crisi morale che in un secondo tempo si riflettè sia  sulla sfera politica e infine su quella economica. La sua visione del ruolo della guerra principalmente della  “Seconda Guerra Mondiale” è pessimista ed è vista come uno strumento “capitalistico” di riequilibramento del mercato.
La sovrapproduzione accompagnata da una scarsità di moneta, perchè sottratta dai grandi capitalisti per le loro speculazioni, fà si che i magazzini siano pieni di merci che la gente comune, non avendo più soldi, non può comprare. Il conseguente crollo dei prezzi diventa il sintomo allarmante della frattura del ciclo produttivo causato principalmente dalla gestione irrazionale del sistema creditizio da parte delle banche. La fiducia cessa e il crollo del sistema del trust porta a una svalutazione dei titoli azionari, al fallimento delle aziende, alla disoccupazione, e senza stipendi, non circolando moneta,  il sistema è destinato alla paralisi.
Gli interessi sul credito e sul debito principalmente sono per Miller il grande nemico. I grandi capitali non investiti che creano interessi da capogiro sono di per sè un atto economicamente immorale per Miller, e vengono utilizzati dalle banche per speculazioni selvagge su oro, petrolio, costruzioni edilizie. Inoltre i  profitti gonfiati della Borsa ovvero la discrepanza tra “valore reale” e “valore nominale” di un bene poi sono il germe del crollo di Wall Street. La Seconda Guerra Mondiale fu il tragico tentativo quindi di azzerare i debiti e i crediti per fare una sorta di tabula rasa sulle cui ceneri ricostruire l’economia.
Tema caro a Miller è il discorso sul  reddito: un reddito che non consente risparmio è un reddito sterile che incoraggia il risparmiatore a buttarsi nelle maglie dell’usura per qualsiasi spesa imprevista. Il sistema debitorio dei prestiti, negli anni ’30 frequente soprattutto tra i piccoli proprietari terrieri, cuore pulsante dell’America, per ammodernare le attrezzature agricole ed essere competitivi sul mercato, è da Miller equiparato a veri atti di pirateria da parte delle banche che alla minima rata di rimborso non pagata espropriavano le terre. Il sovraindebitamento delle famiglie portò alla tragica crisi agraria che minò la produzione degli stessi beni di sussitenza ovvero i generi di prima necessità e la fame di milioni di persone fu la conseguenza più drammatica .
Le campagne si spopolarono e la gente si riversò nelle città causandone il crollo. Miller contrappone l’etica del “valore” all’etica del “profitto” e vede nella folla dei disoccuapati, nei negozi vuoti, nella gente buttata in strada con materassi, pentole e tegami, la conseguenza ovvia di tutti gli errori economici commessi. I ricchi divennero sempre più ricchi, facendo affari favolosi per quattro soldi, mentre le classi medie che sopravvivevano unicamente con il lavoro furono rovinate e messe sul lastrico.
Miller sostiene che il boom degli anni ’20 fu una gigantesca truffa organizzata dai grandi capitalisti per moltiplicare le loro ricchezze rapinando la gente. Gli avidi affaristi senza scrupoli furono i reali operatori che portarono al crollo dei mercati utilizzando le leggi liberiste del mercato al di là dell’etica del progresso comune e perseguendo utilisticamente  l’arricchimento personale.
Per quanto possa sembrare strano la religione non è esente da responsabilità in questo campo. L’etica protestante della ricchezza come segno della grazia divina e della predestinazione alla salvezza ha un ruolo fondamentale nell’incrementare la concentrazione dei capitali e fomenta l’antisemitismo poichè si contrappone all’etica ebraica che vede, ispirandosi a Quolet, con pessimismo il denaro e la ricchezza (frutto quasi sempre di ingiustizia e idolatria). Chi è veramente onesto difficilmente diventa ricco.
Queste due forze antitetiche serpeggiano segretamente nel mondo americano e fanno sì che si contrappongano capitalismo e socialismo, la destra e la sinistra, i democratici e i repubblicani, i ricchi e i poveri, la corrente di pensiero di stampo protestante e quella di stampo ebraico. L’etica ebraica vede nel denaro un bene/male per la sopravvivenza della comunità; una quantificazine di un concetto astratto che incarna tutti gli idoli ovvero ciò che si adora pur non esistendo. L’etica protestante dal canto suo, base del sistema democratico americano, esalta invece della comunità  l’individuo, la libertà.
Se la libertà non è bilanciata dalla giustizia sociale ben presto qualsiasi economia crolla“. Questa è la lezione che Miller impara dalla crisi del ’29. L’unico rimedio che può esistere è la forza della speranza ovvero la convinzione che la crisi avrà un termine, che in fondo al tunnel c’è sempre una luce.
La forza del sogno è per Miller una forza reale, che sostiene la gente “anima dell’America”. Il titolo, l’orologio americano, si riferisce al tempo e al grido silenzioso delle folle disperate, “fino a quando sopporteremo tutto questo?”
Chiude Robertson con la domanda: potrebbe succedere ancora un ’29? Miller non è consolante, nè consolatorio, e per lui la stupidità umana è senza limiti quindi non ritiene che la lezione serva di esempio alle nuove generazioni anche se con tutto se stesso spera che ciò non debba ripetersi di nuovo. Quando gli chiedono se fu Roosvelt e il “New Deal “a salvare l’ America, Miller scuote il capo e ricorda che fu la “fede” nel domani degli Americani a salvarli.
A questo punto sulla scena cade il buio e si chiude il sipario.

Source: libro preso in biblioteca.