Archivio dell'autore

:: NUOVA COLLANA EDITORIALE DELLA ‘DI FELICE EDIZIONI’ a cura di Patrizia Baglione

26 novembre 2024

La collana “La carena”, diretta da Silvia Elena Di Donato, intende accogliere voci della poesia italiana ispirandosi all’immagine evocativa della carena: essa porta con sé l’idea del mare, ma anche di un mondo sommerso, come sommerso giace l’inesauribile segreto dell’animo umano, porto sepolto oltre il fenomenico rivelarsi delle cose. La carena è quella parte dello scafo che solca le acque e vi resta immersa durante la navigazione, nascosta e sempre in contatto col mare: proprio come la parola poetica, carena delle nostre vite nel mare dell’inafferrabile mistero dell’esistere, capace di penetrare le profondità dell’umano, di aprire varchi e fenditure oltre le apparenze. Capace di vedere orizzonti di senso. La carena, il poeta: per l’alto mare aperto. In continua ricerca. Nel mistero.

Come primo volume, è uscita nel mese di novembre la raccolta PARACHROM. Frammenti e scampoli di tempo di Sergio D’Amaro, con la prefazione di Vincenzo Guarracino il quale scrive: «Due-tre cose in particolare vanno dette e colpiscono: intanto, l’impegno, per così dire, riassuntivamente narrativo della storia individuale e collettiva di una “generazione” attraverso tutta una serie di elementi oggettivi, di “scampoli”; poi, la forma poetica adoperata, la loro organizzazione in terzine endecasillabiche, che reclamano spazio e collocazione letteraria all’interno della tradizione del genere “visione” di dantesca memoria, alla ricerca di una verità di sé; infine, la presenza simbolica del Fato, per dare uno sfondo mitico al grande tema del mistero dell’esistenza individuale, per sottrarla, questo sì, all’insensatezza del suo effimero flusso eracliteo.»

Sergio D’Amaro ha pubblicato numerosi libri, tra cui si segnalano Beatles (Caramanica, 2004), Terra dei passati destini (Manni, 2005), L’allegro destino della signora Mariù (BesaMuci, 2018), Romanzo meridionale (ivi, 2023) e Il pane della sera (ivi, 2024). Presso la casa editrice statunitense Gradiva Publications (New York) è uscita nel 2021 la traduzione inglese del suo libro di poesie Il ponte di Heidelberg / The Bridge of Heidelberg (trad. di C. Siani). È co-autore, insieme a Gigliola De Donato, della biografia di Carlo Levi Un torinese del Sud (Baldini & Castoldi, 2001; 2^ ed. pocket Baldini Castoldi Dalai, 2005), delle cui opere ha realizzato molteplici curatele e su cui ha organizzato alcuni convegni di studio.  

Collabora ad alcune testate tra cui “Il Ponte” e “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È responsabile del Centro Studi “J. Tusiani” di San Marco in Lamis, per i quali dirige la rivista “Frontiere”. Tra i riconoscimenti ricevuti il “Lerici-Golfo dei Poeti” (opera prima) e il “RhegiumJulii”.

:: Aurora di Marina Visentin (Laurana Editore 2024) a cura di Federica Belleri

26 novembre 2024

Chi è Gemma, chi è Vittorio? Chi è Aurora? Chi sono realmente i protagonisti di questa storia? Sono davvero quelli che impariamo a conoscere attraverso le parole dell’autrice o indossano una maschera? 

Queste sono solo alcune delle domande alle quali siamo chiamati a rispondere dopo aver letto questo libro. Domande complesse perché aprono scenari inquietanti, bui. La vita di Gemma, gallerista di successo, ad un certo punto si ribalta, si spezza.

 Qualcosa la sbatte al muro agendo  nell’ombra  e spaventandola.  Tutto si ribalta, si confonde e la confonde. Tutti sembrano puntarle il dito contro. Che fare, fuggire o affrontare? 

La trama è decisamente gialla con una tensione da thriller. I personaggi ruotano su se stessi cercando una spiegazione alla paura, che rasenta l’irragionevolezza. Perché non si può fuggire davanti alle proprie responsabilità, non si può incolpare gli altri per qualcosa che non li riguarda. Non ci si deve convincere di essere innocenti, perché ciascuno di noi ha un lato oscuro. Ognuno possiede un segreto. Ognuno è terrorizzato da ciò che vede o crede di vedere …

Aurora, di Marina Visentin, ci porta a Milano nel periodo natalizio. Dove i colori e gli addobbi lasciano il posto al mistero e alla crudeltà. Dove la ricerca della verità è impresa ardua, quasi impossibile. Oppure no? Magari, semplicemente, non è opportuno parlarne per evitare complicazioni. 

Ho apprezzato questo libro per la ricchezza di contenuti e l’ambientazione. L’intreccio misterioso è ben strutturato. Lo consiglio, buona lettura.

Fonte: omaggio dell’ autore.

:: Il sesso dei moderni: Pensiero del Neutro e teoria di genere di Éric Marty (Castelvecchi, 2024) a cura di Valentina Demelas

26 novembre 2024

Éric Marty, con Il sesso dei moderni: Pensiero del Neutro e teoria di genere – pubblicato in Italia da Castelvecchi e tradotto dal francese da Silvano Facioni – ci accompagna in un viaggio intellettuale affascinante, esplorando due concetti cruciali per il nostro tempo: il Neutro e il genere. Non aspettatevi un manuale di gender studies o una lettura leggera: questo libro è un vero e proprio tuffo nella filosofia contemporanea, che invita a riflettere e a mettere in discussione idee radicate.

Il cuore del libro è il dialogo tra due prospettive che sembrano simili ma, in realtà, si muovono in direzioni molto diverse. Da un lato c’è il Neutro, un concetto profondamente legato alla tradizione filosofica francese e al pensiero di Roland Barthes, che lo vede come una sospensione delle categorie. Il Neutro non cerca di definire, ma di liberare, aprendo uno spazio per sfuggire alle rigide opposizioni come maschile/femminile, attivo/passivo, singolare/plurale.

Dall’altro lato c’è la teoria del genere, rappresentata da Judith Butler e dal pensiero anglosassone. Qui non si parla di eliminare le categorie, ma di espanderle, ridefinirle e moltiplicarle. Per Butler, il genere non è qualcosa di fisso, ma una costruzione sociale che si manifesta attraverso i nostri comportamenti, il linguaggio e le norme culturali. Marty mette a confronto queste due visioni, mostrando come, pur condividendo l’obiettivo di superare le rigidità, il Neutro e il genere seguano strade radicalmente diverse.

Una delle qualità più grandi del libro è la capacità di Marty di intrecciare il pensiero di alcuni giganti della filosofia moderna. Roland Barthes, con il suo desiderio di sfuggire alle classificazioni, Derrida e il suo approccio decostruttivo, Foucault e l’analisi del potere, fino a Judith Butler e la teoria del genere come performance. L’autore non si limita a citarli: li fa dialogare, creando connessioni e sottolineando differenze.

Ad esempio, Barthes vede nel Neutro quasi un atto poetico, un gesto di resistenza contro le strutture imposte. Butler, al contrario, analizza come il genere sia costruito e ricostruito continuamente attraverso le nostre azioni. Il lettore viene accompagnato in questo confronto con una scrittura che, pur densa di riferimenti, riesce a rimanere accessibile a tutti.

Pagina dopo pagina, non ci vengono offerte risposte preconfezionate, ma ci vengono poste domande essenziali. Cosa significa davvero parlare di genere? In che modo il Neutro può aiutarci a ripensare le identità? E quali sono le conseguenze culturali e politiche di queste teorie? Leggere questo libro significa confrontarsi con questioni che vanno oltre il mondo accademico e toccano il nostro quotidiano. Il dibattito su genere e identità, infatti, non è solo filosofico: è vivo, urgente e centrale nella società di oggi.

Nonostante la complessità dei temi, Marty riesce a mantenere il suo discorso chiaro e coinvolgente. Ogni capitolo aggiunge un tassello a un mosaico che si completa man mano, offrendo una visione sempre più ampia e profonda di queste tematiche che fanno ormai parte del nostro quotidiano. Non serve essere esperti per seguire il ragionamento, ma curiosità e apertura mentale sono indispensabili.

Una lettura preziosa per chiunque voglia andare oltre le semplificazioni e capire davvero cosa significhi parlare di identità, genere e Neutro. Non si tratta solo di teoria, ma di strumenti per interpretare le dinamiche culturali e sociali che ci circondano.

Con questo libro, Éric Marty ci invita a riconsiderare le nostre certezze e ad aprirci a nuove prospettive. Il confronto tra Neutro e genere non è una questione astratta: è una chiave concreta per comprendere le tensioni e le sfide della modernità. Leggerlo significa mettersi in gioco, riflettere e, forse, cambiare il modo in cui vediamo il mondo. Il sesso dei moderni: Pensiero del Neutro e teoria di genere non è solo un saggio, è un invito a pensare. Se si desidera approfondire i temi più discussi dell’oggi, questo libro è davvero un punto di partenza fondamentale.

Éric Marty è Professore emerito di letteratura contemporanea all’Université Paris-Cité. Scrittore e saggista, si è occupato, tra gli altri, di Sade, André Gide e Roland Barthes, di cui ha curato l’edizione delle opere complete. In italiano è uscito L’engagement estatico. Su René Char (Quodlibet, 2020).

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo l’ufficio stampa Castelvecchi.

:: Note di lettura di Patrizia Baglione: Finché il caffè è caldo di Toshikazu Kawaguchi

26 novembre 2024

Il caffè, in questo libro, diventa simbolo di transitorietà e fragilità della vita. La regola di tornare nel passato solo finché il caffè è caldo rappresenta il tempo limitato che abbiamo per affrontare le nostre emozioni e rimediare ai nostri errori. Questo elemento di tempo crea una tensione narrativa, poiché i personaggi devono affrontare le loro esperienze in un arco temporale ristretto. Uno dei messaggi più forti del romanzo è che, sebbene non possiamo cambiare il passato, possiamo imparare da esso. Le storie mostrano che è possibile trovare una forma di felicità e pace interiore anche dopo esperienze difficili. La connessione con gli altri, il perdono e la comprensione sono elementi chiave per affrontare le sfide della vita. Kawaguchi utilizza un linguaggio semplice ma evocativo, creando una prosa che è accessibile ma profondamente toccante. I dialoghi sono naturali e riflettono le emozioni dei personaggi, permettendo ai lettori di immedesimarsi nelle loro esperienze.

:: Abbiamo tutti bisogno di un amico fragile di Nicola Vacca (Edizioni Qed, 2024) a cura di Giulietta Iannone

25 novembre 2024

Ci vuole una grande ostinazione
per essere liberi
nella prigione del mondo.
Perché libertà è amore
nonostante le catene dell’ordine costituito.

Chi ha amato la poesia dolente e sofferta di Fabrizio De Andrè troverà ristoro nella lettura della silloge Abbiamo tutti bisogno di un amico fragile di Nicola Vacca, Edizioni Qed, omaggio al poeta genovese a venticinque anni dalla scomparsa. Nicola Vacca è un poeta fuori dal coro, usa un linguaggio graffiante e incisivo per protestare contro un mondo, una società, in lento avanzato decadimento. Non ha paura di sporcarsi le mani, di usare parole forti, anarchiche, piene di rabbia e di giusto sgomento. Ci vuole coraggio a immergersi nel magma del suo “fare poesia” senza filtri, compiacimento, rassicuranti illusioni. Vacca scoperchia il calderone dell’ipocrisia con tagli netti, chirurgici, che a volte fanno male, e lo fa per guarire, per scuotere le coscienze, per risvegliare le anime di chi da troppo tempo è assonnato o inerte. Leggere le poesie di Nicola Vacca è sempre un’esperienza catartica, rivoluzionaria, che può turbare anche nel profondo. Scrivo queste righe a fatica con la morte nel cuore, è appena morto un amico, e sto cercando di reagire, di andare avanti, di superare l’angoscia che provo, Nicola Vacca mi perdonerà se questo commento sarà breve, ha sempre tanto rispetto e stima da mandarmi ogni suo nuovo libro per sapere il mio parere e non voglio deluderlo neanche questa volta. Oltre alle poesie da leggere in conclusione la postfazione vibrante dedicata a Fabrizio De André Il nostro Faber – La vibrante protesta di Faber il poeta. Da segnalare i disegni di Mauro Trotta.

Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle, nel 1963, laureato in giurisprudenza. È  scrittore, opinionista, critico letterario,  collabora alle pagine culturali  di quotidiani e riviste. Svolge, inoltre, un’intensa attività di operatore culturale, organizzando presentazioni ed eventi legati al mondo della poesia contemporanea. Dirige la riviata blog Zona di disagio. Ha  pubblicato: Nel bene e nel male (Schena,1994), Frutto della passione (Manni 2000), La grazia di un pensiero (prefazione di Paolo Ruffilli, Pellicani, 2002), Serena musica segreta (Manni, 2003), Civiltà delle anime (Book editore, 2004),  Incursioni nell’apparenza (prefazione di Sergio Zavoli Manni 2006), Ti ho dato tutte le stagioni (prefazione di Antonio Debenedetti, Manni 2007Frecce e pugnali (prefazione di Giordano Bruno Guerri, Edizioni Il Foglio 2008) Esperienza  degli affanni (Edizioni il Foglio 2009), con Carlo Gambescia il pamphlet A destra per caso (Edizioni Il Foglio 2010), Serena felicità nell’istante (prefazione di Paolo Ruffilli, Edizioni Il Foglio 2010),  Almeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio, 2011), Mattanza dell’incanto  ( prefazione di Gian Ruggero Manzoni Marco Saya edizioni 2013), Sguardi dal Novecento (Galaad edizioni 2014) Luce nera (Marco Saya edizioni 2015, Premio Camaiore 2016), Vite colme di versi (Galaad edizioni 2016), Commedia Ubriaca (Marco Saya 2017), Lettere a Cioran (Galaad edizioni 2017), Tutti i nomi di un padre (L’ArgoLibro editore 2019), Non dare la corda ai giocattoli (Marco Saya edizioni 2019), Arrivano parole dal jazz (Oltre edizioni 2020).

Source: libro inviato dall’editore.

Ciao, Davide

24 novembre 2024

Nella notte tra giovedì e venerdì 22 novembre è morto nel sonno Davide Mana e credo sia giusto dirgli addio, ma davvero nei giorni scorsi non riuscivo a spiccicare una frase di senso compiuto senza scoppiare a piangere. Davide era troppo buono per volere che i suoi amici piangano per lui, ovunque è ora, e io l’immagino in Cielo in compagnia della sua mamma, che se Davide era l’uomo meraviglioso che era molto lo dobbiamo a lei, l’ha educato come ogni madre vorrebbe educare un figlio, ci sta guardando e non vuole assolutamente che ci abbandoniamo alla depressione. Davide per chi l’ha conosciuto e gli è stato amico, o anche per i semplici lettori che hanno letto i suoi libri era così come appariva, colto, intelligente, amante dell’arte della bellezza, e soprattutto della musica, divertente, generoso, sincero, buono e forse non tutti sanno anche un ottimo cuoco, la sua zuppa di cipolle faceva epoca e se aveva un dono era quello di sapere insegnare. Ci siamo scritti per molti anni, e seguiti sui social, se ho iniziato a scrivere e pubblicare su Amazon, è stato per suo consiglio, mi ha sempre incoraggiata, apprezzata, ha tradotto in inglese alcuni miei racconti (era praticamente bilingue, conosceva e scriveva in inglese tanto e forse meglio che in italiano, se la cosa fosse possibile). Quando ha lasciato Torino per ritirarsi in provincia di Asti per assistere suo padre assieme a suo fratello ha potuto iniziare una carriera facendo ciò che amava, scrivere storie e mantendosi con esse, chi può dire altrettanto in Italia. Forse è più conosciuto all’estero, che in Italia, nei paesi anglofoni era un nome rispettato e amato. Pubblicava sulle riviste internazionali e con i migliori editori di genere, ed era un traduttore sofisticato e incredibilmente creativo e preciso, anche Mondadori ultimamante se ne era accorta e gli aveva commissionato opere importanti da tradurre. Per voi posso consigliare il suo blog in italiano Strategie evolutive e quello in inglese Karavansara e gli articoli che ha scritto per il nostro blog e di cercare i suoi lavori su Amazon e in rete. Ci restano i suoi scritti con i suoi consigli di lettura, le sue riflessioni sulla vita, sull’amore, sull’arte, e la sua calda umanità ed empatia. Voi perdete un artista di incredibile talento, io perdo un amico a cui ho voluto molto bene, forse uno dei miei migliori amici che mi mancherà ogni singolo giorno.

:: Davide Mana (Torino, 1967-Asti, 2024)

23 novembre 2024

Ieri è mancato Davide Mana, dopo lunga malattia, ne do notizia oggi, dopo avere avuto conferma, ad amici e lettori con il cuore carico di dolore. Ho sperato fino all’ultimo in un miracolo ma il suo percorso terreno era finito e ora è passato oltre. E’ stato per me un caro amico oltre che collaboratore. Era uno scrittore, un traduttore, un divulgatore culturale, uno scienziato, un insegnante e soprattutto un essere umano meraviglioso. E’ difficile per me scrivere queste righe, spero di elaborare il lutto e scrivere in futuro un suo profilo che gli renda giustizia. Per chi desiderasse dargli un ultimo saluto la cerimonia di commiato si terrà mercoledì 27 novembre alle ore 15.00 al Tempio Crematorio di Asti.

:: FILM SU BERLINGUER: AGIOGRAFIA PIU’ CHE BIOGRAFIA, a cura di Antonio Catalfamo

19 novembre 2024

Ho visto il film di Andrea Segre su Enrico Berlinguer. La mia curiosità è stata stimolata dalla grande propaganda che intorno ad esso è stata sapientemente orchestrata attraverso i mass-media. Confesso di essere rimasto deluso. Sia chiaro: il regista ha dimostrato tutta la sua competenza tecnica e l’attore protagonista ha dato ampio saggio della sua professionalità.

Ma, al di là dell’aspetto prettamente tecnico, si pone inevitabilmente la questione dei contenuti, del modo in cui sono stati presentati al pubblico gli avvenimenti oggetto della rappresentazione cinematografica. Ho trovato il film marcatamente agiografico. A mio avviso, la «strategia comunicativa» perseguita abilmente dal regista è stata quella di coniugare due esigenze fondamentali.

Da un lato, assecondare la nostalgia intorno alla figura di Berlinguer che anima una fascia di pubblico che ha condiviso, per motivi generazionali, la sua esperienza politica di segretario nazionale del Partito comunista italiano. Si tratta di un’ampia area di persone che, nei decenni a seguire, hanno perlopiù seguito un percorso comune, che è quello dell’adesione ai vari partiti (Pds, Ds, Pd) che sono nati per effetto dello scioglimento del Pci e che trovano conforto nella politica del «compromesso storico» portata avanti da Berlinguer per giustificare la scelta di un processo politico che si è concluso con la nascita di un soggetto, il Partito democratico, che ha unito in sé una parte degli ex comunisti e una componente dell’ex Democrazia cristiana.

Dall’altro lato, il regista ha voluto consolidare una certa immagine di Berlinguer e del Pci a beneficio delle nuove generazioni, presenti e future. Un progetto ambizioso, che sicuramente è destinato ad incidere e ad ottenere risultati tangibili.

Un film agiografico, dicevamo, e, per ciò stesso, poco problematico, conseguentemente esaltatorio e tutto volto ad agire sulla sfera emotiva del pubblico, piuttosto che sulla riflessione critica e, per quanto riguarda i più anziani, anche autocritica.

E’ vero: la personalità di Berlinguer viene ricostruita come tormentata, angosciata dal susseguirsi di avvenimenti drammatici, che hanno un epilogo disastroso, seppur improntata ad alcune scelte di fondo che il politico intende perseguire in maniera intransigente. La «grande ambizione», di cui parla il titolo del film, è quella di dar vita, attraverso il «compromesso storico», ad una collaborazione tra le maggiori forze politiche di estrazione popolare, la Dc e il Pci, per realizzare nel Paese un sistema di riforme tale da assicurare un cambiamento in senso democratico e progressista.

La ricostruzione storica degli avvenimenti è, però, tendenziosa, tutta incentrata sulle passioni del protagonista, sulle sue idee, perseguite con coerenza, sul suo spessore umano e politico-culturale. La prima vittima sacrificale è rappresentata dal dibattito interno al Pci suscitato dal «compromesso storico». Un dibattito che fu aspro, vide posizioni fortemente contrapposte, anche se, in buona parte, fu soffocato dal segretario e dal gruppo dirigente raccolto intorno a lui con la defenestrazione dei suoi antagonisti o con la loro emarginazione attraverso metodi molto discutibili e tutt’altro che democratici.

Nel film questi antagonisti vengono ridotti al rango di semplici comparse, alle quali viene affidata la pronuncia di qualche frase. E’ questa una rappresentazione molto riduttiva di personaggi come Umberto Terracini, fondatore del partito nel 1921, assieme a Gramsci e a Togliatti, condannato dal regime fascista a 22 anni di reclusione, presidente, nell’immediato secondo dopoguerra, dell’Assemblea Costituente, a cui fu affidato il compito di redigere la nuova Costituzione, che porta in calce la sua firma, capogruppo del partito al Senato per lunghi anni e figura di primo piano della lotta politica; come Pietro Ingrao, al quale viene affidata nel film una frase isolata, seppur significativa (laddove egli contesta il progetto di realizzare il cambiamento della società italiana collaborando con la Dc e con uomini come Andreotti che hanno malgovernato per decenni il Paese e sulle cui spalle si addensano pesanti responsabilità); come Luigi Longo, segretario del partito prima di Berlinguer e poi presidente, che manifestò tutta la sua contrarietà al «compromesso storico», a partire dalla stessa definizione adottata, ma che nel film non fa neanche capolino.

Armando Cossutta compare di sfuggita nel momento in cui viene destituito da Berlinguer dal suo compito di tenere i rapporti con il Pcus, sostituito da Gianni Cervetti, e affidato al settore degli Enti locali, e pronuncia brevi frasi che racchiudono la sua preoccupazione per una rottura con l’Unione Sovietica nel momento in cui il Pci è esposto a gravi pericoli che provengono da tutt’altra direzione, come lo sviluppo degli avvenimenti dimostrerà ampiamente. L’immagine di Cossutta come semplice uomo di Mosca è anch’essa molto riduttiva. Si tratta di un dirigente che viene dalla Resistenza ed è stato chiamato a far parte della segreteria nazionale dal segretario che ha preceduto Berlinguer, Luigi Longo, per l’appunto. In linea con le posizioni di quest’ultimo, è stato pubblicamente contrario all’intervento delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia, e, successivamente, sotto la segreteria Berlinguer, all’intervento sovietico in Afghanistan, nel 1979. E’ la persona a cui Longo ha affidato il compito di occuparsi dei rapporti con l’Urss per conto del Pci, del quale ha rappresentato gli interessi nelle relazioni bilaterali.

Nel film non compare Ambrogio Donini, storico delle religioni, docente universitario, uno dei capi del Centro esteri del Pci durante il fascismo, esule in vari Paesi nel ventennio della dittatura mussoliniana, autore di un tentativo di liberare Gramsci dalla prigionia attraverso una trattativa mediata dal Vaticano, primo lettore dei Quaderni del carcere, assieme a Togliatti, pervenuti avventurosamente in copia. Donini è il vero punto di riferimento del Pcus in Italia. Sarebbe un’offesa alla sua cultura accademica considerarlo un grigio e dogmatico uomo d’apparato. E’ uno di quelli con i quali Berlinguer ha usato la mano pesante, escludendolo nel 1979 dalla Commissione Centrale di Controllo senza neanche preavvisarlo, come emerge dalla corrispondenza epistolare intrattenuta da Donini con Nino Pino Balotta, già deputato comunista nelle prime tre legislature della Repubblica e anch’egli amico dell’Urss, come uomo di cultura e scienziato di fama internazionale.

L’elenco di coloro che sono stati estromessi ad opera di Berlinguer e dagli uomini che lo attorniano è abbastanza lungo. Si tratta di dirigenti di vecchia data che hanno servito la causa in circostanze difficili, pagando di persona. Un patrimonio di esperienze di cui Berlinguer ha ritenuto di dover privare il partito, mettendo al loro posto persone che poi l’hanno sciolto, come Achille Occhetto, Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Piero Fassino (solo per fare alcuni nomi).

Il film rappresenta il dramma personale di Berlinguer di fronte al rapimento del segretario della Dc, Aldo Moro, e al fallimento del «compromesso storico». Ma non dà conto di quello di migliaia di militanti e di ex dirigenti, defenestrati ai vari livelli, che hanno subito enormi discriminazioni nell’ambito del nuovo sistema creato da Berlinguer assieme alla Dc e al quale è stato dato il nome di «consociativismo».

Non mostra gli effetti nefasti della politica della «concertazione» nei confronti della massa dei lavoratori. Qui basta ricordare che, lungo la scia del «compromesso storico», Luciano Lama, segretario della Cgil, con la «svolta» dell’Eur, nel 1978, accettò la politica di riduzione dei salari, in nome della partecipazione dei lavoratori ai sacrifici imposti dalla crisi economica, in cambio di un promesso aumento dell’occupazione che non si ebbe.

Non rappresenta l’effetto politico principale del «compromesso storico» nell’ambito della sinistra italiana: l’indebolimento del Psi (di fronte ad un accordo tra i due maggiori partiti non poteva che risultare soccombente), la conseguente emarginazione interna del segretario pro tempore Francesco De Martino, l’ascesa al potere di Craxi, in nome dell’autonomismo socialista, che portò da lì a poco alla sua investitura a segretario del partito. I rapporti tra comunisti e socialisti ne risultarono compromessi per sempre e le prospettive di un’alternativa della sinistra alla Dc svanì.

Il film di Andrea Segre ritiene opportuno concludere con il rapimento Moro, tralasciando tutti gli aspetti che ho segnalato e la loro proiezione distruttiva sulla vicenda politica futura.

E’ un film che fa leva sull’emozione acritica e sulla nostalgia, presunta e ingiustificata, piuttosto che sulla ragione critica e sulla riflessione storica, molto più complessa ed articolata.

:: Sono io il tuo destino di Domenico Cacopardo Crovini (Ianieri, 2024) a cura di Patrizia Debicke

19 novembre 2024

L’adulterio, benché dal 1981 il delitto d’onore sia stato trasformato dal codice penale in un normale delitto, può scatenare ancora nel 2002 risposte assassine? E fornire una qualche ragione per giustificarle? Magari potrebbe bastare il fatto di avere origini messinesi o meglio di Monturi Superiore?
Tanto meno per loro una coppia di successo, Temoteo Barraci e Berenice Stellanotte detta Nice, da anni trasferita in terra Padana e più precisamente in provincia di Reggio Emilia? Lui medico chirurgo che lavora bene come medico di base e lei veterinaria, collaboratrice di uno studio prestigioso, con frequentazioni di alto livello, diventati soci del locale ed esclusivo Golf .
Unico neo, la mancanza di figli. Quello in arrivo e per il quale si erano sposati prima del previsto è saltato per colpa di un maledetto incidente sul lavoro, il calcio di un cavallo, che aveva privato Berenice della possibilità di averne ancora. Ma non pareva aver intaccato la solidità del loro rapporto matrimoniale ben rodato. Non per loro, una coppia moderna con la testa sulla spalle. Oddio per Temoteo la mancanza di un figlio maschio gioia e onore di ogni siciliano… E ohimè l’idea di una possibile adozione prospettata a Nice, e che non aveva mai avuto alcun seguito, gli provocava sorda inquietudine. Alla quale dare sfogo in diverse saltuarie e successive relazioni, il maschio è sempre maschio e la tentazione della carne sovrana, mentre lei , invece, circa sette anni dopo cederà solo alla confortante, continua e comoda e ben più che affettuosa presenza in casa loro ospite, di Santo, un giovane cugino messinese. In teoria venuto per studiare, ma decisamente negato e scioperato nell’animo. Nel frattempo però Temoteo ha intrapreso una soddisfacente relazione con Molly, una graziosa maestrina con i capelli rossi e gli occhi verdi (che gli ha detto : “Sono io il tuo destino!”) e dovrebbe e potrebbe poterlo essere davvero, basterebbe rispettare le regola del viver civile: separarsi dalla moglie e poi divorziare …
Se non… Temoteo non si fosse lasciato goffamente intrappolare nella sicilianissima e tentatrice rete del delitto d’onore osannata da una visione siciliana tuttora in vigore, quando a essere leso è il maschio, ridesta un qualcosa di incontrollabile e in cui domina la diffusa mentalità isolana (il cambiamento delle leggi non ha toccato una cultura intrinseca, caratterizzata ancora al patriarcato). Insomma come i diritti femminili continuino indefinitamente ad essere subordinati a quelli “superiori” dei maschi, per cui l’uomo con le corna deve reagire in qualche modo sennò…
E rubando l’iconica frase descrittiva di Alessandro Manzoni riferita alla Monaca di Monza: Cacopardo si compiace di trasformarla al maschile in : “e lo sventurato rispose” prima di regalarla al suo protagonista, affidandogli il gravoso compito di compiere un “vendicativo” ma improvvido e maldestro delitto padano per lavare l’onore leso dalla moglie, con il suo “domestico”, e ripetuto tradimento con il cugino Santo.
Insomma Cacopardo impugna la bacchetta magica e, in uno Zac, crea con intelligente ma crudele ironia il suo tragico giallo/noir siculo parmense.
Ci offre come su un vassoio d’argento un delitto premeditato, un amore irregolare, la clandestinità, il lungo processo e i tanti vantaggio ottenibili da un detenuto “ben appoggiato”. Viviamo con i personaggi della sua storia certune realtà culturali e sociali, lo scandalo, siamo testimoni della commedia processuale condotta come uno scenografico balletto in un ideale palcoscenico destinato oltre che agli spettatori, a televisione e testate giornalistiche.
Viviamo purtroppo in un’epoca molto “italiota ” con i femminicidi all’ordine del giorno, con la cronaca nera che ci squaderna quotidianamente le foto dell’ennesima vittima . Non solo vittima di un uomo ma anche di una società che non riesce a emanciparsi dal suo passato. La necessaria strada del cambiamento pare diventata impercorribile.
L’ amore però, quello vero, non fa commettere crimini. Temoteo il protagonista non pensa certo all’amore quando uccide per un superato pregiudizio sociale. Quell’osceno pregiudizio che non permette di immaginare la persona amata altro di una proprietà, una proprietà da considerare come un malriposto e onorifico emblema da difendere a ogni costo e purgare solo versando sangue.
Un osceno e lo ripeto, pregiudizio sociale per cui il protagonista ha rovinato la sua vita e ogni possibile futura felicità. Una storia di infelicità che ci dimostra come ciascuno possa farsi artefice e nemico del proprio fato.
Un romanzo particolare in cui Domenico Cacopardo prova a coniugare l’ inginocchiarsi a vecchie e aberranti tradizioni con una distopica futura visione italiana. Infatti partendo dal prologo ma poi arrivando a far finire la sua storia nel 2026, dopo che s’è consumata una vera e propria rivoluzione con l’anticostituzionale occupazione di una immaginaria Padania. Occupazione portata avanti con un colpo di stato leghista e scissionista al nord, con l’appoggio di truppe mercenarie della Brigata Wagner sponsorizzate dalla Russia, nel tentativo di dividere la nuova entità politica e territoriale dall’Italia, ci propone una surreale ma temibile realtà in divenire?

Domenico Cacopardo Crovini, nato nel 1936, è vissuto in giro per l’Italia al seguito di suo padre, funzionario pubblico, Consigliere di Stato in pensione, ha collaborato e collabora con numerose testate giornalistiche nazionali e locali. Ha insegnato nelle università di Torino e Roma-Luiss. Ha scritto venti romanzi, tra i quali la nota e fortunata serie di gialli che ha per protagonista il magistrato Agrò, edita da Marsilio. Ha pubblicato anche con Mondadori, Baldini&Castoldi, Diabasis e altri. Per la Ianieri Edizioni ha pubblicato Pater (2022) e Pas de Sicile. Ritorno a Candora (2023).

:: Charlie nella foresta di Chiara Lossani, illustrazioni di Maria Cristina Bet (Storiedichi Edizioni 2024) a cura di Giulietta Iannone

17 novembre 2024

Bell’albo illustrato dalla copertina cartonata e dal sapore ambientalista, Charlie nella foresta di Chiara Lossani ci narra le avventure di Charlie e del suo cane Milo che un giorno si avventurano nella foresta degli abeti bianchi vicino casa e il bambino vincendo le sue paure, in un percorso di crescita, per seguire un pallone, entra in contatto con la natura: gli animali, gli alberi, gli eventi atmosferici e torna a casa con un cucciolo di lupo. Le illustrazioni sono deliziose, realizzate interamente a mano con tecnica mista acquarello-pastelli dalla talentuosa disegnatrice Maria Cristina Bet, che il bambino può copiare giocando coi pastelli. Inoltre il libro, di grande formato, si presta alla lettura ad alta voce e vengono suggeriti laboratori artistici da svolgere con materiali naturali, pigne, foglie, sassi, fiori e sottofondo di rumori della foresta per una lettura interattiva e arricchente. L’età indicata di lettura è dai 5 anni in su. Della stessa illustratrice Buon volo, ape Regina, (Storiedichi Edizioni 2023).

Chiara Lossani Milanese, già direttrice di due biblioteche della provincia di Milano e fondatrice della Biblioteca delle Storie Infinite, a Trezzano sul Naviglio, pubblica da molti anni in Italia e all’estero. I suoi libri illustrati raccontano antiche fiabe, miti e la vita e le passioni di grandi artisti, come Van Gogh (pubblicato in 14 lingue), Frida Kahlo, Vermeer, Michelangelo, Dalì (Arka Edizioni). Nei suoi romanzi storia e arte vengono narrate attraverso le vicende parallele di ragazzi che incontrano donne e uomini che hanno avuto il coraggio di cambiare, primo fra tutti Gandhi (Edizioni San Paolo). Due volte White Ravens con il romanzo Stregata da un pitone (Giunti editore) e l’albo illustrato Vincent van Gogh e i colori del vento (Arka Edizioni), premi e riconoscimenti anche internazionali hanno qualificato il suo lavoro.

Maria Cristina Bet Vive a Vittorio Veneto (Treviso). Negli anni Novanta ha seguito i primi corsi estivi del maestro Štěpán Zavřel, fondatore della Scuola Internazionale di Illustrazione di Sarmede, e ha proseguito nella formazione partecipando ai corsi di Arcadio Lobato, Svjetlan Junakovic, Gabriel Pacheco, Anna Castagnoli e Giovanni Manna. Per Storiedichi Edizioni, ha realizzato le illustrazioni del suo albo di esordio, Buon volo, ape Regina, scritto da Monica Colli e Alessandro Volo.

Source: albo inviato dall’editore. Ringraziamo Francesca Tamberlani di LaChicca Ufficio Stampa Specializzato in libri per bambini e ragazzi.

:: É MORTO FRANCO FERRAROTTI, PADRE DELLA SOCIOLOGIA ITALIANA, a cura di Antonio Catalfamo

15 novembre 2024

Apprendo dai mass-media della morte di Franco Ferrarotti. Aveva 98 anni. Nonostante l’età avanzata, la sua presenza costante nel dibattito culturale, che non sfociava mai nel presenzialismo fine a se stesso, in quanto sempre apportatrice di idee nuove ed originali, spingeva tutti quelli che lo seguivano ed apprezzavano a non abituarsi alla sua dipartita, che fa avvertire un vuoto unanimemente ritenuto incolmabile. Ed egli, fino all’ultimo, ha dimostrato un’enorme vitalità, che ha suffragato le aspettative generali.

Io l’ho sentito alcune settimane fa, allorquando mi ha confermato la sua collaborazione al ventitreesimo volume di studi internazionali su Cesare Pavese, in corso di preparazione, che sto curando, come i precedenti, per conto della Fondazione intitolata a Santo Stefano Belbo (Cuneo) allo scrittore langarolo amico di Ferrarotti sin dai tempi in cui entrambi si trovarono a dover vivere da clandestini (Pavese come precettore presso il Collegio Trevisio e Ferrarotti come precoce «gappista»), dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, nell’area compresa tra Casale Monferrato e il Santuario di Serralunga di Crea. Insieme i due amici ascendevano la salita che portava al luogo sacro discutendo dei grandi misteri della vita, a partire dal significato del mito, in mezzo ad una doppia fila di soldati tedeschi, in cerca di renitenti alla leva e di partigiani da catturare e sterminare, sfidandoli con sottile ironia attraverso il canto del Chorus Mysticus che conclude il Faust di Goethe, a voler dire loro che, accanto alla Germania criminale e razzista di Hitler, vi era quella di Goethe, di Beethoven, di Schiller, che mirava, invece, ad affratellare gli uomini in nome della cultura e della civiltà.

L’amicizia con Pavese si consolidò negli anni a seguire, allorché Ferrarotti fu chiamato a tradurre, per sua intercessione, per conto dell’editore Einaudi, presso il quale il vecchio amico ricopriva una carica di primo piano, libri fondamentali come La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen. E l’illustre sociologo è tra le ultime persone (forse l’ultima) alle quali Pavese telefonò, senza trovarlo, prima di suicidarsi, nell’agosto del 1950, in una camera dell’Albergo Roma di Torino. Ferrarotti, nei suoi interventi in vari volumi da me curati, ha saputo dare un’immagine di Pavese che sfugge allo stereotipo dell’ «eterno fanciullo», incapace di crescere. Ce lo ha presentato nelle sue contraddizioni, ma anche nella sua pienezza di vita e delle idee creative, nel suo «fare» infaticabile.

Ferrarotti era nato a Palazzolo Vercellese nel 1926. Aveva avuto un’infanzia difficile, a causa delle malattie respiratorie e delle difficoltà economiche della famiglia, che aveva superato grazie all’aiuto finanziario e alla guida intellettuale dello zio Leopoldo, alto prelato e uomo di ampia cultura, non solo religiosa. Così aveva imparato a conoscere i classici e a valorizzare gli insegnamenti che ne derivano per i posteri, fino ai nostri giorni.

Si era laureato in Filosofia all’Università di Torino, nel 1949, con una tesi di Sociologia, dedicata proprio a Veblen, rifiutata da Augusto Guzzo, che si era trincerato dietro le resistenze del mondo accademico (ma, evidentemente, anche sue) nei confronti di questa disciplina, considerata, sulla scorta di Croce, poco «scientifica» («inferma scienza» l’aveva definita il filosofo neo-idealista), ed accettata da Nicola Abbagnano, il quale stimava tanto il suo allievo da fargli da vice-direttore, allorquando questi, nel 1951, decise di fondare una propria rivista, «Quaderni di Sociologia», poi sostituita, nel 1967, da un’altra, «La Critica Sociologica», ancora attiva al momento della morte di Ferrarotti e da lui diretta con grande slancio, sino alla fine.

Il Nostro aveva vinto nel 1961 il primo concorso del secondo dopoguerra per la neonata cattedra di Sociologia, sorta, dopo le mortificazioni a cui il fascismo aveva sottoposto questa disciplina, quasi cancellandola (se il regime ha risolto tutti i problemi della società, non c’è bisogno di una materia che li studi!), presso l’Università «La Sapienza» di Roma. Ferrarotti ha, inoltre, insegnato in prestigiose università straniere, soprattutto americane, ma non solo.

Ma ha voluto essere (ed è stato) un «accademico anti-accademico», in quanto ha rifiutato la “fossilizzazione” a cui l’università spesso sottopone la cultura, che, invece, per Ferrarotti è continuo incontro-scontro tra idee, se necessario anche aspro, senza il quale essa non può progredire e raggiungere nuovi traguardi conoscitivi. Ha considerato Socrate il primo sociologo, in quanto ha praticato e trasmesso un sapere, per l’appunto, aperto ad ogni apporto, anche quello popolare, valorizzando la «doxa», l’opinione, rispetto all’«episteme» d’ascendenza platonica, che punta su una scienza chiusa in se stessa e nella propria presunta certezza e perfezione, nonché nella propria autosufficienza.

Ferrarotti ha studiato a fondo i meccanismi attraverso i quali il potere si costruisce, si consolida e pretende di perpetuarsi, partendo dal capitalismo nordamericano, che ha costituito il punto di riferimento per tutto l’Occidente. Egli ne ha seguito gli sviluppi, fino alla fase attuale della società informatizzata, digitalizzata ed iperconnessa, di cui è stato il più lucido analista fortemente critico nei confronti dei suoi effetti disumananti. Ha stigmatizzato i pericoli che caratterizzano il passaggio dalla civiltà del libro a quella dell’audiovisivo. Il libro costringe il lettore a riflettere, a ragionare, a ponderare le varie opzioni. L’audiovisivo colpisce la parte emotiva del cervello, saltando il filtro della ragione. Gli individui sono bersagliati quotidianamente da milioni di messaggi che trasmettono in maniera paludata ordini che essi eseguono in uno stato di «sonnambulismo», che non può essere definito neanche «irrazionale», bensì «a-razionale». L’individualità, che dovrebbe rappresentare l’unità umana non ulteriormente scindibile («in-dividuum» significa «indivisibile»), si sbriciola come un biscotto e prevale il cosiddetto «effetto gregge». Ciò vale soprattutto per i giovani, che hanno una ridotta capacità critica, e, quindi, costituiscono quello che Ferrarotti, in un suo libro, ha definito «un popolo di frenetici, informatissimi idioti», che sanno tutto e non capiscono niente. I pericoli che ne derivano per il sistema democratico, per i fondamenti stessi della democrazia, sono molto gravi.

Ferrarotti, in contrapposizione a questo tipo di società, propone una ripresa di alcuni principi fondamentali della vecchia società contadina. Non si tratta di una prospettiva conservatrice, perché non si chiede qui un ritorno a rapporti di produzione semifeudali, ma il recupero della sostanza umana del mondo contadino, che richiama alcuni principi aurei delle civiltà classiche: «Ne quid nimis» («Niente oltre misura»); «Festina lente» («Affrèttati lentamente»); «Age quod agis» («Fa’ bene quel che devi fare»). Bisogna riacquisire i ritmi della società contadina, nella quale ogni uomo si muoveva con cautela, avanzava con ponderazione, calcolando i singoli gesti, per evitare le insidie e le asperità del terreno. E’ tutta una dimensione umana del vivere e del pensare che va recuperata.

Ferrarotti ha dedicato grande attenzione al sistema educativo e alla sua interazione con la società, evidenziandone i limiti e le storture. In un’intervista rilasciata di recente (una delle ultime, in ordine di tempo, prima della morte) alla rivista specialistica online «La Tecnica della Scuola» ha definito la società capitalistica attuale «panlavorista» e «cronofagica»: nelle famiglie italiane lavorano entrambi i genitori e non c’è tempo sufficiente per provvedere all’educazione dei figli, che viene delegata alla scuola, in maniera distorta, però. Difatti, spesso si attribuisce alla famiglia il potere di valutare gli insegnanti e ciò determina una forte restrizione dell’autorità che compete agli stessi, nonché, aggiungiamo noi, della loro libertà di insegnamento, sancita dall’art. 33 della Costituzione. Ferrarotti ricorda che «autorità» deriva dal latino «augere», che vuol dire «far crescere». L’autorità degli insegnanti è indispensabile, per l’appunto, per far crescere i ragazzi. Sottoporli a valutazione, secondo Ferrarotti, significa sacrificare i migliori professori e favorire i peggiori, cioè quelli che assecondano strumentalmente in toto i desiderata di famiglie e studenti, anche quando sono sbagliati. Occorre, allora, un’«autorità» che non sia «autoritaria», bensì «autorevole».

Cogliere l’eredità culturale di Franco Ferrarotti significherà dare attuazione ai principi ch’egli ha saputo individuare, rappresentando spesso una voce isolata, non solo nell’ambito del mondo accademico. Non è un caso che i grandi mezzi di comunicazione di massa hanno dato ampio risalto alla sua morte, ma si sono guardati bene dal richiamare le sue critiche penetranti nei confronti della società capitalistica attuale, che vanno, invece, riprese ed approfondite.

Ferrarotti non ha proposto un modello rivoluzionario, ma una società a dimensione d’uomo, come quella che immaginava Adriano Olivetti, col quale egli collaborò nella realizzazione del programma del movimento «Comunità» (gli successe come deputato alla Camera nella terza legislatura repubblicana, dopo le dimissioni dell’imprenditore), che concepiva non solo la fabbrica, ma anche tutta la società, come una comunità, per l’appunto, caratterizzata dallo spirito solidaristico, dal rispetto tra gli uomini e nei confronti dell’ambiente. Si parlò allora spregiativamente di «neo-capitalismo» paternalista. Ma molti di coloro che allora criticarono Olivetti e Ferrarotti successivamente hanno aderito al modello del capitalismo «neo-liberista» ed hanno avuto assegnati dal sistema ruoli di primo piano nell’attuarlo.

Ferrarotti è stato, invece, coerente con le proprie idee sino alla morte. Possiamo metterle in discussione in più d’un aspetto, ma esse rappresentano il punto di partenza per una discussione franca che abbia come obiettivo il cambiamento della società in una direzione sicuramente progressiva.

:: Natuzza Evolo e gli Angeli di Marcello Stanzione (Edizione Segno) a cura di Daniela Distefano

11 novembre 2024

Dio ama confondere i grandi di questo mondo con i cosiddetti “piccoli”, agli occhi del mondo, e noi vediamo lungo i secoli persone di vita ritirata, come santa Caterina Benincasa da Siena o Lucia dos Santos di Fatima, Bernadette Soubirous di Lourdes e tante altre, indicare addirittura ai papi la strada da seguire ed essere, poi, dei fari della cristianità. Da sottolineare il fatto che esse si annullano sempre di fronte alla loro missione: noi sappiamo ben poco della vita privata e religiosa stessa di santa Bernadette, per esempio. Qual è l’obiettivo di questo libro del ben collaudato scrittore Marcello Stanzione?

Presentare non già la figura di Natuzza Evolo quanto i suoi rapporti con gli Spiriti, siano essi celesti od infernali. Don Marcello tratta con sobrietà la figura della mistica calabrese e scrive queste pagine con l’intento di accrescere la devozione ai santi Angeli, in particolare agli Angeli Custodi.

Natuzza è stata una donna di fede, di speranza e grande carità. Abbandonata dal padre, emigrato in Argentina, la sua infanzia non fu felice neanche per volere della madre, la cui condotta di vita era chiacchierata in paese. Eppure, come quei piccoli, teneri, fiori gialli che nascono ai bordi delle strade, affiancati dai rumori di macchine, motori e uomini, la piccola Natuzza crebbe dolce, paziente, con una delicata bontà interiore. A dieci anni, irrompe il soprannaturale alla sua porta non solo spirituale. E’ l’inizio di un misticismo che la porta ben presto a colloquiare con i defunti, mentre si disegnano immagini sacre formatesi col suo sangue sui fazzoletti sovrapposti al corpo. Dopo un calvario di esami medici, già nel 1941 Natuzza pensò a farsi suora, ma i suoi fenomeni mistici apparvero troppo inquietanti per la vita in un convento. La madre decise allora di farla sposare con il compaesano Pasquale Nicolace, falegname. Il matrimonio fu celebrato nel 1943, fu un’unione felice e la coppia ebbe cinque figli.

Non cessarono gli eventi soprannaturali: comparvero le bilocazioni, le stimmate, le effusioni ematiche accompagnate da stati di sofferenza durante il periodo pasquale, i momenti di estasi.

Riguardo agli Angeli, Natuzza li vede come se fossero bellissimi bambini, provvisti di ali e capelli biondi. Quando Dio glielo permetteva, vedeva l’Angelo custode a fianco del suo protetto. In alcuni casi, numerose persone hanno testimoniato che dal corpo di Natuzza si sprigionasse un forte profumo di fiori senza una spiegazione naturale. Il testo offre anche una carrellata di piccole biografie di altre Sante e Beate che hanno condiviso con gli Angeli il Cielo in Terra. Come Santa Faustina Kowalska che ebbe grazie e visioni del suo Divino Sposo ma anche un rapporto intimo con i Santi Angeli. Un esempio valevole per tutti i santi e le sante che ci hanno mostrato un filo che non si spezza con i nostri eterei protettori.

Una piccola nota critica c’è: Natuzza Evolo forse ha predetto anche la sua morte, non è chiaro. Però non posso pensare diversamente leggendo le biografie della sua scomparsa nel 2009. Si legge ovunque: per blocco renale.

Era una donna anziana e una santa, è morta per Vivere, e lo ha fatto in un letto amico con amori cari e vicini. Il blocco renale è stato come l’ultima esalazione prima di spirare con il Cuore già nell’Eternità. Riportare questa curiosità forse distrae dal considerare che la mistica sapeva già il giorno in cui avrebbe lasciato il mondo. Come quando il Beato Carlo Acutis diceva: “Io morirò”. Ci scandalizza il modo, non la morte.