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:: SOLARIS, UN PIANETA DAI TRE VOLTI – Gli adattamenti cinematografici del più famoso romanzo di Stanislaw Lem a cura di Michele Tetro

12 novembre 2021

Il primissimo adattamento del romanzo di Stanislaw Lem Solaris si ebbe nel 1968, l’anno di uscita di 2001: odissea nello spazio, a firma dei registi Boris Nirenburg e Lydya Ishimbayeva, un film per la televisione in due parti realizzato dalla Central Television Production sovietica, in bianco e nero. Questa versione è del tutto fedelissima al libro originale (quindi rimandiamo al capitolo 6 per la trama), non offre varianti alla materia trattata né rilevanti cambiamenti di trama. E’ Solaris esattamente come concepito da Lem, che si mostrò poco convinto, quando non addirittura polemico, sia della versione successiva di Tarkovskij sia di quella americana. La messa in scena è di tipo teatrale, con totale mancanza di effetti speciali, virtuosismi scenografici, decorazioni tecnologiche o futuristiche. Gli ambienti della stazione orbitante sull’oceano pensante di Solaris sembrano le quinte di un moderno teatro, con corridoi curvilinei immersi nell’ombra, stanze che ricordano le camere di alberghi d’infima categoria, scale di metallo su alte e vuote pareti. L’unica concessione alla tecnologia è data da una postazione di controllo sull’astronave Prometheus con due tecnici, simile a un’antiquata redazione televisiva, un quadro di comando presso l’hangar di ricezione, due televisori a circuito chiuso visibili durante gli incontri video dei tre scienziati, qualche apparato di scena non meglio identificabile. I costumi sono anonimi, lo scafandro di Kelvin assomiglia a tutto tranne che una tuta spaziale, il casco più simile a un collare ortopedico d’ospedale. Il massimo della spettacolarità è dato da immagini di repertorio di pochi secondi, con missili e capsule spaziali americane sgranate in video degli anni Sessanta, che ricostruiscono l’invio di Kelvin dalla Prometheus alla stazione e la liberazione dalla prima copia di Harey. Come nei remakes seguenti, anche qui (data l’impossibilità produttiva di ottenere determinati effetti) sono assolutamente mancanti le colossali “creazioni” plastiche sulla superficie di Solaris, che rappresentavano la parte più visionaria del romanzo, e il pianeta stesso risulta sempre fuori scena, anche se la sua “azione” immobile si percepisce costantemente (basta un’occhiata sbigottita di Kelvin verso una delle finestre sempre semi-chiuse della stazione, particolare ripreso poi nel successivo film di Tarkovskij, che invece ci concede diversi campi lunghi sul fluido oceano colloidale).

Le riprese sono incentrate prevalentemente sui primi piani degli attori, tutti calati nei loro ruoli e credibili, la storia è raccontata più a parole che a immagini, come nella miglior tradizione teatrale. Tutt’altro che noiosa, la produzione coinvolge e tiene desta l’attenzione dello spettatore, assorbito profondamente in questo dramma scientifico dalle implicazioni sconvolgenti.

Le cose cambiano invece nella versione del regista Andrej Tarkovskij del 1972, che per altro ottenne gran riscontro di critica e pubblico nel mondo occidentale. Pur rispettando ed evidenziando i punti cardine del romanzo di Lem (soprattutto il tema del contatto con l’entità aliena di Solaris), mantenendosi perciò fedele al testo scritto nelle parti estrapolate da esso per l’adattamento, il cineasta russo siringa in apertura, svolgimento e finale della pellicola elementi profondamente peculiari del proprio spirito e del tutto assenti in Lem. Facendo ovviamente riferimento alla pellicola originale sottotitolata e non allo scempio vergognoso che il film subì nel doppiaggio e nella riduzione italiana (in cui addirittura nel personaggio di Kris Kelvin si fondono due atteggiamenti del tutto contrastanti tra loro, il suo e quello dell’astronauta Berton, figura completamente eliminata dal film con un incomprensibile taglio di montaggio), Tarkovskij rende perno centrale della vicenda il problema del mancato equilibrio, nell’animo umano, tra la linea di sviluppo materiale esterna (il progresso, la tecnologia, la scienza) e quella spirituale interna (la coscienza, l’etica e la morale), con la seconda non in grado di bilanciarsi con la prima, poiché ancora “immatura” e quindi pericolosamente incline a innescare la crisi esistenziale.

Nell’inizio ambientato sulla Terra (mancante nel romanzo e pesantemente tagliato nella versione italiana del film) Kelvin, che pure è sensibile, come ogni anima russa, all’abbandono della propria patria per il viaggio di 16 mesi su Solaris e cerca un’ultima e intima comunione con la natura attorno alla dacia paterna, è però del tutto refrattario ad ascoltare i consigli di un ex astronauta che ha vissuto un’esperienza terribile sull’oceano pensante e si prodiga per avvisarlo di non intraprendere azioni distruttive nei confronti dell’ignoto, solo perché tale al cospetto umano. Kelvin sconterà amaramente la sua leggerezza, dovendo affrontare il penoso e doloroso rimosso della sua coscienza (la moglie suicida) incarnato dall’oceano, così come i suoi dogmatici e razionali colleghi scienziati, di classe tecnocratica, propensi ad attaccare ciò che non comprendono (la diversa intelligenza del pianeta), devono fronteggiare la loro statura morale quantificatasi in ospiti mostruosi, ripugnanti e insopportabili, il riflesso del loro volto interiore, reso reale dal magma oceanico. E solo la vergogna, qui sentimento nobile, è la chiave della salvezza per l’uomo, la pulsione che gli consente di uscire da un punto morto, prendendo coscienza dell’imperfezione del proprio apparato cognitivo, del non sapere ancora nulla di se stessi. Tarkovskij, lirico e malinconicamente elegiaco, evita intenzionalmente ogni lusinga tecnologica tipica dei film di fantascienza spaziale americani (la risposta sovietica a 2001: odissea nello spazio pubblicizzata dai cartelloni cinematografici è tale solo se considerata antipodicamente), riducendo al minimo l’impatto scenografico della sua pellicola (ed eliminando virtualmente ogni effetto speciale): la stazione orbitale è piena di oggetti del tutto inammissibili in un contesto del genere e di forte valenza simbolica (statue greche classiche, busti di Platone e di Beethoven, icone religiose russe, dipinti di Brueghel il Vecchio, fotografie di cavalli, corni da caccia ottocenteschi, vetrate policrome di una chiesa, immagini di cavalli, servizi da te in ceramica, candelabri e lampadari di cristallo), che rimandano prepotentemente alla Terra, all’anima contadina russa (Kelvin si porta con sé in volo una scatoletta di alluminio con una piantina della sua dacia), al legame col passato, la memoria, gli affetti familiari. Il regista sembra rispecchiare una sorta di adesione ai precetti del Cosmismo russo (le apparizioni della moglie defunta di Kelvin in qualche modo alludono alla resurrezione degli antenati defunti della fase fedoroviana cosmista, una promessa d’immortalità, l’integrità morale che si dovrebbe coltivare adeguatamente per assorbire il gap tecnologico-coscienziale era conditio sine qua non per l’emigrazione cosmica della perfezionata razza umana prevista da Fedorov e Ciolkovskij).

Praticamente, pur a fronte della forte spinta verso la conquista dello spazio, l’uomo sembra incapace di lasciare indietro la Terra e tende a portarsela con sé. Parafrasando il suo omologo letterario, il malinconico personaggio di Snaut del film, figura molto umana, esclama:

In questa situazione la mediocrità e il genio sono ugualmente inutili! Noi non vogliamo affatto conquistare il cosmo. Noi vogliamo allargare la terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio. Ci affanniamo per ottenere un contatto e non lo troveremo mai. Ci troviamo nella sciocca posizione di chi anela una meta di cui ha paura e di cui non ha bisogno. L’uomo ha bisogno solo dell’uomo!”

La figura del padre, che intuisce le problematiche che dovrà affrontare Kelvin nello spazio, conscio della sua “impreparazione” morale, rimanda a un trascorso tarkovskiano che non avrebbe modo di essere nel testo di Lem, la sua è un’odissea nella coscienza più che nello spazio, che attraverso il pianeta Solaris si pone come “territorio proibito” all’uomo. Se Lem è del tutto pessimista sulla possibilità di un reale contatto con l’oceano, Tarkowskij crede invece nei miracoli e conclude il film in modo splendidamente ambiguo: Kelvin, figliol prodigo dell’era spaziale, torna alla dacia del padre, che lo abbraccia riaccogliendolo nell’alveo del solo universo alla sua portata, quello del trascorso esistenziale, ma il piccolo villino è in realtà posto su un’isola circondata dall’immenso oceano di Solaris. Forse l’imperscrutabile entità aliena ha saputo leggere nella mente dell’uomo, individuando il più riposto dei suoi desideri, più forte del senso di colpa relativo al rimorso per la perdita della moglie, e cioè la sua struggente ansia del ritorno alla terra rimpianta, ai veri valori della vita? O forse si tratta solo di un’immagine simbolica di quanto piccola sia l’isoletta di placida ignoranza in cui è confinato il genere umano, circondata dai mari dell’infinito, dalla quale non è previsto che ci possa allontanare troppo, come rimarcato da Lovecraft in un celebre incipit del racconto Il richiamo di Cthulhu? Ad ogni modo, l’approccio del regista al romanzo di Lem, con la messa a fuoco sul problema morale e le leggi del progredire della ragione umana, impreziosisce un dramma scientifico di nuove valenze, creando le premesse di ulteriori riflessioni e approfondimenti.

Il terzo adattamento di Solaris, realizzato nel 2002 da Steven Soderbergh, sceglie un via del tutto differente: non è più il tema del contatto al cuore del film, né tantomeno la riflessione coscienziale tarkovskiana, bensì l’approfondimento del rapporto di coppia tra i due protagonisti, il recupero del loro passato traumatico in virtù della “seconda occasione” offerta per riparare gli errori commessi, la redenzione dei peccati da parte di un’entità superiore, che però concede tale dono non ai veri Kris e Rheyna, bensì alle loro repliche, che sopravvivono a entrambi (questa è la novità concettuale del rifacimento, gli “ospiti” sono così umani da volersi sostituire ai loro originali). In realtà il pianeta Solaris è del tutto marginale al film, una presenza tenuta sullo sfondo, non indagata, e l’intera l’attenzione è rivolta alla vicenda emotiva che s’instaura tra marito e moglie, al punto da indurre Stanislaw Lem a rimarcare: “Ci sarà stato un motivo per cui ho intitolato il libro Solaris e non Love Story!” Obiettivamente, la pellicola, che pure offre alcune sequenze spaziali degne di nota e un’intrigante colonna sonora, non sfugge a quella tipica monotonia di un film americano che cerca di scimmiottare stilemi europei, risultando il più delle volte irrisolto, se non addirittura irritante.

Tratto dal volume “Spazio – Il vuoto davanti”, di Michele Tetro, Odoya 2021, per gentile concessione dell’autore.

:: Centenario della nascita di Stanislaw Lem: “NON AVRAI POSTO ALCUNO NELLO SPAZIO…” Il pessimismo cosmico nell’opera di Stanislaw Lem a cura di Michele Tetro

6 settembre 2021

Per il centenario della nascita di Stanislaw Lem (1921- 2006) tutto il mese di settembre darà dedicato sul blog Liberi di scrivere a qusto autore poliedrico e geniale, iniziamo oggi con il primo contributo offerto da Michele Tetro, lascio a lui la parola:

Sin dal suo primo apparire in traduzione inglese e francese, la prosa fantascientifica dello scrittore polacco Stanislaw Lem (già studioso di medicina, cibernetica, astronautica, scienza della mente tra le altre cose), con la sua propensione a trasformarsi in racconto filosofico nonostante l’utilizzo di stereotipi tipici del genere fantascientifico (il viaggio d’esplorazione spaziale, la missione di soccorso planetario, il naufragio su mondi alieni, il primo contatto), mostrò di essere di gran lunga superiore a quella dei colleghi europei e d’oltreoceano. Una prosa estremamente originale e innovativa, anche quando ancora “viziata” dalle strette dell’ideologia consacrata dal realismo socialista del periodo staliniano e dal pensiero marxista nel concepire il futuro dell’uomo, all’insegna della tecnologia al servizio delle genti del mondo (e delle loro forze produttive) e del ripudio dell’utilizzo dell’energia atomica a fini bellici (lo scritture fu però criticato anche in questo senso in patria, dato che secondo il regime non magnificava in modo adeguatamente consono l’utopistica società comunista voluta dai “piani alti”). Romanzi come Il pianeta morto (Astronauci, 1951), primo viaggio sul pianeta Venere, abitato da un’estinta razza umanoide che si è autodistrutta nel tentativo di invadere la Terra, lasciando dietro di sé una tecnologia ancora attiva ma del tutto estranea alla comprensione umana, e La nube di Magellano (Oblok Magellana, 1955), stavolta incentrata su un volo interstellare alla ricerca della vita nello spazio e sulle problematiche cui va incontro l’equipaggio a fronte delle insidie cosmiche, esaltano sì società future di stampo comunista, nate dalle macerie di precedenti conflitti mondiali, in cui il capitalismo è stato bandito, l’energia atomica impiegata solo a scopi scientifici e l’equilibrio mondiale raggiunto da un ordinamento politico socialista di pacifica coesistenza, ma mettono in campo anche le principali tematiche che l’opera successiva di Lem non mancherà mai di affrontare: speculazione filosofica sulle sorti dell’uomo nello spazio, accuratezza scientifica nel descrivere i fenomeni di rara limpidezza e vincolante rigore realistico, riflessione esistenziale sulla posizione della razza umana in rapporto con intelligenze extraterrestri (e anche in rapporto con sé stessa), velata critica politica, predilezione all’ironia, ottimismo tecnologico frenato però dallo scetticismo filosofico che la conoscenza scientifica implica nel suo evolversi. Tema centrale dell’opera di Lem è l’inadeguatezza dell’apparato conoscitivo umano nell’interpretare i misteri del cosmo, al di là di ogni possibile comprensione, una tragedia scientifica che comporta l’agonia dello spirito umano, condannato a restare relegato nella sua ristretta sfera di competenza esistenziale che neppure ha il pregio e la capacità di conoscere completamente, tutt’altro: una posizione quasi antipodica a quello che è il senso della fantascienza stessa, cioè l’ampliamento della conoscenza umana in modo “positivo”, la possibilità di “guardare oltre” e decifrare le meraviglie dell’universo, il felice bilanciamento tra tecnologia e capacità di pensiero. L’ignoto cosmico che ingenuamente questo genere narrativo pretende di poter decodificare e adattare alle menti umane si risolve in Lem con lo scontro “doloroso” dell’uomo con un inconoscibile che resterà tale, lo rigetterà indietro, lo costringerà a fare i conti con la sua grottesca posizione così antropocentrica da non essere in nessun modo applicabile al di fuori del pianeta Terra. Per Lem la realtà sconosciuta del cosmo può essere esplorata solo con un drastico mutamento degli schemi di pensiero e dei metodi conoscitivi umani ancora di là dal poter essere concepiti, poiché nell’attuale stato esistenziale umano non è possibile immaginare il funzionamento di altre coscienze diverse dalla propria, né pretendere di entrarvi in contatto. Forzare tale stato di cose porta alla sconfitta, alla tragedia scientifica, all’applicazione di modalità d’azione e di pensiero unicamente distruttive. Bisogna invece prendere coscienza del fatto che possano esistere contesti di evoluzione biologica così alieni e differenti dal nostro che l’unico modo costruttivo di potersi rapportare con questi è lasciarli perdere, accettare di fare marcia indietro con umiltà, in modo da poter continuare un decoroso percorso evolutivo solo là ove questo è possibile in rapporto ai parametri strettamente umani.

La culla del dio bambino

E’ soprattutto nel suo capolavoro Solaris (1961) che Lem mette in scena, per dirla con le sue parole,“lo scisma tragico tra atto conoscitivo, concepito come curiosità interminabile e inappagabile che condiziona il comportamento e l’attività, e i soggetti inconsci, cioè i personaggi stessi, gli esseri mentalmente minuscoli e non adulti che compiono il vano sforzo di superare i propri limiti antropomorfici”. Da oltre un secolo la razza umana sta studiando il pianeta Solaris, nell’Alfa dell’Aquario, un mondo in cui si è evoluto un unico, gigantesco organismo protoplasmatico, un oceano gelatinoso che copre l’intero corpo celeste, evidentemente un’entità biologica superiore in grado addirittura di correggere l’orbita planetaria attorno ai suoi due soli per ottenere il massimo dell’energia, con una magmatica attività di superficie che porta alla creazioni di grandiose, chilometriche e spettacolari strutture polimorfiche, il cui scopo è del tutto sconosciuto, battezzate dall’uomo con fantasiosi appellativi a seconda delle loro svariate forme (“mimoidi”, “vertebroidi”, longhi, “simmetriadi”, “agilanti”) e la capacità di duplicare ogni oggetto introdotto nel suo fluido colloidale. Tali proprietà del pianeta hanno indotto gli studiosi terrestri a ritenere che l’organismo oceanico sia in qualche modo senziente ma ogni tentativo di comunicazione con esso è risultato del tutto vano (nessuna reazione interpretabile come una “risposta” è mai giunta dalla massa protoplasmatica che avvolge Solaris, sia che si trattasse di un’esplosione nucleare in superficie o dell’invio di convenzionali segnali comunicativi a largo spettro). Una quantità sterminata di libri e documenti di studio sul pianeta, prodotta nel corso degli anni e assurta a vera e propria disciplina scientifica, chiamata “Solaristica”, non ha portato l’umanità di un passo più vicina al gettare un ponte di dialogo con quel “mostro appiccicoso”, il cui “comportamento” è simile a quello di un uomo che reagisce al morso di una formica… grattandosi però altrove e non facendo intendere alcun collegamento di causa ed effetto con il morso dell’insetto. La Solaristica, con la sua mostruosa mole di dati e teorie di nessuna utilità pratica, versa ormai in crisi e si pone come “surrogato della religione dell’era cosmica, della fede indossante i panni della scienza” e il tanto agognato contatto con l’oceano pensante “scopo al quale essa tendeva, non era meno nebuloso e oscuro della Comunione dei Santi o dell’Avvento del Messia”. Nel romanzo, il socio-psicologo Kris Kelvin è inviato sulla stazione orbitante attorno a Solaris per prendere una decisione in merito alla rimozione della medesima e alla chiusura di un caso evidentemente perso ma al suo arrivo alla base sospesa sull’oceano scopre che il suo diretto superiore è morto suicida e gli altri due componenti dell’equipaggio, il cibernetico Snaut e il biologo Sartorius, in stato psichico evidentemente alterato e reticenti ad offrire spiegazioni, sembrano celare nei loro alloggi misteriosi “ospiti”, tenuti rigorosamente nascosti. Durante la notte, il frastornato Kelvin riceve la visita di Harey, la moglie morta dieci anni prima, spinta al suicidio dopo un litigio tra i due: sconvolto da quell’apparizione impossibile ma reale, lo scienziato la proietta nello spazio su di un razzo. Solo allora Snaut gli spiega cosa sta succedendo alla stazione: in seguito a un pesante bombardamento di radiazioni sulla superficie di Solaris, quasi in risposta a esso, l’oceano ha modulato un fascio di frequenze tali da individuare isole mnemoniche riposte nel cervello umano e dare loro forma fisica, creando quindi entità biologiche all’apparenza umane ma in realtà a struttura neutrinica, di fatto “più vere di quelle vere” di cui assumono l’aspetto e il comportamento. Una seconda Harey appare mentre Kelvin dorme, ignara del fato della prima. La nuova Harey, che non è tanto la copia dell’originale quanto la manifestazione del pensiero ideale che Kelvin ha di lei (perciò priva dei disturbi mentali che portarono al suicidio la donna sulla Terra), acquisendo progressivamente “umanità” dal contatto con Kelvin, ne scatena anche il rimorso sopito per lungo tempo, sicchè il rapporto dello scienziato con Solaris, manifestazione del grande mistero dell’Universo, diventa prima di tutto un impietoso confronto col proprio intimo torturato. Macrocosmo e microcosmo si fondono dando origine a un “dramma gnoseologico, nel cui centro focale sta la tragicità dell’imperfezione dell’apparato umano conoscitivo”, sia nei confronti con l’abisso esterno che con il proprio interiore, non meno profondo e sconosciuto. “L’uomo si è mosso per andare alla scoperta di altri mondi, di altre civiltà, senza avere perlustrato a fondo, dentro di sé, i cortiletti, i camini, i pozzi e le porte sbarrate”: tale impreparazione spirituale porta Kelvin a un bivio, la crescente umanità di Harey (che pure avverte di non essere l’originale) lo spinge a tentare di “correggere” l’errore compiuto sulla Terra in una seconda occasione di vita insieme, ma il “clone” sintetizzato dall’oceano può esistere solo in prossimità del campo magnetico del pianeta. “Non puoi trasformare un problema scientifico in una storia d’amore”, redarguisce Snaut, che sa perfettamente come la presenza degli “ospiti”, che incarnano le ossessioni e il rimosso più oscuro della propria anima, possa non costituire affatto un dono, una tortura, una condanna o un reale tentativo di contatto da parte dell’oceano, che potrebbe aver meccanicamente risposto alle radiazioni inviate dalla stazione senza un fine davvero orientato ad entrare in comunicazione con l’uomo e più con reazione istintiva priva di vere motivazioni intellettive o intenzionali. Snaut, più sensibile dell’algido Sartorius, ha ben compreso che il dramma in atto è provocato dall’inadeguatezza conoscitiva dell’uomo nei confronti del creato, e che in un contesto al di là di ogni moralità (umana) non è consentito comportarsi in modo morale, facendosi portavoce del pensiero di Lem stesso:

Noi partiamo per lo spazio preparati a tutto, cioè pronti al sacrificio, alla solitudine, alla lotta, alla morte. Per modestia, non lo diciamo ad alta voce, ma lo pensiamo dentro di noi di tanto in tanto, pensiamo di essere eccezionali. Intanto però, non è tutto, il nostro zelo si rivela una posa. Non abbiamo nessuna voglia di conquistare il cosmo, noi vogliamo soltanto allargare sino ai suoi ultimi confini le frontiere della Terra. (…) Non abbiamo intenzione di conquistare altre razze, vogliamo solo trasmettere i nostri valori e in cambio impadronirci del loro patrimonio. Ci crediamo i Cavalieri dell’Ordine del Sacro Contatto. Questa è una bugia. Noi cerchiamo solo l’uomo. Non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di specchi. Non sappiamo cosa farcene di altri mondi, ce ne basta uno, quello in cui sguazziamo.

E Solaris è proprio quello specchio, impietoso ma non consapevole di esserlo, il riflesso del profondo interiore dell’uomo, nascosto e rinnegato, la sua parte più vergognosa che si fa d’improvviso carne e porta il turbamento. Il contatto così ambito con un’altra coscienza extraterrestre diventa drammaticamente l’immagine, ingrandita come se fosse sotto al microscopio, “della nostra mostruosa bruttezza, della nostra buffoneria e vergogna”. La ricerca di pianeti dalla civiltà migliore della nostra, intesa però come ritratto idealizzato del nostro mondo, si scontra con quel “qualcosa che noi non accettiamo e contro cui lottiamo ma che comunque resta, perché dalla Terra non abbiamo portato un distillato di virtù o una statua alata dell’uomo ma siamo arrivati qua come siamo veramente e quando l’altra faccia, cioè la parte che manteniamo segreta, si mostra com’è veramente… non riusciamo ad andarci d’accordo!” Harey, conscia della tortura che la sua presenza costituisce per Kelvin, tenta nuovamente il suicidio ingerendo ossigeno liquido, ma gli “ospiti” sono indistruttibili e si rigenerano dolorosamente, così si tenta di inviare verso l’oceano un fascio modulato di energia cerebrale da pensieri diurni, un encefalogramma che possa in teoria illustrare la situazione che si è creata sulla stazione, esperimento cui si presta malvolentieri Kelvin, timoroso di perdere nuovamente la moglie, qualora il tentativo comunicativo ottenesse successo e il suo inconscio rivelasse il desiderio della sua sparizione. Ma Harey risolve il problema chiedendo pietosamente a Snaut e Sartorius di essere annichilita da un macchinario che agisce solo sui neutrini, lasciando a Kelvin una breve lettera d’addio. Gli “ospiti” scompaiono tutti, senza più ritornare, cosa che però non incide sulla questione che l’oceano possa o meno aver compreso il messaggio inviato. Snaut e Kelvin formulano l’ipotesi che Solaris possa essere la culla di un Dio bambino, limitato nella sua onniscienza, “che crea gli orologi ma non il tempo che devono misurare”, l’embrione, lo stadio primitivo di un’entità onnipotente ma infantile, per il quale la vitalità della sua infanzia supera ancora di troppo la sia intelligenza, e perciò non consente il contatto con l’esterno e origina tutta una serie di “comportamenti” rapportabili a una psicologia spiccatamente infantile… ma si tratta solo di un’altra teoria, l’ennesima, senza prove inconfutabili che andrà ad arricchire la stantia quantità di ipotesi già raccolte dall’agonizzante Solaristica. Quando Kelvin si reca su un mimoide emerso dall’oceano, la sua prima reale discesa su Solaris, ripete un antico esperimento già compiuto dagli esploratori venuti prima di lui: allunga una mano verso il protoplasma oceanico e questo origina uno pseudopodo gelatinoso che va a toccarla, avvolgendola e lasciando una piccola intercapedine tra fluido e mano coperta dal guanto. Sembrerebbe una stretta di mano tra l’uomo e l’oceano pensante, ma non è così, si tratta semplicemente di un’azione riflessa, nata forse da una “curiosità” del colosso colloidale che però non viene soddisfatta in risultanze condivisibili. Kelvin dovrà decidere se tornare o meno sulla Terra, cancellando così l’unica speranza che l’epoca dei miracoli, per quanto crudeli, possa ancora riproporsi. Ma al di là della speranza dello psicologo, Lem non offre alcun termine ottimistico sulla possibilità di un futuro contatto umano con il fluido magma di Solaris, lo specchio non intenzionale frapposto tra l’uomo e l’infinito.

Una “necrosfera” in evoluzione

L’equipaggio dell’incrociatore fotonico Invincibile, protagonista dell’omonimo romanzo di Lem del 1964, non ha alcun trascorso psicologico tale da ingenerare crisi nel vuoto cosmico, lavora su una gigantesca nave pesantemente armata, dotata di mezzi corazzati semoventi e robot da sbarco ed esplorazione, è fornito di armi ad antimateria tali da poter distruggere un intero pianeta, si giova di dipartimenti scientifici costituiti dalle migliori menti disponibili e in grado di dipanare ogni problema con logica e razionalità. In effetti, ricorda molto la comunità di sapienti dell’astronave Space Beagle di Crociera nell’infinto di Van Vogt ma, a differenza di quella, a bordo non ha un Connettivista in grado di mettere assieme tutte le discipline e le conoscenze scientifiche, senza campanilistiche divisioni interdisciplinari o ideologiche, per ottenere modelli vincenti di progettualità. E forse proprio per quello è destinato a uscire sconfitto dall’incredibile esperienza che lo attende su Regis III, un pianeta desertico della costellazione della Lyra, dove la nave gemella Condor è data per dispersa ed è l’oggetto della sua missione di soccorso e salvataggio. Gli uomini dell’Invincibile non tardano a scoprire sulla superficie del mondo privo di vita (che invece alligna stranamente solo nei suoi oceani) l’astronave perduta, il cui equipaggio è stato sterminato, apparentemente senza subire ferite fisiche, e la corazza esterna bucherellata da miriadi di piccoli fori. Sembra che i cervelli degli astronauti siano stati completamente resettati a zero da un immane campo magnetico e privati di ogni stimolo o impulso, cosa che ha condannato a morte ogni singolo individuo, non più capace di intendere e volere. L’unico indizio è l’ultima immagine registrata dalla retina di un cadavere, che mostra, apparentemente, degli insetti nerastri simili a tremule mosche. L’astrogatore Horpach mette in campo tutti i mezzi corazzati della nave per affrontare una misteriosa nube nera che appare all’orizzonte e attacca i cingolati in avanscoperta, lasciando gli uomini completamente privi di memoria come i membri dell’equipaggio del Condor. Uno scienziato di bordo, Lauda, analizzando uno degli “insetti” di cui è composta la nuvola, scopre che si tratta di un artefatto cibernetico in grado di riprodursi all’infinito e di formare, una volta nello sciame, una sorta di intelligenza collettiva con l’unico scopo di sopprimere ogni forma di vita umana, animale o artificiale, cancellando ogni informazione nei cervelli e lasciando così consumare per inedia e debolezza finale ogni avversario vivente e ogni macchina dalla memoria spenta: la “mosca” sarebbe l’evoluzione ultima, attraverso i millenni, di una schiatta di automi caduti su Regis III da tempi immemori, robots creati da una civiltà aliena esule nello spazio e naufraga sul pianeta, sopravvissuti ai loro creatori. Trattandosi di macchine omeostatiche, cioè in grado di adattarsi agli eventi, i primissimi automi, rimasti soli dopo la morte dei loro creatori, hanno avuto il sopravvento sui loro stessi simili “più deboli”, subendo poi un’incredibile evoluzione di materia non organica, una “necrosfera” sempre più raffinata e selezionata che ha annientato la vita sull’intera superficie, tranne che negli oceani, sviluppandosi infine nella forma finale di “mosca”, in grado di riprodursi esponenzialmente e di continuare a mettere in esecuzione l’antica programmazione distruttiva, ripetendola meccanicamente all’infinito, ai danni di ogni intruso sul loro mondo. Di fronte a un tale avversario, così alieno da ogni parametro umano e al di là di ogni tentativo di comunicazione o comprensione, non ha quindi alcun senso che l’uomo accampi pretese di vendetta per i compagni caduti né che persista nell’idea di nuclearizzare l’intero pianeta. La cosa più sensata da fare è semplicemente andarsene. Horpach scatena però una terrificante battaglia, persa in partenza, tra la cannoniera automatizzata Ciclope e la nera nube-cervello, un inferno di fuoco e fiamme che non cambia assolutamente la situazione e vede il cannone blindato avere la peggio. E’ però necessario che il secondo ufficiale Rohan, prima della partenza dell’Invincibile, tenti di recuperare quattro dispersi dell’equipaggio a seguito della battaglia, protetto da un caschetto che isola i suoi impulsi cerebrali e non consente di essere individuato dagli “insetti”. Nella sua disperata e inutile missione Rohan assiste a uno spettacolo incredibile; due sciami di “mosche” si “affrontano” e “uniscono” in cielo, secondo un meccanismo che lo induce a credere di stare assistendo a una specie di cerimonia religiosa, compiuta da macchine aliene evidentemente assurte a un livello di “esistenza” altra, inconcepibilmente estranea a quella umana ma incontrovertibilmente vera. Sarà questo spettacolo a fare comprendere a Rohan l’impossibilità di contatto e la necessità di non scatenare una distruzione indiscriminata della superficie di Regis III:

Oltre tutto, giudicava la sua presenza inutile su quel pianeta della morte perfetta, dove solo le forme morte si perpetuavano vittoriosamente per dedicarsi a misteriosi riti che nessun occhio umano doveva contemplare. Non aveva provato orrore, bensì un’abbagliata ammirazione, mentre prendeva parte a ciò che si era svolto un momento prima. Sapeva che nessuno scienziato sarebbe mai stato in grado di condividere i suoi sentimenti, ma ora desiderava ritornare alla base, non più per annunciare la morte dei suoi compagni ma per fare tutto ciò che era possibile affinché, in avvenire, si lasciasse stare quel pianeta. ‘Non tutto l’universo ci è stato destinato e il nostro posto non è dappertutto’, pensò, mentre scendeva lentamente”.

Con questa considerazione profondamente lovecraftiana, Rohan torna all’astronave “alta venti piani, così maestosa nella sua immobilità che, davvero, pareva invincibile”, simbolo invece di una sconfitta gnoseologica dell’uomo appena nobilitata dal fatto che si è comunque deciso di evitare una insensata annichilizzazione di massa dell’ignoto residente su Regis III, riflesso del mistero di un universo inconoscibile non interpretabile che non permette alla razza umana, pur con tutta la sua scienza e potenza distruttiva, alcuno spazio di comprensione.

Vedere i Quintani

L’ultimo libro di fantascienza scritto da Lem, su commissione, è la summa concettuale delle tematiche già affrontate in Solaris e L’invincibile, soprattutto in merito al problema dell’incomunicabilità tra esseri umani e creature aliene dovuto all’impossibilità di stabilire schemi di pensiero condivisi. Il pianeta del silenzio (Fiasko, 1986) non può forse definirsi il capolavoro dello scrittore-scienziato polacco, sbilanciato com’è tra una prima parte più avventurosa e spettacolare che sembra costituire un racconto a sé lasciato nell’ambiguità di un non-finale, e il resto dell’opera, pesantemente didascalica, per quanto non priva di fascino visionario a volte addirittura incontenibile, con utilizzo di uno stile molto verniano, in cui la spiegazione scientifica, tecnologica, astrofisica, religiosa e filosofica prevale nettamente sull’intreccio del racconto. Praticamente, l’abbondanza di informazione rivolta al lettore (il tanto deprecato infodump dei nostri tempi) si trasforma di fatto nel racconto stesso. La prima parte del libro ci presenta il protagonista Angus Parvis, pilota spaziale dirottato su Titano, la più grande luna di Saturno, per partecipare a una missione di soccorso a bordo di un Digla, mastodontico mezzo robotizzato molto simile ai mecha della narrativa fantascientifica giapponese. Due di questi giganteschi automi semoventi sono dati per dispersi nella distesa di metano, uno dei quali pilotato dal grande astrogatore-pilota Pirx, mentore di Parvis e già protagonista della famosa antologia di racconti lemiani I viaggi del pilota Pirx (Opowiesci o pilocie Pirxie, 1968-1973, per quanto non sia ufficializzato dall’autore che si tratti del medesimo personaggio). Riuscito a raggiungere l’area in cui sono spariti i Diglas e localizzati i resti, Parvis è però costretto a sottoporsi a un volontario processo di criogenizzazione nel momento il cui il robot si rovescia in un geyser di metano, sperando in un futuro tentativo di soccorso operato per tutti i dispersi. In realtà, solo cento anni dopo è possibile individuare il Digla di Parvis e quello di Pirx, estraendo i due piloti ibernati e riuscendo a rianimarne solo uno… “riassemblato” con innesti biologici dell’altro. Il nuovo essere, risvegliatosi senza memoria, sa solo che l’iniziale del suo cognome è una “P” ma non ha facoltà di capire se il suo corpo appartenga prevalentemente a Parvis o a Pirx. E qui Lem abbandona un intrigante racconto in essere per passare repentinamente a tutt’altra storia. Il sopravissuto è stato liberato dalla sua tomba robotica dall’equipaggio dell’astronave Euridice, costruita in orbita di Titano, già in volo per il sistema stellare Beta Harpie e con l’intento di prendere contatto con gli abitanti del quinto pianeta del sesto sole dell’Arpia, chiamato appunto Quinta e ritenuto essere sede di una progredita civiltà aliena. Col nuovo nome di Mark Tempe, il redivivo accetta di partecipare alla missione. Lem sottopone il lettore, come abbiamo già detto, a una massiccia dose di spiegoni afferenti alle più diverse discipline scientifiche, descrivendo minuziosamente il volo, le manovre dell’astronave, i sistemi di sopravvivenza ad accelerazioni prossime alla velocità della luce, le teorie più accreditate sull’evoluzione della vita nel cosmo, l’approccio filosofico e religioso alla materia, il funzionamento dell’intelligenza artificiale di bordo e un’infinità di altre digressioni a volte fin troppo prevaricanti sulla narrazione del racconto. Per ovviare alla dilatazione temporale che non consentirebbe un contatto tra le due civiltà nel tempo presente dell’universo al giusto punto evolutivo di entrambe, l’Euridice viene lasciata ai margini dell’orizzonte degli eventi di un buco nero, sfruttando le distorsioni delle leggi comunemente accettate della fisica e le differenti valenze spaziotempo per minimizzare lo sfasamento temporale: il viaggio continua così nel futuro a bordo dell’Hermes, che a missione compiuta potrà tornare alla nave-madre parcheggiata in una sospesa bolla temporale e rientrare poi nel proprio continuum. Ma pur essendo giunti a Quinta in una fascia temporale idonea al contatto, gli abitanti del pianeta sembrano del tutto refrattari a comunicare con gli uomini in quanto apparentemente impegnati in una sorta di Guerra Fredda planetaria, che secondo le ipotesi dei nuovi venuti potrebbe portare in futuro alla mutua distruzione dei belligeranti stessi. L’Hermes intende quindi ergersi come compositore del conflitto, pretendendo il contatto reciproco e minacciando, come prova di forza, un selenoclasmo, cioè l’implosione di una luna di Quinta. L’inaspettata risposta dei Quintani è una salva di missili che intercetta alcuni di quelli della Hermes diretti verso il satellite, cosìcchè viene a mancare il necessario potenziale esplosivo per innescare l’implosione controllata della luna e diversi frammenti piombano catastroficamente su Quinta. Eppure, anche questo disastro non sortisce il tanto agognato contatto da parte dei Quintani. Tempe suggerisce di proiettare un comunicato visivo con immagini generate da un laser sulle nubi del pianeta e stavolta di raggiunge l’obiettivo desiderato: i Quintani comunicano di essere disposti a un incontro ma quando una copia dell’Hermes viene inviata precauzionalmente sul pianeta, questa viene completamente distrutta dai suoi abitanti, scatenando così la ritorsione terrestre e l’annientamento dell’anello di ghiaccio che circonda il pianeta, i cui frammenti precipitano al suolo generando tutta una serie di eventi catastrofici. Il messaggio successivo dei Quintani, dopo un ulteriore minaccia da parte dei terrestri di provocare stavolta un planetoclasmo, accetta la ricezione di un singolo ambasciatore umano al proprio spazioporto e Tempe si offre volontario, con la garanzia di sicurezza dovuta al fatto che un dispositivo di distruzione di massa predisposto dall’Hermes sarebbe entrato in funzione se i contatti con lui fossero andati perduti. Sceso su Quinta, nel luogo designato, Tempe non vede nessuna creatura vivente, trovandosi invece circondato da ciò che sembrano piccoli tumuli a cupola disposti sulle pendici delle colline. Nella foga della sua ricerca, dimentica di segnalare la sua posizione all’Hermes, che scatena così un attacco finale altamente distruttivo, proprio mentre l’ambasciatore umano, guardandosi ancora attorno nella moltitudine di tumuli simili a ombrelli di grossi funghi, giunge a una sconvolgente conclusione:

Il cielo sopra di lui si riempì di una luce crudele. L’Hermes, aprendo il fuoco sul sistema di antenne vicine allo spazioporto, trapassò le nubi come se non fossero mai esistite. La pioggia evaporò in un istante, lasciando bianche spire di vapore. Sorse un sole laser. Con un vasto movimento, un fascio di raggi ustori spazzò via dall’intero pendio la nebbia e il vapore. A perdita d’occhio, il fianco della collina era affollato di quelle protuberanze nude e indifese e, mentre gli enormi tralicci e la rete, spezzatisi i cavi, crollavano in fiamme verso di lui, seppe di aver visto i Quintani”.

Lem porta a compimento, in quest’ultimo romanzo, ciò che si era potuto evitare in Solaris (la distruzione dell’oceano pensante) e in L’Invincibile (lo sterminio antimaterico delle mosche cibernetiche di Regis III), grazie alla risoluzione umana di accettare l’impossibilità di un contatto con l’ignoto, in entrambi i casi del tutto alieno, facendo un passo indietro. Su Quinta, che pure dimostra la possibilità di uno scambio comunicativo comprensibile con gli uomini, la situazione non è diversa ma non compete solo all’essere umano, vincolato dal suo innato antropocentrismo che limita la percezione dell’universo a riduzionismi comprensibili solo in virtù della sua stessa essenza, valida unicamente sul proprio pianeta, bensì anche alle creature aliene, a loro volta confinate in una propria sfera sensoriale completamente impermeabile a qualsiasi altra manifestazione esterna. La comunicazione c’è ma non significa nulla, si basa su parametri irriconducibili tra loro, si perde in particolari che messi assieme non portano a un quadro comprensivo o appena interpretabile con reciprocità, come già avvenuto nel precedente romanzo di Lem Pianeta Eden (Eden,1959). Neppure il sofisticatissimo computer di bordo della Hermes, un’intelligenza artificiale emblematicamente (o ironicamente, nell’ottica del pensiero dello scrittore polacco) chiamata Deus, sfugge ai limiti della sua programmazione, incapace, come ovvio riflesso dell’antropocentrismo umano che l’ha ideata, di interpretare adeguatamente elementi riguardanti l’intelligenza extraterrestre e “riuscendo solo ad apprendere quanto stretti fossero i vincoli di parentela mentale tra l’uomo e il suo computer”. Quinta riflette, in questo caso, non il rimosso psicologico dell’uomo come Solaris, ma la sua aggressività, e gliela ritorce contro. Le due intelligenze in contrapposizione non riescono ad andare oltre la propria nicchia biologica, a confrontarsi con un esterno che ha proprietà non condivise e non comprensibili. E’ un “fiasco” gnoseologico, culturale e scientifico che abbraccia non solo un fronte, quello umano, ma anche quello alieno, come provocatoriamente alludeva il titolo originale del romanzo, e sancisce il totale e definitivo pessimismo dell’autore in merito alla presenza umana nel cosmo e al suo tentativo di entrare in contatto con entità extraterrestri.

Tratto dal volume “Spazio – Il vuoto davanti”, di Michele Tetro, Odoya 2021, per gentile concessione dell’autore.

Michele Tetro (Novara, 1969), scrittore e giornalista laureato in Lettere Moderne, ha pubblicato vari racconti di genere fantastico, saggistica cinematografica ed è co-autore dei libri Il grande cinema di fantascienza, 2 voll. Il cinema fantasy, Il cinema dei fumetti (tuttiper Gremese Editore), Contact – Tutti i film su UFO e alieni (Tedeschi Editore) e Mondi paralleli – Storie di fantascienza dal libro al film (Della Vigna). A sua sola firma è uscito il saggio Conan il barbaro – L’epica di John Milius (Falsopiano Editore). Per l’editore Odoya è co-autore dei volumi Guida al cinema di fantascienza (2014), Guida alla letteratura horror (2014), Guida al cinema horror – Dagli anni Settanta a oggi (2015), La Luna nell’immaginario (2019), I due volti del terrore – La narrativa horror sul grande schermo (2020). Ha curato (con Stefano Di Marino)i volumi Guida al cinema western (2016)e Guida al cinema bellico (2017). Come autore singolo ha pubblicato, sempre per Odoya, i volumi Robert E. Howard e gli eroi della Valle Oscura (2018), Dove soffiano i venti propizi – Esploratori, trappers, cacciatori di pelli e cercatori d’oro nel Nuovo Mondo (2019) e Spazio, il vuoto davanti – Le distese cosmiche tra storia, scienza, narrativa, arte e cinema (2021).

Guida ai narratori italiani del fantastico di Walter Catalano, Gian Filippo Pizzo, Andrea Vaccaro (Odoya, 2018) a cura di Elena Romanello

30 gennaio 2021

fantastico_itaSpesso non si pensa all’Italia come ad una terra del fantastico, nel sentire comune si preferisce importare e non produrre, senza dimenticare la poca considerazione verso chi scrive fantascienza, fantasy e horror.
Questi però sono spesso luoghi comuni, il nostro Paese ha in fondo dato i natali a nomi fondamentali del genere, come Ariosto, Tasso, Basile, senza contare l’interesse crescente che c’è alle nostre latitudini, con eventi e iniziative editoriali e non. 
I tre studiosi ed esperti del genere  Walter Catalano, Gian Filippo Pizzo e Andrea Vaccaro si sono cimentati per Odoya con una Guida ai narratori italiani del fantastico, parlando di chi, in Italia, dall’Ottocento ad oggi si è cimentato nei vari tipi di letteratura d’immaginazione, dal gotico al fiabesco, dal fantastico tout court al weird fino appunto ai contemporanei horror, fantascienza e fantasy.
Una guida organizzata in ordine alfabetico, dove si scoprono sorprese: Emilio Salgari, noto per le sue storie di pirati e corsari, scrisse anche fantascienza, abbastanza inquietante e distopico, Giacomo Leopardi si confrontò con la letteratura speculativa nelle Operette morali, Luigi Capuana praticò la corrente verista ma anche le fiabe, mentre Giovanni Verga non si occupò solo dei drammi del Sud ottocentesco, ma anche di storie gotiche. 
Tra i nomi presenti in questa esauriente guida non mancano ovviamente Dino Buzzati, Italo Calvino,  unico italiano a venire insignito con il prestigioso World Fantasy Award alla carriera e voci di oggi, come Valerio Evangelisti, Dario Tonani, Mariangela Cerrino, Licia Troisi, Barbara Baraldi, simbolo di un interesse che è evoluto e aumentato nel corso degli anni.
Il volume ospita anche alcuni box che approfondiscono singoli aspetti del fantastico di casa nostra, come il Premio Urania, una palestra per voci nuove e molto interessanti, l’apporto dato alla Scapigliatura ottocentesca al genere, i vampiri italiani, l’horror alle nostre latitudini e altro ancora. 
La Guida ai narratori italiani del fantastico si presenta come una guida fondamentale per capire generi e filoni e scoprire voci anche insolite, per chiunque si sia confrontato, per passione e lavoro, con mondi che non stancano mai di stupire e far evadere.

La Luna nell’immaginario: Storia, letteratura e cinema del gruppo Maelstrom e di Michele Tetro (Odoya, 2019) a cura di Elena Romanello

24 luglio 2019

LunaCinquant’anni fa l’uomo metteva per la prima volta piede sulla Luna, un grandissimo evento, e per ricordare quello Odoya propone un saggio scritto a più mani dagli autori del gruppo Maelstrom, che indaga il rapporto privilegiato che gli esseri umani hanno sempre avuto con il loro satellite tramite l’immaginario, non dimenticando ovviamente i dati scientifici.
Infatti, fin dall’antichità, ci fu chi immaginava viaggi interplanetari verso la Luna, magari a dorso di un animale mitico come l’ippogrifo, immaginando che esistessero civiltà fantastiche: Luciano di Samostata, Ludovico Ariosto, Jules Verne e gli autori dei racconti pubblicati sulle mitiche riviste pulp sono solo alcuni degli esempi ricordati nelle pagine dei libri, molto prima che il sogno si avverasse e ci si andasse davvero, anche se c’è chi lo nega e il libro esamina anche le divagazioni dei negazionisti.
Il libro racconta mille storie, tra libri, cinema, fumetti, arte, illustrazione, pubblicità, musica e televisione, citando per esempio i romanzi usciti nella collana Urania che hanno raccontato in momenti diversi e a generazioni diverse viaggi sulla Luna. Del resto, oltre a Jules Verne, si sono confrontati con il mito della Luna Herbert G. Wells, Arthur Clarke, Robert Heinlein, Yambo, fino al recente Andy Weir.
Il cinema non è stato da meno a celebrare la Luna, con toni diversi, che possono spaziare dal sognante Viaggio nella Luna di George Méliès del 1902 alle atmosfere epiche di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, uscito un anno prima dello sbarco fino al recente First man che ha raccontato invece l’epopea realistica di Neil Armstrong.
Non sono mancati anche i fumetti, con numeri speciali di note riviste d’epoca come il Corriere dei Piccoli, ma anche le storie di Tin Tin e dei Paperi e Topi disneyani, e non si può dimenticare nemmeno il rapporto tra musica e Luna, da Frank Sinatra con la celebre Fly me to the Moon a ovviamente David Bowie, senza dimenticare gli illustratori, a cominciare da Karel Thole, protagonista di tante copertine Urania.
La televisione sulla Luna ha un posto primario, non solo per la leggendaria cronaca dell’allunaggio con Tito Stagno e Ruggero Orlando, ma anche per serie di culto come Ufo e soprattutto Spazio: 1999, amatissime da chi era bambino e ragazzino negli anni Settanta e ancora oggi ricordate, anche se magari erano implausibili ma non per questo meno affascinanti. Il libro ne ricorda comunque altre da riscoprire meno note, con un taglio a volte anche più realistico.
La Luna nell’immaginario non trascura poi l’aspetto reale, con la storia delle missioni spaziali, uno sguardo sul futuro, il ricordo di quella notte rimasta nel cuore di più generazioni e un’intervista con Umberto Guidoni, uno degli italiani che è andato nello spazio.
La Luna nell’immaginario è un libro per commemorare quel fondamentale evento della Storia umana, uno dei non molti di cui essere fieri, ma anche per confrontarsi con sogni e storie che da sempre il nostro satellite ispira, per chi c’era allora, per chi avrebbe voluto esserci, per chi immagina fin da bambino un giorno di andare anche lui o lei lassù.

Il gruppo Maelström è composto da:

Walter Catalano è redattore delle riviste Carmilla on line e Pulp, collabora regolarmente con varie altre testate tra cui RobotUraniaIf. Ha pubblicato racconti e realizzato cortometraggi anche per la RAI. Per Odoya ha curato la Guida alla letteratura noir.

Roberto Chiavini si occupa di cinema, letteratura fantastica, giochi e insegnamento. Vincitore per cinque volte del premio Italia per la fantascienza, con Odoya ha pubblicato La guerra di Secessione. Storie, battaglie e protagonisti della guerra civile americana.

Luca Ortino ha curato antologie di racconti di genere, soprattutto fantascienza, noir, horror e western.

Gian Filippo Pizzo si occupa da oltre quarant’anni di letteratura e cinema fantastici con articoli su quotidiani e riviste sia specializzate sia generiche e con la curatela di antologie.
Il gruppo Maelström ha curato diverse antologie, pubblicato libri di saggistica e diretto le collane Mellonta Tatua per Fratini di Firenze e Vintage Pulp per La Ponga di Nova Milanese.
Per Odoya ha pubblicato, con l’apporto anche di Michele Tetro: Guida al cinema di fantascienzaGuida alla letteratura horrorGuida al cinema horror e, insieme ad altri saggisti: Guida al cinema fantasyGuida ai narratori italiani del fantastico.

Michele Tetro ha pubblicato racconti sulle riviste OmniFuturaL’EternautaFuturo EuropaYorick Fantasy Magazine. Per Odoya ha pubblicato Robert E. Howard e gli Eroi della Valle oscura. Con Stefano Di Marino ha pubblicato, sempre per Odoya, Guida al cinema western e Guida al cinema bellico.

Provenienza: omaggio dell’Ufficio stampa che ringraziamo.

Guida ai super e real robot di Jacopo Mistè (Odoya, 2019) a cura di Elena Romanello

13 luglio 2019

miste_robotDopo il primo volume di Jacopo Nacci dedicato ai robottoni animati giapponesi, arriva sempre per Odoya quello che è forse il suo seguito ideale, scritto da Jacopo Mistè e dedicato ai giganti d’acciaio di seconda generazione, quelli considerati realistici, non più guerrieri mistici che si ergevano da soli contro il male ma macchine da combattimento in un futuro spaziale.
Il saggio racconta il periodo dal 1980 al 1999, particolarmente florido e interessante per gli anime, in cui il filone fantascientifico trovò una vera e propria età dell’oro, con i migliori narrativi e una grande ispirazione creativa.
Leggendo il libro, che alterna schede a analisi delle storie, ci si accorge comunque quanto materiale inedito ci sia anche da vedere, del resto in Italia, dopo il primo boom degli anime tra il 1978 e il 1982, si mise un freno all’importazione soprattutto di serie robotiche (erano considerate diseducative) e solo nel decennio successivo, con i fan ormai adulti, si poté ricominciare a vedere qualcosa, spesso per l’home video,  perdendo però varie storie che qui possono essere conosciute.
Il libro parte facendo un accenno ai titoli più vecchi, con personaggi comunque emblematici come Tetsujin 28 e Mazinger Z, per poi arrivare al fenomeno Gundam, che all’inizio fu un flop e fu solo l’insistenza di Yoshiyuki Tomino che permise alla serie di andare avanti e diventare la prima di un nuovo mondo e modo per raccontare storie con i robot.
L’altra grossa saga che il libro tratta è quella di Evangelion, ideata da Hideaki Anno negli anni Novanta, altra rivoluzione di nuovo alla ribalta per le vicissitudini della serie su Netflix, ancora in attesa di un film conclusivo.
Nelle pagine del libro trovano spazio tante storie e autori, come VOTOMS e Gasaraki di Ryōsuke Takahashi, Patlabor di Mamoru Oshii, dietro anche ad un cult come Ghost in the shellGiant robot di Yasuhiro Imagawa, pescando tra ricordi e fandom e raccontando comunque un modo insolito e originare di rapportarsi con la fantascienza.
Jacopo Mistè rivela quindi come si è evoluto un genere ancora oggi emblematico, dallo schematismo infantile tipico del genere tokusatsu delle origini per arrivare alle storie odierne, tra continuuity serrata, regie rivoluzionarie, sceneggiature da leggere a più livelli, contenuti che non si limitano certo solo alla storia raccontata.
L’autore ha scritto il libro partendo da diversi tipi di fonti, consultando materiale originale giapponese, fanzine anche italiane degli anni Ottanta e Novanta,  siti Web ricchi di contenuti inediti, per un volume per appassionati, non necessariamente nostalgici, ma anche per curiosi e per studiosi, che vogliono sapere di più su un segmento dell’immaginario comunque fondamentale.

Provenienza: libro del recensore.

Jacopo Mistè nasce nel 1987 e vive a Pove del Grappa. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, gestisce il blog Anime Asteroid specializzato in recensioni di titoli di animazione giapponese, in particolare quelli del mondo della fantascienza e della robotica. I suoi scritti appaiono anche nella rivista Terre di Confine Magazine.

Storia dei draghi di Martin Arnold (Odoya, 2018) a cura di Elena Romanello

4 luglio 2019

arn_draghiLa casa editrice Odoya dedica un libro ad una delle figure più carismatiche dell’immaginario fantastico, il drago, presentando appunto una Storia dei draghi, scritta dall’autore Martin Arnold.
I draghi sono presenti in varie culture, anche molto diverse tra di loro, e il sottotitolo lo ribadisce: Dai Nibelunghi a Game of thrones., dalle leggende epiche di passati remoti al presente di una serie TV diventata di culto e capace di conquistare il pubblico di tutto il mondo, in cui il lucertolone sputafuoco ha avuto una delle sue più riuscite incarnazioni. Il libro è completato per l’edizione italiana da una postfazione di Licia Troisi, nerd, cultrice del fantasy prima di esserne lei stessa autrice e di dare anche lei una sua versione sui draghi.
Il libro è illustrato con immagini di quadri, statue, oggetti, fotogrammi di film e telefilm e presenta come il drago sia stato temuto ma anche amato in tutto il mondo: forse il suo mito fu stimolato dal ritrovamento delle ossa dei dinosauri sulle quali non si sapeva dare una spiegazione, sta di fatto che è presente in luoghi diversi come il mondo nordico, la cultura biblica, la mitologia classica, la Cina, il Giappone e presso i popoli celtici.
Una creatura di potere, da temere e combattere, rispettata in Oriente dove era considerata simbolo di saggezza e equilibrio, capace di giungere fino a noi dalle antiche leggende che avevano protagonisti Ercole, Sigfrido e san Giorgio.
I draghi hanno avuto poi grandissimo successo nella cultura fantasy dell’ultimo secolo, da Tolkien a Ursula K. Le Guin, da Anne McCaffrey a J. K. Rowling, e sono comparsi in vari film, come Excalibur, Dragon Trainer e nel fondamentale Dragonheart. Il libro esamina in maniera approfondita la saga di Game of thrones, con tre draghi che si sono visti nascere e crescere sullo schermo e che hanno sviluppato con la loro madre putativa Daenerys un rapporto di amore e morte, potere e distruzione, di cui si è visto recentemente l’epilogo.
Storia dei draghi è un libro per chiunque ami i draghi, creature mai esistite ma in realtà presenti nei nostri sogni e incubi in maniera costante, fin da quando si è piccoli per arrivare al binge watching contemporaneo sulle avventure della Madre dei Draghi, incapace di dominare davvero esseri così possenti e oltre ogni limite.

Martin Arnold è senior lecturer di Letteratura inglese presso la University of Hull. Ha conseguito un dottorato con una tesi sulle saghe islandesi medievali alla University of Leeds nel 1996. È stato uno dei curatori della rivista Studies in Medievalism. Tra i suoi libri di maggior successo ricordiamo: The Vikings. Culture and Conquest(2006) e Thor: Myth to Marvel (2012).

Provenienza: libro del recensore.

Guida all’immaginario nerd di Vari (Odoya, 2019) a cura di Elena Romanello

13 giugno 2019

nacci_nerdLa casa editrice Odoya continua la sua esplorazione delle culture pop degli ultimi decenni fino ad oggi con la corale Guida all’immaginario nerd, un volume illustrato che porta in quello che oggi è uno degli universi di narrazioni più amati e forse anche più discussi, per accuse periodiche di istigazione alla violenza, isolamento e ultimamente di abbracciare ideologie maschiliste e fasciste.
I cinque autori del libro, Jacopo Nacci, Alessandro Lolli, Irene Rubino, Gregorio Magini e Fabrizio Venerandi, affiancati da alcuni altri collaboratori, tra cui Vanni Santoni autore di uno dei libri simbolo sulla cultura nerd, La stanza profonda,  si confrontano nelle pagine del libro con quella che viene chiamata nerdiness o nerditudine, se può essere definita una subcultura, una delle tante giovanili che sono sorte in Occidente soprattutto dal dopoguerra ad oggi o un’indole, uno stile di vita, se è un insieme di prodotti culturali, libri, film, telefilm, fumetti, videogiochi, o un atteggiamento in generale che investe tutto.
In fondo, il libro dice che i nerd non esistono e se esistono non sono gli autori delle pagine del volume, che nessun essere umano è una caricatura, e in definitiva nessun nerd è mai tale perché non esiste un canone nerd, e se ci fosse nessun essere umano, di nessuna età sarebbe in grado di incarnarlo.
Le definizioni di nerd sono tante, patito di videogiochi, fanatico di fumetti e immaginario fantastico perso in un suo mondo e con poca attitudine verso qualsiasi forma di vita sociale, fissato con le tecnologie, interessato a cose poco popolari, capace di virare, come si è detto recentemente, anche verso ideologie estremiste. Ma su questo gli autori sono abbastanza fermi a dire che non c’è correlazione.
Guida all’immaginario nerd racconta percorsi individuali, mentalità, subculture incarnate in varie persone, di più generazioni, che in qualche modo si sono avvicinate ad un mondo vasto, contraddittorio appunto, dove non mancano anche le donne e le ragazze e dove forse certi atteggiamenti totalitari e estremisti sono fuori luogo e forzature.
Nelle pagine del libro, un saggio non nostalgico ma che crea non pochi ricordi, trovano spazio i videogiochi anni Ottanta, il film cult Wargames, un mito ormai di generazioni come Star Wars, l’universo ampio di Star Trek, l’iconico Capitan Harlock, la serie Doctor Who, ad oggi il telefilm più duraturo di sempre, i super eroi Marvel, i Transformers, La storia infinitaStand by meI GooniesIl signore degli anelliDylan DogDungeons & Dragons e molto altro ancora.
Ogni nerd troverà in queste pagine eroi e ispirazione, una strada per scoprirsi o riscoprirsi in un certo modo, e chi vuole sapere chi sono davvero questi nerd potrà avere degli spunti comunque.

Alessandro Lolli ha pubblicato il libro La guerra dei meme (Effequ, 2017), primo saggio italiano sul fenomeno dei meme di internet e sulle sottoculture virtuali che li hanno generati. Scrive di cultura, politica, cinema, letteratura e musica su riviste come Not, Esquire Italia, Il Tascabile, Vice Italia e altre. Quando non scrive, è un giocatore competitivo di Super Smash Bros. e ottiene piazzamenti di tutto rispetto, anche in tornei nazionali.

Gregorio Magini vive e programma a Firenze. Ha pubblicato i romanzi La famiglia di pietra (Round Robin, 2010) e Cometa (Neo Edizioni, 2018). Ha fondato e coordinato il progetto Scrittura Industriale Collettiva, da cui è nato il romanzo storico a 115 autori In territorio nemico (Minimum Fax, 2013). I suoi racconti sono apparsi sulle riviste letterarie italiane e antologie.

Jacopo Nacci è narratore e diverse altre cose malgrado creda fermamente nella specializzazione. Ha pubblicato il romanzo Dreadlock! (Zona, 2011), il saggio Guida ai super robot (Odoya, 2016), un paio di autoproduzioni in formato eBook, qualche racconto su riviste cartacee e in rete, e diversi articoli di cultura pop su L’indiscreto, Fumettologica, Not ed Esquire.

Irene Rubino, dopo gli studi di lettere classiche e letterature comparate a Pisa, approda a Carrara dove diventa giornalista a tempo pieno. Collabora con Il Tirreno e La Voce Apuana; i suoi contributi sono apparsi, tra gli altri, su Prismo Magazine e Cinema Errante.

Fabrizio Venerandi è cofondatore della casa editrice Quintadicopertina per la quale ha seguito gli sviluppi della narrativa interattiva e della programmazione dei libri elettronici. È autore di libri, di letteratura elettronica, di interactive fiction e videogiochi.

Provenienza: libro del recensore.

:: Guida al cinema noir di Stefano Di Marino in collaborazione con Michele Tetro (Odoya 2018)

28 novembre 2018

noir_dimarino“L’ho ucciso io. L’ho ucciso per denaro e per una donna. E non ho preso il denaro… e non ho preso la donna.”

dal film La fiamma del peccato di Billy Wilder (1944)

Il Noir è forse il genere cinematografico più prolifico e duraturo della storia del cinema. Legato alla letteratura ma capace di sviluppare anche moltissimi soggetti originali, accompagna il pubblico sin dagli anni Trenta. Oggi tutto viene etichettato come Noir, ma esistono canoni tematici e stilistici che il lettore deve conoscere per approfondire questo ricchissimo filone. Lo scopo di questa guida è introdurre il neofita in un mondo oscuro e complesso e stimolare l’esperto a rivedere e analizzare film classici e meno conosciuti.
Una panoramica del genere Noir, così come è stato interpretato non solo nel suo paese d’origine, gli Stati Uniti, ma anche in Francia, in Inghilterra e in Italia, senza tralasciare quelle cinematografie che negli anni hanno integrato il Noir nella loro tradizione: la Spagna, la Scandinavia e l’Estremo Oriente. Chiarita la divisione nei tre periodi principali, Noir classico (dagli anni Trenta fino alla fine dei Cinquanta), neo Noir (dalla Nouvelle Vague fino agli anni Ottanta) e post Noir (le ultime tendenze legate al cinema di Tarantino), il volume affronta tutti i personaggi chiave con un’ampia scelta di film.
Si affrontano i protagonisti maschili e femminili nella loro evoluzione, con esempi tratti da un gran numero di pellicole corredate da “Casi scottanti”, film emblematici analizzati nel dettaglio. Gangster, rapinatori, detective, poliziotti onesti e corrotti, dark ladies e donne perseguitate, maniaci e avventurieri in terre lontane, senza dimenticare una folta schiera di uomini e donne coinvolti in situazioni da incubo. Una panoramica che consente non solo di scegliere e apprezzare i singoli film, ma di seguire l’evoluzione di un genere arrivato fino a noi.

Stefano Di Marino, tra i più prolifici narratori italiani, attivo per le collane Mondadori “Segretissimo” e “Giallo”, da anni si dedica alla narrativa scrivendo romanzi e racconti di spy-story, gialli, avventurosi e horror.
Per Fabbri ha curato Il cinema del Kung Fu e Il cinema Horror. Per la Gazzetta dello Sport le collane Il cinema del Kung Fu (diversa dalla precedente) e Gli indistruttibili – Il cinema d’azione degli ultimi vent’anni.
Tra i suoi libri sul cinema Tutte dentro – Il cinema della segregazione femminile (Bloodbuster Edizioni), Bruce e Brandon Lee (Sperling & Kupfer), Dragons Forever – Il cinema marziale (Alacran), Italian Giallo – Il thrilling italiano tra cinema, fumetti e cineromanzi (Cordero Editore) e Eroi nell’ombra – Il cinema delle spie raccontato come un romanzo (Dbooks.it).
Per Odoya ha già pubblicato Guida al cinema di spionaggio (2018).

Michele Tetro, scrittore e giornalista, ha pubblicato racconti sulle riviste OMNI, Futura, L’Eternauta, Futuro Europa, Yorick Fantasy Magazine. Ha curato l’antologia H.P. Lovecraft – Sculptus in Tenebris: saggi ed iconografia lovecraftiana (Nuova Metropolis) e con Roberto Chiavini e Gian Filippo Pizzo ha scritto Il grande cinema di fantascienza: da “2001” al 2001, Il grande cinema di fantascienza: aspettando il monolito nero, Il grande cinema fantasy (Gremese), Mondi paralleli – Storie di fantascienza dal libro al film (Della Vigna) e altri.  Per Odoya è autore di Robert E. Howard e gli eroi della Valle Oscura e co-autore dei volumi Guida al cinema di fantascienza, Guida alla letteratura horror e Guida al cinema horror.

Guida alla letteratura gotica di Fabio Camilletti (Odoya, 2018) a cura di Elena Romanello

1 novembre 2018

Camilletti_GoticoLa letteratura gotica è stata la madre, o meglio la nonna, di tutti i generi letterari, creando la prima affezione del pubblico mentre nasceva l’editoria moderna come industria creativa che doveva comunque fare affari per andare avanti, non potendo più contare sul sostegno di principi e prelati.
A questo filone è dedicata la guida Odoya Guida alla letteratura gotica, che racconta una stagione imperdibile, una settantina d’anni fra il 1764, quando esce a Londra Il castello di Otranto di Horace Walpole al 1831 quando esce l’edizione definitiva di Frankenstein di Mary Shelley, l’ultimo romanzo gotico ma anche il primo di fantascienza, nato dalla famosa scommessa di Villa Diodati durante un’estate distrutta da un’eruzione vulcanica agli antipodi per creare una storia che facesse davvero paura.
La letteratura gotica ha portato con sé una serie di romanzi ambientati, curioso, per lo più in Italia, vista allora come terra di mistero e di pericolo, quando invece in seguito si è identificato il mondo anglosassone come perfetto per certe storie e certe figurazioni, scritti spesso da donne, alle prese con fantasmi, insidie, fanciulle in pericolo, misteri dal passato, maledizioni e tanto altro ancora. Libri nati come prodotti di intrattenimento, diventati poi classici, che spesso tutti citano senza averli mai letti e che è senz’altro interessante ricominciare a scoprire grazie a questo libro, perché anche se a tratti oggi molti di questi romanzi possono sembrare obsoleti, tra le righe contengono qualcosa che ha continuato ad affascinare fino ad oggi e che ad allora non ha più lasciato pubblico e scrittori.
Nei romanzi gotici nascono molti archetipi e incubi che continuano ancora oggi ad esserci, nei libri, nei film, nei telefilm, nei fumetti, e dall’impatto che hanno avuto sull’editoria si capirà l’importanza dei generi letterari nella narrativa di consumo, da proporre a lettori avidi e che portano soldi agli editori comprando e leggendo storie avvincenti, magari non auliche e di gran qualità, ma capaci di fondare la modernità.
Il gotico nasce in un’Inghilterra affascinata dall’Italia, durante la prima rivoluzione industriale, riflette un mondo vecchio che sta andando a pezzi, con l’avvento di un nuovo modo di vivere mentre Oltremanica scoppia la rivoluzione francese, con troni e teste che cadono, e riflette a suo modo incertezze e paure, oltre a creare un’evasione, inquietante ma sempre evasione, tra meraviglia e orrore, proprio mentre si celebra la ragione come guida di tutto, e si mette il soprannaturale in letteratura, dove diventerà immortale.
Un libro interessante per cultori e appassionati, con tante curiosità e spunti di lettura, arricchito da varie immagini e da trame delle opere più importanti, per scoprire percorsi e mondi che alla fine non ci hanno mai lasciato.

Provenienza: libro del recensore

Fabio Camilletti è professore associato di Letteratura italiana all’Università di Warwick, in Inghilterra. Specialista di letteratura gotica e romantica, si è formato fra Pisa, Oxford, Parigi e Birmingham, e dal 2008 al 2010 è stato fellow in Letterature comparate, Storia dell’arte e Psicoanalisi all’Institute for Cultural Inquiry di Berlino.
Tra le sue pubblicazioni recenti: The Portrait of Beatrice: Dante, D.G. Rossetti, and the Imaginary Lady e Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto in uscita nel 2018. Nel 2015 ha curato la prima edizione completa di Fantasmagoriana (Nova Delphi).

:: Guida al cinema fantasy di Walter Catalano, Andrea Lazzeretti e Gian Filippo Pizzo (Odoya 2017) a cura di Elena Romanello

13 dicembre 2017

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La Odoya edizioni propone un nuovo volume dedicato all’approfondimento tematico del fantastico con la Guida al cinema fantasy, opera dei tre esperti Walter Catalano, Andrea Lazzeretti e Gian Filippo Pizzo.
Negli ultimi vent’anni il fantasy al cinema ha avuto vari successi e anche qualche flop, non necessariamente di bassa qualità, diventando comunque un genere atteso e amato da più generazioni di appassionati soprattutto grazie ad alcuni titoli: il saggio Odoya indica come momento importante per l’affermazione di storie di magia e eroi nella Settima Arte gli anni Ottanta, quando uscirono due titoli ancora oggi godibilissimi, il barocco Excalibur di John Boorman ispirato alle leggende della tradizione arturiana e lo spassoso Conan il barbaro di John Milius, tratto dai racconti pulp dello sfortunato autore degli anni Trenta Robert E. Howard.
Gli autori però non trascurano tutti i film che, dal muto in poi, erano ascrivibili al genere fantasy, senza scordare anche il cinema d’animazione di Walt Disney, maestro a mescolare fiaba, magia e eroi, e Hayao Miyazaki, con le sue principesse sui generis da Nausicaa a Mononoke, per arrivare poi ovviamente alla storia recente, con due teste di ponte famosisissime e amatissime come la saga de Il signore degli anelli e quella di Harry Potter, entrambe di derivazione letteraria e entrambe grandi successi di pubblico e di critica. Parlare dell’attualità vuol dire anche non dimenticare le influenze tra cinema e videogiochi, con un film come Warcraft , che racconta con il filtro del fantastico il tema attualissimo dello scontro tra civiltà, e soprattutto raccontare le serie tv, da Xena a Game of thrones, che hanno aumentato la popolarità del genere trovando nuovi target di pubblico e diventando fenomeni di costume anche per i non afidionados.
Del resto, è da tempo che si sa che il fantasy non è certo solo storie per ragazzini piene di effetti speciali, anzi nelle sue storie, letterarie o su grande e piccolo schermo spesso si parla di tematiche profonde, come viaggi iniziatici per lottare contro il male ma soprattutto per trovare un equilibrio dentro se stessi oltre che metafore dell’attualità.
Ognuno, a seconda dell’età ha il suo film fantasy preferito, e la Guida al cinema fantasy li cita tutti o quasi, dalle Cronache di Narnia al cult Labyrinth, da Stardust a La storia infinita, da La corona di ferro a La storia fantastica, confermandosi come un libro di grande interesse per cultori e curiosi del genere fantastico. L’argomento, appassionante e divertente, viene trattato comunque, come è abitudine della Odoya, in maniera non nostalgica, anche perché si tratta di una storia ben lontana dall’essere conclusa e che puà far scoprire o riscoprire tante cose.

Walter Catalano collabora con varie pubblicazioni tra cui Carmilla, Robot e Urania, ed è attivo come curatore di antologie, tra le quali l’ultima è Nostra Signora degli Alieni in collaborazione con Gian Filippo Pizzo (Homo Scrivens 2017). Per Odoya è coautore della Guida alla letteratura horror (2014) e della Guida al cinema horror (2015).

Andrea Lazzeretti da circa vent’anni coordina la più longeva pubblicazione italiana sui giochi (di ruolo e non), Anonima Gidierre, e ha pubblicato Il cinema dei fumetti (Gremese 2007).

Gian Filippo Pizzo si occupa da oltre quarant’anni di letteratura e cinema fantastici con collaborazioni a quotidiani e varie riviste.
Per Odoya ha collaborato al volume Guida alla letteratura di fantascienza a cura di Carlo Bordoni (2013) e ha scritto la Guida al cinema di fantascienza assieme a Roberto Chiavini e Michele Tetro (2014) oltre alle citate Guida alla letteratura horror e Guida al cinema horror.

Source: acquisto personale del recensore.

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