Che Jean Christophe Grangé sia un outsider, un fuori casta, non è una novità. Come Grangé c’è solo lui. Se i suoi libri sono molto differenti dal nostro classico giallo all’italiana, dubito che rientri neanche nel giallo alla francese, Grangé naviga in acque tutte sue.
A suo modo è una versione europea, e spiccatamente francese, di James Ellroy, stessa abilità narrativa, stessa padronanza lessicale, stessa vena di temerarietà oltre le righe, stesso senso del ritmo e della suspense, e stessa prolificità, sono entrambi capaci di sfornare tomi da 500 pagine e più con praticamente poche pagine superflue, sebbene forse qualche sforbiciata qui e lì renderebbero i romanzi più maneggevoli.
Certo non sono libri per tutti, dire che i suoi libri sono adatti a stomaci forti è un eufemismo, e che le tematiche siano esclusivamente per adulti e ben poco influenzabili idem, non vorremmo mai che frotte di adolescenti in via di emulazione si tagliassero un fianco per esporre gli intestini a un particolare genere di voyeur.
Insomma ci siamo capiti La maledizione delle ombre (La terre des morts, 2018) edito da Garzanti e tradotto da Doriana Comerlati e Giuseppe Maugeri, è un libro da trattare con cautela.
Sebbene ami Grangé come autore, ecco mi pare doveroso avvertire i lettori che tra perversioni, droga, violenza, traumi, deliri etc.. qui Grangé ne ha fatto come una sorta di campionario, e se amate i thriller diciamo più tranquilli, bene forse è meglio che vi dirigiate verso altri lidi.
Non è tra i miei suoi libri preferiti, però non si può dire che non sia originale come costruzione della trama e dei personaggi, e inquietante, con tutto il torbido mondo legato a club sadomaso, esperti di shibari e bondage estremo, violenze e perversioni varie, e tutto quello insomma che dovrebbe shoccare, sconvolgere e scandalizzare il placido mondo borghese. Ma come si suol dire finchè si è adulti e consenzienti, tutto va bene, o quasi.
La sensazione che ho avuto, al netto della trama diciamo poliziesca, che analizzerò in seguito, (e vi preannuncio già geniale sia per come depista investigatori e lettore, per poi servire il colpo di scena finale secco come la lama della ghigliottina che cade) è che Grangé abbia voluto fare un viaggio personale nel misterioso e proibito mondo del sesso non omologato ed eretico, uno dei pochi campi dove sia ancora possibile una sorta di creativa ribellione e anarchia, col piglio indagativo di uno Stieg Larsson prima maniera, scrivendo una sorta di “Uomini che odiano le donne” contorto e psichedelico. Anzi introdurrei per lui il termine di acid thriller, se non l’hanno già coniato.
Eroe e protagonista della vicenda è Stephane Corso, capo della prima sezione della brigata Criminale del Trentasei parigino, un poliziotto sui generis, segnato da un passato difficile, senza famiglia, affidamenti familiari, droga, illegalità, abusi, preso per i capelli da Catherine Bompart, capo della Criminale, che l’ha letteralmente tolto dalla strada, salvato da un’accusa di omicidio e trasformato nel migliore poliziotto del Trentasei (non fatevi ingannare dal fatto che sembra che canni per tutto il romanzo ogni ipotesi investigativa possibile, in realtà sta lottando con una mente criminale al di là di ogni catalogazione, e alla fine scopre tutto, eccetto naturalmente il mistero finale che comunque Grangé ci serve in un piatto d’argento, e ormai molti lettori c’erano già arrivati o perlomeno ne avevano avuto il dubbio conoscendo i temi cardine dell’autore). Di destra, ma non così di destra come Catherine Bompart (che vota per il Front Nazional e auspica il ritorno della pena di morte), con un grumo di violenza compresso, che trova libero sfogo per esempio nell’operazione Pablo-Picasso, o quando pesta durante l’interrogatorio l’indiziato senza tante remore, (insomma rispetto per i diritti umani dei delinquenti pari a zero), con un unico e assoluto lato positivo, l’amore incondizionato e autentico per suo figlio Thaddée, l’unica luce in un mondo di oscurità, per cui lotterà contro l’ex moglie bulgara e dalla doppia vita, con gusti sessuali molto particolari. Insomma Corso è, pur con tutto quello che lo caratterizza, simpatico, nasce nel lettore per lui una certa empatia, non è insomma una carogna al cubo come avrebbe potuto essere. Grangé conserva qualcosa di sacro e positivo, e un barlume di speranza che racchiuderà un che di catartico nel finale. (Se no c’era davvero da dare la testa nel muro, credete a me).
Se il punto di forza del libro è il protagonista, anche il lato investigativo ha il suo fascino. Corso è a capo di una quadra formata da altrettanti validi poliziotti: Barbie, diciamo la sua vice, più acuta e sveglia di lui per molti versi, Stock, Ludo e Krishna.
Ma veniamo al caso che nasce dal ritrovamento, non lontano da place d’Italie, del cadavere di una spogliarellista dello Squonk, locale alla moda del X arrondissement, Sophie Sereyes, nome d’arte Nina Vice.
Già le modalità dell’assassinio e di come è stato composto il corpo (richiama alcune opere apocrife di Goya) fa capire che non siamo davanti a un assassino comune: i nodi con cui è stata legata la vittima, il volto sfigurato in maniera orribile e altri macabri dettagli lasciano gli investigatori sconcertati e perplessi.
Sulle prime il caso è affidato al comandante Patrick Bornek, vecchia guardia, uomo e poliziotto che segue la procedura, che non ne cava un ragno dal buco, allora per una sorta di avvicendamento il capo della Criminale affida il caso a Corso e alla sua squadra, ed è l’inizio di un tour degli inferi di prima grandezza.
Corso e i suoi rivedono punto per punto i passi condotti da Bornek (forti del fatto noi faremo meglio) finchè i nodi con cui era stata stretta la vittima li conducono da un vero maetro di shibari, l’arte della corda giapponese, che li illumina su alcuni particolari, tra cui la presenza di “nodi chiusi” che rimanda allo “shibari dei colpevoli” (confermando l’intuizione di Corso che quella morte sia una sorta di punizione), e soprattutto la presenza di un nodo aperto, a simboleggiare che è solo l’inizio e non si tratta di un omicidio isolato ma l’opera di un vero e proprio serial killer.
E infatti la seconda vittima arriva, sempre una spogliarellista dello Squonk, stesse modalità, stesso macabro rituale.
Indizi che si contraddicono, piste che non portano da nessuna parte, finchè un poliziotto ormai in pensione non arriva con un faldone e la sicurezza assoluta di sapere chi è l’assassino: un tale Sobieski, un vero pendaglio da forca, trent’anni prima giudicato colpevole di un omicidio molto simile per cui si è fatto una lunga sfilza di anni di carcere, per uscirne… redento, un’artista, un pittore quotato, beniamino di intellettuali, politici, e personaggi progressisti che ne hanno fatto un esempio di riabilitazione e rinserimento nella società.
Cose a cui Corso, non è manco il caso di dirlo, non crede affatto, insomma assassino una volta assassino per sempre, nessuna possibilità di redenzione, e infatti lo elegge a suo colpevole ideale, e per tutto il libro assistiamo a una sua personale, a volte scombiccherata, caccia per incastralo.
Ma Sobieski sarà davvero il colpevole?
Quando finalmente Corso riesce a arrestarlo e inizia il processo, l’apparizione del suo avvocato difensore Claudia Muller, paladina dei diritti degli indifendibili, donna bellissima e misteriosa, che non lo degna della minima attenzione (Corso si prende una scuffia pazzesca per la bella avvocatessa, così lontana dal suo modo di pensare e agire), le carte si ribaltano, tutto sembra perdere senso e anche in Corso si affaccia il dubbio, facendolo perdere nei meandri di un’indagine che ormai ha i connotati di un’ossessione.
Non posso dire di più ma la bravura di Grangé saprà governare questa massa apparentemente confusa e magmatica, tirando le fila e dando spiegazioni plausibili per ogni vicenda a prima vista inverosimile.
La cosa bella è che gli indizi rivelatori Grangé te li mette sotto il naso già dall’inizio (e insiste pure) e non li capisci. Corso non li capisce perché offuscato dalle sue ossessioni e dai suoi demoni interiori, il lettore perché in effetti chi regge il gioco non gioca pulito, anzi tutt’altro.
Al netto delle parti più macabre e splatter, non voglio sapere dove Grangé si è documentato per tutta la parte dedicata ai film gonzo e alla loro commercializzazione su internet, parti però funzionali a creare l’atmosfera nera che si respira per tutto il romanzo, non si può non ammirare la bravura di Grangé come scrittore. Alla fine della lettura comunque il dubbio che in giro di sciroccati che ce ne siano davvero tanti è legittimo, pur tuttavia è consolante che nasca tutto dalla fervida fantasia di Grangé, tipino da prendere con le pinze pure lui. Se dopo tutto quello che ho scritto non vi ho dissuaso definitivamente dal comprare il libro, vi auguro buona lettura, dopo tutto la realtà batte sempre qualsiasi fantasia. E c’è un limite pure a quello che si può scrivere in un romanzo. Grazie a Dio direte voi.
Jean-Christophe Grangé è autore di romanzi che hanno ampliato i confini del thriller tradizionale. Dopo l’esordio negli anni Novanta, giunge alla notorietà grazie al film di Mathieu Kassovitz tratto da I fiumi di porpora (Garzanti 1999) interpretato da Jean Reno e Vincent Cassel, il primo di diversi adattamenti delle sue opere per il cinema e la televisione. Per Garzanti ha pubblicato anche Il volo delle cicogne (2010), Il concilio di pietra (2001), Amnesia (2012), Il respiro della cenere (2013) e Il rituale del male (2016), primo volume della saga nera che trova la sua conclusione nell’Inganno delle tenebre (2017). Sempre con il medesimo editore pubblica La maledizione delle ombre (2019).
Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo l’ufficio stampa Garzanti.







Non è facile scrivere questa recensione. Più che per una difficoltà oggettiva, (il libro è lungo quasi 800 pagine, è di per sè complesso, e l’ho letto in lingua originale, per cui alcune parti è molto probabile che non le abbia comprese perfettamente), non è facile perchè Lontano di Jean-Christophe Grangé l’ho finito di leggere ieri poche ore prima che la televisone mi comunicasse i fatti terroristici di cui Parigi è stata vittima. Mi dispiace funestare questa recensione con questa premessa ma è giusto che sappiate lo spirito con cui la scrivo. La televisione parla di guerra, altri morti, altra sofferenza e parlare di libri è la mia forma di resistenza. Ho ricevuto Lontano dall’editore francese Albin Michel, non è ancora uscito in Italia, penso uscirà sempre per Garzanti la prossima primavera, probabilmente in questo momento stesso c’è un traduttore al lavoro su queste pagine. Lontano è un thriller che prevede un seguito, non tutte le parti saranno chiarite, ci sarà una seconda parte che uscirà presumibilmente in Francia questa primavera. In tutto qualcosa come 1600 pagine, l’opera più ambiziosa e complessa di Grangé. Non sono un recensore imparziale, da I fiumi di porpora ho seguito questo autore anomalo con grande interesse. Amo il suo stile, il suo toccare temi seri inserendoli in trame ricche di suspense, colpi di scena e un tocco di fantascienza, e fantapolitica, con uno sguardo al sociale frutto del suo passato di giornalista. Lui sì che ha molto viaggiato e visto molte parti del mondo, anche difficili, terreni di guerra, di scontri economici. Grangé è uno che sa, e è uno che sa scrivere le cose in modo che la gente abbia voglia di leggerle. Pensiamo all’ Africa, ai danni del colonialismo, al razzismo, alle lotte finanziarie per l’accaparramento delle materie prime. Materie da studiarsi all’università direte voi. Nei suoi romanzi invece chiunque può confrontarsi con queste tematiche anche se l’autore continua a sostenere che scrive romanzi di evasione, per intrattenere i suoi lettori non educarli. Lontano resta un thriller non è un saggio socioeconomico, ha soluzioni narrative atte a creare suspense, inserisce rivelazioni drammatiche, cambi di prosepettiva e derive scientifiche che appunto potremmo definire fantascienza. Pensiamo all’eugenica di I fiumi di porpora, o agli studi sul cervello e sulla memoria de L’impero dei lupi. Un fondo di verità scientifica su una struttura narrativa fatta di pura fiction. Questo è lo stile di Grangé. Lontano ha per protagonista un clan familiare, i Morvan. E lo sviluppo dei personaggi del partriarca Gregoire e dei figli Erwan, Loic e Gaelle è il punto di forza del romanzo, la parte dove si vede l’autore ha profuso più cure. Gregoire Morvan è un uomo di Stato, un uomo che conosce i retroscena di una Repubblica piena di luci e di ombre. Un uomo che ha sempre svolto il lavoro sporco per una sua idea di onestà e coerenza. Erwan il maggiore è quello che più gli somiglia ma ha altre idee, fa parte di un’ altra generazione. Loic e Gaelle sono i due figli più fragili, più tormentati, più problematici con le loro storie di droga lui e prostituzione lei. Una famiglia insomma problematica, che sì rappresenta i buoni ma non è priva di ombre, soprattutto Gregoire Morvan. La storia prende il via partendo da un’ indagine. Un giovane pilota viene ucciso per un apparente caso di nonnismo durante un’ esercitazione in Bretagna, nei dintorni di Brest, paese d’origine della famiglia Morvan. Erwan è certo che ci sia invece in azione un serial killer, misteriosamente legato a un’altro serial killer di cui si occupò suo padre quanrant’anni prima, l’Homme-clou. Padre e figlio dovranno allearsi per fare luce su questa faccenda che unirà Francia e Africa, pratiche tribali, e strani esperimenti medici. Un colpo di scena finale ci accompagnerà verso la seconda parte, in cui forse, avremo tutte le risposte. Forse. Avviso che ci sono alcune parti molto crude e cruente. Non per tutti.
Va detto che sono un cultore di Grangé sin dalla prima ora. Arriva con più di un anno di ritardo Kaiken con il titolo Il respiro della cenere sugli scaffali delle librerie italiane. Lessi il libro l’anno passato ma l’ho ripreso con piacere e brama di collezionismo anche se preferivo l’edizione originale, sin dal titolo che evoca un particolare pugnale usato per il suicidio delle donne samurai. Anche l’immagine mi pareva più indovinata. A parte questo è sempre un grande thriller d’autore forse non al livello del Passeggero (in Italia Amnesia) e del Giuramento ma sempre parecchi passi avanti a tanti supposti thriller blockbuster con investigatrici e anatomopatologhe in pena d’amore. Dopo La foresta dei Mani (L’istinto del sangue da noi) Grangé sembra aver abbandonato l’idea di mettere complesse psicologie femminili al centro delle sue trame. Qui personaggi femminili sono presenti, in particolare Naoko, descritti benissimo ma la scena appartiene a Oliver Passan, sbirro che mi piace immaginare con la faccia di Daniel Auteil un po’ più giovane. Tormentato, duro, alle prese con un serial killer ermafrodito e colleghi corrotti che peggio non ce n’è. Un uomo dolente, anche perché separato dalla moglie giapponese ma ossessionato da quell’oriente che solo gli occidentali sanno sognare. E qui sta un po’ la forza del romanzo che ci regala non solo momenti di autentico thrill ma anche pagine bellissime senza diventare prosaico. Malgrado ciò si rivela nello svolgimento una certa scollatura tra la prima e la seconda parte. L’attesa di qualcosa che deve avvenire ma poi non succede purtroppo non soddisfa appieno le aspettative del lettore. Ciò nonostante lo lessi di fila in un viaggio Parigi-Milano in treno, senza smettere un minuto di quelle sette ore sotto la pioggia. Vedremo il prossimo e, soprattutto, cosa lo stesso Grangé è riuscito a fare con la sceneggiatura di Miserere che ci auguriamo di vedere presto anche da noi.
Traduzione dal francese di Doriana Comerlati
























