Posts Tagged ‘Federica Spinelli’

:: La cattura dell’effimero – Beatrice Colin (Neri Pozza 2017) a cura di Federica Spinelli

5 settembre 2017

la_cattura_dell_effimero_01La cattura dell’effimero è ambientato nella Parigi alla vigilia dell’Esposizione Universale del 1889, quella in cui sorgerà una delle meraviglie del mondo moderno: la Tour Eiffel. Siamo nella Parigi delle stagioni dell’alta nobiltà, dei corsetti e delle redingote, dei balli e degli inviti a colazione, ma anche nella Parigi dell’impressionismo e della pittura di Jeorge Seurat. Un Ottocento ancora ruggente nelle sue consuetudini e nelle sue regole ferree.
La storia si apre con un viaggio in mongolfiera in cui Alice Arrol e suo fratello Jamie, due giovani scozzesi nel bel mezzo del loro Grand Tour, accompagnati da Caitriona Wallace, si godono in una fredda mattina invernale la vista di Parigi. Sulla stessa mongolfiera si trova anche Emile Nougier, ingegnere co-responsabile insieme a Gustave Eiffel della costruzione della Tour Eiffel. Cait fa per caso la conoscenza di Emile e tra i due scatta subito il colpo di fulmine, ma Jamie si intromette architettando di far sposare la sorella al giovane ingegnere ed entrare così anche lui nella costruzione della famosa Torre. Sarà proprio intorno alla costruzione della Torre si intrecceranno così i destini di tutti i personaggi, restando inevitabilmente compromessi.
Il romanzo tocca il tema del ruolo della donna nella società di metà Ottocento, incastrata in un dedalo di regole dell’etichetta e la cui unica speranza di sopravvivenza è commisurata alla possibilità di fare un buon matrimonio. Cait, dopo essere rimasta vedova, secondo la società ha come sola speranza di sopravvivenza quella di risposarsi se non vuole incorrere in un destino di povertà. La stessa Alice, seppure provvista di mezzi materiali, ha come unica aspirazione quella di sposarsi con un buon partito. La prima riesce a riscattarsi solo fuggendo lontano dalle convenzioni in un luogo dove resterà libera di prendere le proprie decisioni, mentre la seconda pagherà ben presto il prezzo della sua superficialità. Nel corso del romanzo, come metafora della rete di cui sono vittime le donne per via dell’etichetta, si fa riferimento alla quantità di vestiti e indumenti che le signore sono costrette a indossare, con numerosi commenti circa la scomodità e la difficoltà ad annodare, tirare, allacciare, abbottonare, costringere e schiacciare il corpo in questa armatura di ferro e stoffa. In riferimento agli abiti come esempio della costrizione delle regole della società, nel finale la libertà raggiunta dalla protagonista si esprime anche nell’indossare vestiti leggeri e comodi.
La Parigi descritta nel libro è esattamente come ci si immagina la città all’epoca dell’impressionismo, con i caffè e i locali notturni dove dare sfogo a vizi proibiti, Montmatre e la vita di strada, gli artisti e personalità notabili che camminano lungo i nuovi viali voluti dal barone Haussman. Il sapore di quest’epoca è restituito alla perfezione dall’autrice che ne evoca non lo solo lo spirito ma persino colori e profumi. Il romanzo scorre sotto gli occhi del lettore come un film dove la trama lascia poco all’immaginazione ma è ben scritta e funzionante. La cattura dell’effimero a cui il titolo fa riferimento si rivolge sia alla Tour Eiffel che svetta verso il cielo – una volta eretta era l’edificio più alto dell’epoca – , a tutte le storie legate alla sua costruzione e allo sgomento che questo strano edificio suscitava, ma anche alle illusioni verso cui ciascun personaggio tende nel corso del romanzo e che sarà costretto ad abbandonare.

Beatrice Colin, nata a Londra e cresciuta in Scozia, ha vissuto per anni a New York lavorando come giornalista freelance per il Guardian e numerose altre testate. Autrice di testi teatrali e radiofonici per la BBC, ha pubblicato il romanzo La vita luminosa di Lilly Afrodite, tradotto in molti paesi e pubblicato in Italia da Neri Pozza. Vive a Glasgow. http://www.beatricecolin.co.uk/

Source: libro inviato dall’ editore al recensore.

:: Le mie cene con Edward di Isabel Vincent (Garzanti, 2016), a cura di Federica Spinelli

17 gennaio 2017
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Si sa che il cibo può essere di grande conforto: vi ricorriamo dopo una delusione d’amore, per noia (a tutti è capitato di aprire il frigo in cerca di risposte), fagocitiamo per ansia, ma più di ogni altra cosa il cibo e l’atto del sedersi a tavola sono un rituale che se curato e goduto può davvero salvare la vita.
È questo quello che succede alla protagonista di Le mie cene con Edward. Questo è un libro sull’amore, ma non tra i due protagonisti (Edward è un simpatico vecchietto capace di squisitezze culinarie), sull’amore per il cibo e per la vita.
Isabel, la protagonista, è una giornalista sposata con una figlia in cerca di risposte che si offre di fare un po’ di compagnia al padre della sua amica Valerie, Edward, rimasto solo dopo la perdita della moglie.
Quello che parte come un favore fatto ad un’amica diventa un appuntamento irrinunciabile, perché Edward l’avvicina alla buona cucina e le fa riscoprire la gioia di vivere. Quando incontra Edward per la prima volta, Isabel  è smarrita, cerca la forza per interrompere un matrimonio ormai alla deriva, riuscirà a fare questo grazie agli appuntamenti settimanali a casa di Edward che tra una galette alle mele e una porzione di ostriche alla Rockefeller riuscirà a farle ritrovare la strada per la felicità e a riscoprire sé stessa.

“Col tempo compresi che le cene con Edward erano dei rituali, intrisi di sacralità.”

Il libro si compone di una serie di capitoli, ognuno dei quali ruota intorno all’incontro tra Edward e Isabel, enumerati e denominati dal menù delle cene al centro del capitolo. Il romanzo però non si concentra sulle ricette in sé come spesso fanno i romanzi sulla cucina ma sul fascino che il cibo e la sua preparazione esercita sui protagonisti. È un libro che celebra l’arte del saper mangiare e il potere benefico della buona tavola. E’ un romanzo caldo e accogliente, piacevole, un inno al buon cibo, scritto con in un stile che strizza l’occhio a quello giornalistico. Edward e Isabel sono due personaggi in cerca di pace che si rifugiano nella confortevole carezza del cibo ben cucinato, in particolare Edward è la versione “cuciniere” di Arthur Abbott de L’amore non va in vacanza, lo sceneggiatore in pensione che aiuta Kate Winslet a recuperare la stima di sé stessa, mentre Isabel ricorda un po’ Julie di Julie&Julia interpretata da Amy Adams, perché Isabel proprio come lei ritrova nel buon cibo la spinta per cambiare la sua vita.
Le mie cene con Edward è un libro da regalare a chi ama i romanzi sulla cucina (come me) e a chi ama le storie intrise di dolcezza ma anche piene di fascino.

Isabel Vincent (1965 Toronto) è giornalista del New York Post. Suoi lavori sono comparsi su «The New Yorker», «Daily Telegraph», «The Indipendent», «Marie Claire». Attualmente vive e lavora a New York.

Nota: Questo prodotto appartiene alla promozione  Gems Sconto del 25 %.

Source: libro inviato dalla casa editrice Garzanti. Si ringrazia l’ufficio stampa.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Aspettando Bojangles, Olivier Bourdeaut (Neri Pozza, 2016), a cura di Federica Spinelli

17 giugno 2016
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Aspettando Bojangles prende il titolo da un brano di Nina Simone, chi conosce questo pezzo e ha letto il libro sa che c’è un legame indissolubile tra quel brano e questo romanzo. La voce calda e teneramente malinconica della Simone detta la partitura sentimentale di tutta la storia, la cui trama si gioca sui toni della tenerezza e sulle sfumature della malinconia. Aspettando Bojangles è un sogno da cui lo stesso protagonista e il lettore si svegliano dopo poco più di 100 pagine. Uno di quei sogni che si ricordano da svegli, però, dove c’è un uomo che ama immensamente sua moglie, folle ed eccentrica, una coloratissima gru della Namibia, e un bambino. La voce narrante è quella di questo piccoletto, il cui sguardo ancora incantato sul mondo vi conquisterà al secondo capoverso.

Il cuore di Aspettando Bojangles si racchiude tutto nella frase:

Quando la realtà diventa banale e triste, inventatemi una bella storia, voi che sapete mentire così bene. Sarebbe un peccato se non lo faceste.

In questa battuta c’è tutto lo spirito del romanzo. Quella voglia di ridere che spesso nasconde il dolore. Il romanzo di Bourdeaut è pervaso da questo senso di allegria contagiosa, da questa follia dilagante che nasconde la paura della catastrofe. La nota estremamente poetica e delicata della storia è tutta nei tentativi dei personaggi di combattere il senso della fine con cui convivono. La netta percezione che questo modo strampalato e magico di affrontare la vita non sia compatibile con la realtà di tutti i giorni, che esige regole e schemi in cui vengono ingabbiate molte cose tra cui, qualche volta, la libertà di vivere come si crede.
La quotidianità di questa famgilia è raccontata dagli occhi del narratore, quelli di un bambino. Il punto di vista del lettore si abbassa fino ad arrivare a coincidere con quello del protagonista che ha circa dieci anni, coinvolto inconsapevolmente e pur in maniera consenziente nelle follie dei genitori; le risposte alle strampalate idee della mamma sono quelle di un’adorabile personcina di quell’età, che affronta la vita in un modo tutto suo, cercando una normalità nelle situazioni più impensabili e conservando intatta quella magia che si può trovare solo negli occhi de bambini. Questo crea un rapporto empatico tra il protagonista e il lettore, che avverte un forte senso di protezione verso quella creatura letteraria eppure così reale. A interrompere quella che sembra una fiaba con delle regole tutte sue, Bourdeaut fa intervenire il padre, in capitoli che riecheggiano quelli di un diario, in cui il personaggio mette a parte il lettore delle sue riflessioni sulla donna così assurda eppure così magica che ha sposato. L’amore che li lega è folle fin dalle prime battute e folle resterà fino alla fine, di entrambi.
Aspettando Bojangles è una strana storia che pur parlando di una tragedia vi lascerà la strana sensazione di aver letto una romanzo a lieto fine. Perché quello che conta non è quello che si crede reale ma quello che si immagina come tale. Traduzione di Roberto Boi.

Olivier Bourdeaut è nato nel 1980 in una casa affacciata sull’Oceano atlantico, rigorosamente priva di televisore. Ha potuto così leggere e fantasticare molto. Prima di scrivere Aspettando Bojangles è stato un disastroso agente immobiliare, factotum in una casa editrice di libri scolastici, raccoglitore di fior di sale di Guérande a Croisic.

Source: libro inviato dall’ editore al recensore come novità da recensire, ringraziamo l’Ufficio stampa Neri Pozza.

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Squisito! di Ruth Reichl (Salani, 2015) a cura di Federica Spinelli

1 aprile 2016
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Billie Breslin non è una ragazza che noteresti per la strada passando. Ha i capelli lunghi scuri che le ricadono sul volto, porta gli occhiali e un abiti slavati e informi. Billie è il diminutivo di Whiliemina, la sorella della perfetta Genie. Cresciuta all’ombra di quest’ultima, Billie custodisce un vero e proprio talento: la capacità di riconoscere con estrema precisione ogni singolo ingrediente che compone il sapore di un piatto, ma sviluppatolo fin da piccola, a causa di un tragico incidente è costretta a seppellire questa sua dote e ad allontanarsi da casa. Si trasferisce a New York da Santa Barbara con l’obiettivo di mettere tra lei e la sua famiglia più chilometri possibili e dedicarsi alla sua passione: il cibo, trova così un posto nella redazione della famosa rivista culinaria Squisito!. Quando Jake, il capo redattore della rivista, le fa un colloquio capisce subito che sotto quei vestiti si nasconde un talento, un’innata perspicacia nel riconoscere gli ingredienti e un sesto senso per la cucina. Per farle ottenere il posto e saggiare queste sue qualità Jake la mette alla prova con diversi trabocchetti, uno dei quali prevede il coinvolgimento di Sal, il benevolo proprietario di origini italiane di una “boutique” di alimentari che prende a cuore la ragazza, e la talentuosa cuoca del Pig, Thursday. Per Billie il posto da Squisito! è un’occasione per ricominciare, alla rivista si occupa della Garanzia, storico risarcimento elargito ai clienti insoddisfatti delle ricette pubblicate nei numeri. Lavorando nella bellissima Timber Mansion, la sede di Squisito!, Billie conosce l’insopportabile ma bravissima Maggie, Sammy, buongustaio dai modi raffinati e pieno di aneddoti su luoghi lontani, il fotografo Richard e molti altri che in breve diventano suoi amici. La ragazza si ambienta, riesce a ricostruirsi una routine tra il lavoro, in cui smista le chiamate di improbabili signore e Fontanari, il negozio di Sal, dove la ragazza trascorre i fine settimana. La vita sembra sorriderle di nuovo quando arriva la notizia che la rivista deve. Tutti tranne Billie sono costretti ad abbandonare Timber Mansion, mentre lei viene incaricata di continuare a occuparsi della Garanzia. Mentre gironzola per l’edificio deserto si imbatte nella biblioteca, rimasta chiusa per anni. In questo luogo che sembra il più bello di tutto l’edificio sono nascoste alcune lettere scritte da una lettrice di Squisito!, Lulu, al direttore della rivista, il famoso cuoco James Beard. A mano a mano che riesce a decrittare gli indizi che le permettono di scovarle, Billie e Sammy ricostruiscono la corrispondenza tra la bambina e il cuoco. Questo viaggio a ritroso nel tempo costringe Billie ad affrontare il suo passato e con esso il trauma che l’ha allontanata dalla famiglia, a ritrovare il coraggio di vivere la sua vita e a trovare l’amore. Mentre vengono alla luce le varie lettere, Billie sente sempre più forte il desiderio di ritrovare Lulu tanto da spingersi ad andare a cercarla…
Ruth scrive questo romanzo con estrema vivacità e meticolosità; in poco più di 400 pagine, l’autrice ricostruisce ambienti unici popolati da personaggi reali. Il cibo non è un pretesto per la storia ma ne è parte integrante, in maniera diversa muove ciascuno dei personaggi; si potrebbe quasi dire che esso stesso è un personaggio fondamentale della storia. La storia scorre veloce sotto gli occhi del lettore che si affeziona alla storia di Lulu, al talento di Billie, alla stravaganza di Sammy e a ciascuno dei personaggi raccontati. Le ambientazioni smbrano famigliari al lettore che si ritrova in una New York di editori e buon gustai, di leggende e racconti. Un romanzo da gustare, assaporare piano piano per non farlo finire troppo in fretta!

Ruth Reichl è nata e cresciuta al Greenwich Village. Ha scritto il primo libro di cucina a ventun anni. È stata direttore della rivistaGourmet per dieci anni, ha lavorato come critico gastronomico per ilNew York Times e per il Los Angeles Times. Ha scritto per Vanity Fair, Metropolitan Home, Food and Wine. Attraverso le sue recensioni di ristoranti e i suoi memoir bestseller (La parte più tenera e Confortatemi con le mele, entrambi usciti per Ponte alle Grazie) ha conquistato migliaia dilettori. Vive a New York con il marito, il figlio e due gatti.

Source: ebook ricevuto dalla casa editrice. Ringraziamo Matteo, addetto stampa Salani.

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:: Cafè Julien, Dawn Powell (Fazi, 2015) a cura di Federica Spinelli

22 dicembre 2015
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Accade qualche volta che il libro giusto ti capiti tra le mani quando meno te lo aspetti. Un po’ come succede, dicono, con i grandi amori. Cafè Julien è forse uno dei libri più belli che abbia letto negli ultimi tempi. È fondamentalmente e prima di tutto un libro divertente. Di quelli che rallegrano, un po’ come quelle vecchie commedie anni 80 con sceneggiature solide e battute rimaste nella storia. Il divertimento di questo libro deriva dalla costruzione quasi millesimale di personaggi a tutto tondo appartenenti a un mondo mitico come la New York degli anni 50 e da un intreccio che non risparmia niente all’ironia, disegnato da un dialoghi arguti e immediati. Il Cafè Julien è il punto di ritrovo della società artistica di un’America uscita dalla Seconda Guerra mondiale e con una gran voglia di ricominciare, ma soprattutto è il teatro delle vicende di artisti, ereditiere sfiorite, mecenati e attrici. In un’atmosfera che ricorda gli anni Venti ma anticipa anche quella ventata di voglia di tornare a vivere che anima tutto il dopoguerra americano, gli incantevoli personaggi si alternano in un continuo andirivieni intorno al Cafè, incontrandosi, lasciandosi, riprendendosi e cercandosi. Elleonora, aspirante fotografa innamorata di Ricky, giovane di bell’aspetto che la insegue per anni senza mai riuscire a raggiungerla, Cinthia, mecenate ed ereditiera e Dalzell, pittore squattrinato insieme con Edith e Jerry, due giovani donne alleatesi per entrare nella buona società di New York: questi sono i personaggi che si rincorrono nel carosello di scene descritto con mirabile maestria da Dawn Powell. Forte di alcune influenze che ricordano Parigi è una festa mobile di Hemingway, Dawn Powell ritrae con ironia e leggerezza un mondo brillante e patinato quanto pieno di contraddizioni attraverso un intreccio dal ritmo veloce e coinvolgente. Il Cafè Julien, teatro di numerose avventure, destinato a essere tristemente demolito e sostituito da un orribile condominio, è non solo il silente scenario del romanzo, ma anche il porto di approdo di speranze e delusioni di una nicchia di artisti in cerca dell’amore, del riscatto o della sopravvivenza e in fuga dai propri fantasmi.

Dawn Powell (1896-1965) È nata in una piccola cittadina dell’Ohio e si è trasferita a New York giovanissima. Riscoperta negli ultimi anni grazie a Edmund Wilson e Gore Vidal, è oggi considerata una delle maggiori scrittrici americane del Novecento. È stata accolta nella Library of America, insieme a Ralph Waldo Emerson e Edith Wharton, e nel giugno 2015 è entrata a far parte della New York State Writers Hall of Fame, al fianco di scrittori del calibro di Henry James e Herman Melville.

Source: ebook inviato dall’editore, ringraziamo l’ Ufficio Stampa Fazi.

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:: Tre tazze di cioccolata, Care Santos, (Salani, 2015) a cura di Federica Spinelli

25 giugno 2015
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Tre tazze di cioccolata è innanzitutto un trittico di storie, una raccolta di immagini e storie su una città e su un oggetto molto particolare: un’antica cioccolatiera. Le fortune e le sfortune dei personaggi sono legati al destino di questo bricco di porcellana e all’utilizzo di uno degli alimenti più amati di sempre: il cioccolato. L’argomento di per sé assai goloso è reso ancora più interessante dalla città che fa da sfondo alle vicende del romanzo. La bellissima Barcellona. Questo romanzo è un’epopea e un inno alla città, simbolo del viver bene e per questo il giusto sfondo alle vicende legate alla bevanda degli dei: la cioccolata.
Il cioccolato e la sua vasta gamma di impieghi sono quindi il fil rouge che lega le tre storie del romanzo. Il prezioso oggetto al centro delle vicende è una cioccolatiera appartenuta alla contessa Adelaide di Francia, figlia di Luigi XIV che l’aveva fatto commissionare alla neonata fabbrica di porcellane di Sevres. Attraverso le narrazioni delle vicende di quest’oggetto molto particolare, che la porteranno nelle mani di famosi cioccolatai e mercanti di antiquariato, prostitute e ambasciatori, donne nobili e serve, la cioccolatiera subirà dei danni, perderà pezzi e finirà persino in cocci. Alla sorte di quest’oggetto sono legati i destini dei personaggi che si intrecciano nel corso dei secoli dagli arbori dell’ottocento ai giorni nostri.
La cioccolatiera, quando il lettore la incontra per la prima volta ha già subito danni irreparabili, è sbrecciata sul beccuccio e il coperchio si è perso per colpa delle mani di un’ incauto commerciante.
Il lettore procede a ritroso dai giorni nostri fino all’origine dell’oggetto presso la fabbrica di ceramiche di Sevres. Dagli amori di Sarah, l’ultima custode dell’oggetto in ordine cronologico, alle traversie della moglie del cioccolataio più famoso di Barcellona, Candida, e della sua cameriera Aurora fino all’avventura rocambolesca del segretario di Adelaide di Francia, Gillot, questo prezioso bricco di porcellana passa di mano in mano.
Il romanzo ha la struttura di un’opera teatrale divisa in tre atti ciascuno dei quali porta il nome di una variante nel modo di preparare la cioccolata, preceduti e seguiti da un interludio. Il preludio, i due l’interludi e il finale raccontano come la cioccolatiera subisca i danni permanenti riportati: della rottura definitiva e della ricostruzione nel preludio, della perdita del coperchio e della sbrecciatura sul beccuccio nei due interludi e della sua ideazione nel finale.
I tre atti sono invece occupati dalle vicende dei custodi della cioccolatiera in ordine cronologico partendo dal più recente. Nel primo atto, ambientato ai giorni nostri, si raccontano le vicende del triangolo amoroso di Max-Sarah-Orioles, nel secondo atto sono raccontate le vicende di due donne Candida e Aurora, la nobil donna spagnola e la sua cameriera e dei loro destini, infine nel terzo atto le peripezie di Guillot al seguito di una spedizione per recuperare un grosso carico di cioccolata. L’ ultima parte del terzo atto ė costruita informa di commedia.
L’autrice si diverte a giocare con il lettore che viene continuamente sbalzato temporalmente da un’epoca ad un’altra inseguendo le traversie dei protagonisti, odiando e amando come loro. È un romanzo su una città, su un modo di amare e vivere, è un gioco letterario, un esperimento e un complimento alla perla della Catalogna, una piacevole raccolta di vite che l’autrice srotola davanti al lettore, incantato la segue.

Care Santos è nata a Materò, Barcellona. Dopo gli studi in Giurisprudenza e Filologia ha iniziato la sua carriera come giornalista per varie testate. Ha fondato e diretto l’Associazione giovani scrittori spagnoli, tiene regolarmente laboratori di scrittura creativa in Spagna e in America e firma articoli adì critica letteraria per il quotidiano El Mundo. Tre tazze di cioccolata è il suo ultimo romanzo, vincitore del premio Ramon Llull e tradotto in sedici lingue. Salani ha già pubblicato Il colore della memoria, uno dei romanzi più apprezzato dalla critica spagnola, che ha venduto in Italia quarantamila copie in tre edizioni.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Simona dell’Ufficio Stampa Salani.

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:: Il sapore sconosciuto dell’amore, Sarah Vaughan (Garzanti, 2015) a cura di Federica Spinelli

9 marzo 2015

Il sapore sconosciutoEssendo io ghiotta di qualsiasi cosa sia edibile e pubblicabile ho pensato che il riunirsi di queste due cose in una sola fosse una motivazione sufficiente per leggere (o divorare che dir si voglia) questo romanzo.
La storia de Il sapore sconosciuto dell’amore è molto semplice: cinque sconosciuti, per motivazioni diverse che hanno più o meno tutte a che fare con l’insoddisfazione presente nelle loro vite, decidono di partecipare a una gara culinaria per stabilire chi sia la “nuova Mrs Eaden” e sostituire così l’originale, Katheleen Eaden, icona dell’omonima catena dei supermercati di qualità, nelle pubblicità del marchio. Il presente però si alterna a un altro piano temporale in cui il lettore segue la storia di Katheleen Eaden, la sua difficoltà a realizzare il sogno di diventare madre e il conciliare il suo lavoro di reginetta della cucina con questo desiderio.
I partecipanti alla gara culinaria non potrebbero essere più diversi: Karen, apparentemente sicura di sé, è determinata ad affermarsi nella gara; Vicky, insicura e iperprotettiva verso il figlio di due anni, deve fare i conti con un penoso segreto; Jenny madre amorevole sull’orlo della crisi matrimoniale; Claire, ragazza madre alle prese con un padre assente e infine Mike, padre vedovo alla ricerca di conferme. Ma tutti questi personaggi sono spinti a concorrere dal ruolo che la cucina ha sempre rivestito nelle loro vite, dal benessere che deriva loro dal cucinare e dalla consapevolezza che un piatto ben cucinato può cambiare l’umore e la giornata di chi lo assaggia. Quella che nasce come un’innocua gara di cucina si trasforma pian piano in un’occasione di rivalsa per i partecipanti di mettere ordine nella propria vita.
In un mix che ricorda un po’ la commedia Julie&Julia e un po’ la gara di pasticceria Bake Off, il romanzo alterna deliziosamente i piani di passato e presente. In un passato recente, gli anni Cinquanta dei caschetti gonfi e delle gonne ampie una giovane Katheleen Eaden tenta disperatamente di concretizzare il suo sogno di diventare madre e di conciliare con questa scelta il suo ruolo di scrittrice e volto della cucina nazionale. Una realizzazione costellata da molti e dolorosi fallimenti che inevitabilmente segnano la vita della giovane donna, costringendola a rivedere i suoi obiettivi e le sue scelte lavorative sotto una diversa luce. Frutto delle sue fatiche lavorative sarà la sua unica raccolta L’arte di cucinare al forno che darà alle stampe, decidendo subito dopo di ritirarsi dalla vita mondana per seguire la sua prima figlia, tenuta nascosta agli occhi della gente perché gravemente menomata.
Il presente invece è scandito dalle prove della gara, corrispondenti ognuna alle sezioni del libro di Mrs Eaden. Tra una prova e l’altra i concorrenti tornano alle loro vite e tentano di affrontare i loro problemi. Con il progredire della competizione, la notorietà data loro dalla gara culinaria li porterà a porsi delle domande e a chiedersi cosa vogliono davvero dalla vita. Karen affronterà la distanza del figlio e la sua anoressia; Claire si libererà della difficile relazione con Jay, il padre di sua figlia; Vicky chiarirà il suo doloroso rapporto con la madre affrontando il suo passato e Jenny porrà fine al suo matrimonio in crisi riscoprendo l’amore e il sostegno delle figlie. Ai margini e poco più che una comparsa resta la presenza di Mike. Infatti il romanzo è quasi del tutto femminile, improntato sulla soddisfazione delle esigenze della figura femminile, che tenta costantemente di tenere in piedi casa, famiglia, figli e marito in una continua altalena di desideri e sogni, delusioni e rinunce.
L’elemento culinario è interprete degli stati d’animo dei personaggi; diventa una sorta di meditazione fattiva quella che i protagonisti adoperano ogni volta che prendono in mano uova, burro e zucchero per dar vita all’ennesima dolcezza. Ahimè le ricette sono un po’ troppo lontano dalla nostra dieta mediterranea per provocare quel sano senso di acquolina in bocca che dovrebbe giungere nel leggere un romanzo che ha per tema la cucina, tuttavia la suggestione è molto forte e accompagna piacevolmente il lettore nel mondo zuccheroso e colorato dei dolci.
Il romanzo promette bene fin dall’inizio con una pianificazione piuttosto dettagliata del profilo dei personaggi ma si dilunga in un continuo dispiegare le motivazioni e le complessità che li muovono senza arrivare a stringere davvero le fila del discorso. Il finale è affrettato e si brucia in poche pagine che non lasciano il giusto spazio al tratto conclusivo della parabola evolutiva del personaggio, il quale capisce quello che vuole ma non è chiaro se lo realizza. La parte conclusiva risulta in tal modo nebulosa e un po’ priva di corpo rispetto allo sviluppo delle problematiche trattate.

Sarah Vaughan ha insegnato inglese a Oxford prima di diventare giornalista. Per undici anni ha lavorato come reporter per “The Guardian” e successivamente ha iniziato l’attività di freelance. Vive vicino e Cambridge con il marito e i due figli.

:: Numero Zero, Umberto Eco (Bompiani, 2015) a cura di Federica Spinelli

22 febbraio 2015

ecoQuesta è la mia prima volta con Eco romanziere. Come scrittore e come saggista io penso sia una delle migliori penne di sempre. La sua scrittura così precisa, varia e strutturata è capace di rendere accessibile a chiunque anche la materia più oscura. Ma come dicevo questa è la mia prima volta con Eco romanziere. Mi accingo quindi a parlare per la prima volta di uno scrittore che per me è un Mostro Sacro.
Il romanzo narra la storia di una redazione incaricata di preparare il numero zero di un fantomatico giornale, “Domani”,  per ordine di un’eminenza grigia, il Commendatore, personaggio di dubbia coscienza, che per pestare i piedi ai salotti della Milano bene e ai politici decide di mettere in piedi questo giornalaccio fatto di false notizie e articoli gonfiati. I personaggi non sono eroi, ma nella maggior parte dei casi gente che tira a campare ai margini del grande giornalismo con profiletti da ultima pagina. L’ambientazione è quella della Milano di inizio anni Novanta, poco prima dei grandi processi che buttarono all’aria il capoluogo lombardo. In questa città cupa e un po’ sbavata si srotola la storia dei protagonisti del romanzo, i giornalisti della redazione.
Il complottismo palesemente ironico è l’ingrediente principale di questo romanzo, insieme alla dettagliata ricostruzione storica degli eventi, alla conoscenza dell’ambiente letterario e giornalistico di cui l’autore ha per tanto tempo fatto parte. Si evidenzia una fortissima componente didascalica in quelle parti del romanzo occupate da excursus sul giornalismo, sulla ricostruzione dei quartieri e della storia di Milano e nelle inchieste condotte dai giornalisti.
Una gigantesca presa in giro di un modo fare giornalismo, di un modo di affrontare la realtà che negli ultimi anni ha sporcato il giornalismo di cronaca con il gusto per il pettegolezzo o il dato morboso. Questo stile di  scrittura, su consiglio e ordine di Simei, un professore in contatto con il Commendatore nonché capo del progetto, diventa il modus operandi per la redazioncina del “Domani”. Questo personaggio, viscido e senza scrupoli, consapevole dell’inutilità del lavoro della redazione e intenzionato a lucrare il più possibile su quanto avviene: assolda il protagonista, Colonna, per fargli da ghost writer e raccontare con toni trionfalistici e nobili la storia del numero zero di “Domani”. Simei, in qualità di caporedattore nelle riunioni affronta sistematicamente tutti gli argomenti del buon giornalismo stravolgendoli e insegnando come trasformare un pettegolezzo in una incontrovertibile verità da dare in pasto agli immaginari lettori, volgari e ignoranti. Unica nota romantica è la storia d’amore tra Maia, ingenua giornalista di cronaca rosa che capitata nella redazione di “Domani” in cerca di un riscatto professionale, e Colonna.
Il romanziere lascia spesso il posto allo storico nelle pagine del romanzo, il che non guasterebbe se non fosse che in certi momenti si ha l’impressione di uscire dalla cornice narrativa per ritrovarsi tra i banchi di scuola. L’intera impalcatura del romanzo risente talvolta di questi momenti a svantaggio della trama che si sfuma in alcuni passaggi. Ma come dicevo prima, è la mia prima volta con Eco romanziere e si sa che le prime volte non sono mai un granché. Ricomincerò da Il nome della rosa, Professore. Perdonami.

Umberto Eco nasce ad Alessandria (Piemonte) il 5 gennaio 1932. Critico, saggista, scrittore e semiologo di fama internazionale. A ventidue anni si è laureato all’Università di Torino con una tesi sul pensiero estetico di Tommaso d’Aquino. Noto per le brillanti inchieste sulla cultura di consumo (Diario minimo, 1963; Il superuomo di massa, 1976; Sette anni di desiderio, 1983; Il secondo diario minimo, 1992), ha ottenuto un successo mondiale con il romanzo Il nome della rosa (Bompiani, 1980, premio Strega), thriller gotico d’ambientazione medievale e conventuale che sviluppa, con lucido razionalismo, la fitta trama di un dibattito ideologico. Tra i suoi ultimi libri: il romanzo Il cimitero di Praga (2010), la raccolta di saggi Costruire il nemico (2011), Storia delle terre e dei luoghi leggendari (2013) e Numero Zero (2015).
Umberto Eco è stato uno dei favoriti per l’assegnazione del premio Nobel per la Letteraura. (dall’Enciclopedia della Letteratura Garzanti)

 

:: La fabbrica delle meraviglie, Sharon Cameron (Mondadori, 2015) a cura di Elena Romanello e Federica Spinelli

6 febbraio 2015

fabElena Romanello

Gran Bretagna, epoca vittoriana: in una notte di nebbia la giovanissima Katharine arriva in uno sperduto maniero con l’incarico dato dalla sua famiglia di origine di controllare che lo zio George, eccentrico ma benestante parente, non stia dilapidando il suo patrimonio, unica possibilità per lei e soprattutto per il fratello di avere una vita decente.
Dopo alcuni spaventi iniziali Katharine scopre che lo zio George non è assolutamente pazzo, ma è un geniale inventore di macchinari incredibili, pesci meccanici, bambole che suonano strumenti, orologi dalle mille funzioni. Inoltre ha dato ospitalità nella sua casa a varie persone, provenienti da situazioni di disagio, che con lui hanno trovato lavoro e una ragione di vita.
Katharine conosce anche uno di questi amici dello zio, il giovane Lane, ma capisce anche che deve scegliere tra quello che conosce da sempre, anche se forse non è la cosa giusta per lei e per tutti, e un nuovo modo di vedere la vita, che dà fastidio a non poche persone.
La fabbrica delle meraviglie di Sharon Cameron, presentato come romanzo young adult, ha non pochi elementi di interesse e non pochi livelli di lettura. I bibliofili ci troveranno vari riferimenti a quell’epoca impagabile nella produzione letteraria che è l’Ottocento inglese, che ha prodotto autori e autrici del calibro di Dickens e delle sorelle Bronte, da cui l’autrice riprende le atmosfere di suspense e le tematiche sociali.
Inoltre ci sono richiami al filone steampunk, la fantascienza nel passato, che ha nell’Ottocento inglese il suo periodo favorito, anche se va detto che gli automi sono una realtà documentata, che ebbe il suo momento d’oro nel Settecento, ma che era presente anche nel secolo successivo.
La fabbrica delle meraviglie è una storia di formazione, con colpi di scena e avventure, con protagonisti in anticipo sui tempi e un apologo a favore della diversità e dell’anticonformismo, sempre attuale.
L’unica cosa che forse stona un po’ è la scelta della protagonista, troppo anacronistica: nell’Ottocento una ragazza di nemmeno diciotto anni non avrebbe mai avuto tutta la libertà di movimento e di visita di Katharine, diverso era il caso di Jane Eyre che si trovava a dover vivere le sue avventure spinta dal lavoro che svolgeva per necessità, qualche anno in più sarebbe stato più credibile per spiegare il viaggio e la pemanenza a casa di zio George.
Detto questo il romanzo è interessante, sia all’interno del filone young adult, dove non sempre le proposte sono all’altezza e originali, sia da leggere se si ha qualche anno in più. Katharine è un personaggio inventato, ma zio George è ispirato ad una figura storica, quella del duca di Portland, uomo schivo che detestava l’aristocrazia e i suoi riti e che fece costruire nella sua dimora un’enorme biblioteca, una centrale a gas, spazi per praticare sport, case per gli operai all’avanguardia, dando da lavorare e da vivere oltre milleseicento persone per decenni, anticipando esperimenti di personalità come Leumann e Adriano Olivetti.

Federica Spinelli

L’incontro con questo libro è avvenuto un po’ per caso. Ammetto che dietro la mia decisione di recensirlo sicuramente ha giocato un ruolo importante la mia simpatia per la letteratura per ragazzi e il fatto che ormai da qualche tempo non mi misuro più con la materia. Ricordo che la prima cosa che mi colpì fu proprio la copertina, devo dire assolutamente sobria e ben scelta. Sul fronte della sovraccoperta è disegnato un profilo femminile, con uno stile che ricorda chiaramente un cammeo, circondato da una oggetti che richiamano il mondo degli orologi che come il lettore scoprirà in seguito, sono un elemento tematico ricorrente insieme il tempo. Pochi e semplici elementi ben distribuiti e delineati da una grafica chiara e da un disegno pulito rimandano ad alcuni tratti della trama e danno al lettore le prime indicazioni sull’atmosfera della storia.
La fabbrica delle meraviglie racconta la storia di Katharine, orfana che vive con la ricca e tirannica zia Alice, inviata da quest’ultima nella tenuta di Stranwyne, per accertarsi dell’instabilità mentale di suo zio George, sorpannominato Tully, e permettere così al figlio di mettere le mani sull’immenso patrimonio di famiglia. Quando la ragazza arriva in questa oscura e polverosa villa, l’accoglienza non è delle migliori. L’atmosfera cupa e gli ambienti sinistri convincono la ragazza a chiudere la faccenda il prima possibile e tornare a Londra e alla sua vita, ma ovviamente il destino ha ben altri progetti e i piani iniziali della ragazza verranno stravolti da una serie di scoperte e dall’evolversi degli eventi che la porteranno a scoprire una verità diversa da quella che si era aspettata. Nonostante il difficile inizio, una casa deserta e piena di stanze buie e polverose, di scricchiolii sospetti e di risatine nel buio e la diffidenza palese degli abitanti del villaggio, la ragazza riuscirà con pazienza a farsi conoscere e ad andare a fondo al mistero che circonda il mondo in cui è stata catapultata. A rendere ancora più difficile la situazione della ragazza ci saranno una serie di incubi che sembreranno perseguitarla arrivando a mettere in dubbio la sua stessa sanità mentale. Katharine, attraverso un percorso di crescita, arriverà a diventare una paladina e a liberare non solo la tenuta da un oscuro piano ma la sua vita dall’ingombrante presenza della zia e riuscirà a riconquistare la libertà. La ragazza nella veste di una novella Jane Eyre scoverà tutti i segreti rimasti intrappolati nella tenuta per portare alla luce un progetto di generosità e buon cuore che ruota intorno alla figura eccentrica dello zio George. Il romanzo ambientato durante l’epoca vittoriana, mescola molto sapientemente la suspance del mistery e la libertà narrativa del fantasy, e affonda le sue radici narrative in un fatto realmente esistente: la scrittrice si ispira alla storia di Welbeck Abbey, la tenuta del duca di Portland che aveva dilapidato il patrimonio di famiglia facendo costruire una galleria sotterranea ma garantendo vitto, alloggio e un lavoro a centinaia di persone. Da questa traccia prende spunto e si dipana la storia de La fabbrica delle meraviglie. Questo libro ha tutte le carte in regola per rendersi interessante agli occhi di un giovane lettore in quanto si presenta scorrevole, avvincente e sorprendente nella trama con una giusta dose di suspance e mistero con molti punti in comune in quanto ad atmosfera e ambientazione con due “big” della letteratura per ragazzi: Hugo Cabret e Alice nel Paese delle Meraviglie. La curiosità che spinge ad andare avanti nella lettura è ben retta da una trama strutturata e accattivante e in definitiva ben scritta. La bravura dell’autrice è stata però anche quella di renderlo interessante anche agli occhi di un lettore adulto che sia predisposto a lasciarsi incantare dalla storia. Insomma un romanzo a tutto tondo dedicato a chi ha voglia di farsi sorprendere e farsi un po’ prendere in giro dalla finzione letteraria.

Sharon Cameron Insegnante di pianoforte, appassionata di teatro, è sposata e ha un figlio. Adora la Scozia, le storie in costume e gli indovinelli. Vive negli Stati Uniti, a Nashville, Tennessee.