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Il principe degli sciacalli di Rebecca Moro (Fanucci, 2018) a cura di Elena Romanello

12 dicembre 2018
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Fanucci editore torna ad arricchire la sezione fantasy con una voce italiana, Rebecca Moro, che esordisce con Il principe degli sciacalli, primo volume della saga dei Quadranti.
Se il buon giorno si vede dal mattino, come dicevano le nostre nonne, c’è da essere soddisfatti, perché finalmente si legge un qualcosa di interessante, intrigante, dark e crudo, decisamente fantasy e non una storiella che di fantastico ha poco per ragazzine in cerca di emozioni terra terra. Tra le righe ci sono echi di autori come ovviamente George R. R. Martin, di cui i fan aspettano con impazienza la conclusione della saga di Westeros, ma nell’attesa non disdegnano certo altre storie di passioni e lotte, cruente il giusto e con la costruzione di un mondo a tratti terribile ma che sa conquistare.
Un altro autore che viene in mente, leggendo queste pagine, è Terry Goodkind con la saga de La spada della verità, non per la somiglianza della vicenda, ma per le atmosfere simili, di un fantasy che non è certo favolette per ragazzini ma ricostruzione e elaborazione di un mondo immaginario ma con tante metafore storiche e non.
In pochi giorni e in una lunga notte di sangue la Schiera degli Sciacalli è riuscita a invade il più forte dei Quadranti dell’Impero umano, in un macrocosmo dominato da varie stirpi di esseri. La famiglia del Mastro è stata travolta, nessuno degli storici alleati si è fatto vedere e i Ti-Jak, creature tra uomini e rettili hanno falciato la resistenza.
Il principe Raven e le principesse Sarissa e Ioni sono sopravvissuti ma il loro destino sembra essere peggiore della morte, perché Raven è destinato a diventare lo schiavo sessuale del Jekret, mentre le due ragazze dovranno andare in sposa a due principi dei Ti-Jak.
Un cambiamento improvviso e inumano, ma forse ci saranno sorprese per tutti e tre, e quelli che dovevano essere i mostri si riveleranno diversi e ci sarà una speranza di rinascita. Anche perché non è detto che gli invasori siano le vere bestie e il vero pericolo, che può arrivare da altri umani.
Una storia avvincente, con tra le righe tematiche come la diversità, il ruolo della donna, la guerra, l’omosessualità, non nuove al fantasy ma qui viste comunque in un’ottica interessante e innovativa, per una vicenda che non si esaurisce qui e continuerà.
Il principe degli sciacalli alla fine entra nell’abisso più profondo dell’animo umano, racconta il confronto presente dai tempi più antichi tra uomo e bestia, tra abissi di follia e voglia di eroismo. E’ d’obbligo a questo punto attendere i nuovi capitoli, magari sognando un adattamento cinematografico, e forse, date le tematiche, non ci starebbe male un Guillermo del Toro..

Rebecca Moro, pseudonimo di Silvia M. Moro, vive a Padova ed è mamma di 3 bimbi, avvocato, lettrice accanita, blogger. Adora tutto ciò che è sopra le righe e diffida dei sentimenti tiepidi, perché se non c’è la passione non c’è sapore. Con l’altro pseudonimo di S.M. May ha pubblicato i romanzi Nuvole (2013) per Triskell Edizioni e Addio è solo una parola (2015) per Youfeel Rizzoli. Come autrice self, inoltre, ha pubblicato, nel genere gay romance, la serie Lara Haralds – The Strange Matchmaker (Cambio gomme, Neve fresca, Ghiaccio salato, Doppio velo e Infinito Stupore); nel genere sci-fi la serie Oro (Il sangue non è acqua e Oro); il romanzo Secret Funding (2015), uscito anche in edizione inglese e in edizione tedesca per Dead Soft Verlag; e infine il legal thriller Gabbia per uccellini (2017).

Provenienza: omaggio dell’ufficio stampa Fanucci che ringraziamo.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: La saga di Evermen di James Maxwell a cura di Elena Romanello

20 dicembre 2017

evermenPer gli orfani in attesa dei prossimi romanzi di George R. R. Martin può essere interessante provare a leggere la saga di Evermen di James Maxwell, uscita per Fanucci e composta finora da Evermen L’incantatrice, Evermen La reliquia nascosta, Evermen il sentiero della tempesta e Evermen La tradizione.
Una storia di intrighi, battaglie, magie, guerre, passioni, tradimenti che parte da un fratello e da una sorella, Miro e Ella, rimasti orfani giovanissimi e obbligati a cercare la propria strada. Miro si arruola nell’esercito, per combattere le forze oscure che si sono impossessate della sua terra, mentre Ella scopre di avere poteri magici e inizia a frequentare l’Accademia degli Incantatori. Presto i due ragazzi capiscono che da loro può dipendere il destino del loro mondo, proteggendo una reliquia perduta, in grado di dare il potere massimo e per questo ricercata dal Primate, capo degli invasori. E del resto la pace sarà sempre in pericolo, una pace in cui Miro cerca di iniziare una nuova vita con l’amata Amber, mentre Ella approndisce le arti magiche e di costruzione di manufatti, per contrastare il potere degli Evermen, antico e che può essere scatenato in ogni momento. Miro troverà potere e onore, ma la sua posizione verrà minacciata in ogni momento e sarà Ella a cercare di andare in suo aiuto rivolgendosi al nuovo imperatore Killian, che ha già incrociato la sua strada in altre occasioni.
Ci troviamo di fronte ad un fantasy avvincente, che continuerà con nuovi capitoli, dai toni adulti, con personaggi interessanti, tante sottotrame e tematiche che spaziano dal conflitto tra potere e morale all’importanza della devozione e dell’amicizia, dalla ricerca di un mondo migliore alla lotta contro le ingiustizie. I protagonisti non sono perfetti, non ci sono eroi senza macchia e senza paura, e hanno grande importanza, come è ormai d’obbligo, i personaggi femminili, in particolare Ella, all’inizio una ragazzina che somiglia a tratti a Harry Potter nel suo intraprendere una scuola di magia (più dark di Hogwards, comunque) e poi una donna consapevole del suo potere e dilaniata comunque da mille dubbi.
Tra l’altro, leggendo i libri di Evermen viene anche da pensare che se ne potrebbe trarre un bel serial tv: gli elementi ci sono tutti e il mondo descritto, più cupo di Shannara ma non così estremo come Westeros, avrebbe tutti i requisiti per piacere. Nell’attesa ci sono un bel po’ di pagine in cui immergersi, con nuovi libri in arrivo.

James Maxwell è cresciuto nell’incantevole Bay of Islands, in Nuova Zelanda, e ha studiato in Australia. Fin da piccolo, ha divorato romanzi di fantascienza e classici del fantasy e il suo amore per i libri si è tradotto in una passione per la scrittura, che coltiva da quando ha undici anni. Ventenne, ha deciso di partire alla scoperta del mondo. Ha vissuto a Londra, in Thailandia, Messico, Australia e a Malta. Quando non scrive o non è in viaggio, si diletta tra vela, snowboard, chitarra classica e cucina francese. Sta lavorando alla saga di Evermen di cui sono usciti ormai vari capitoli.

Provenienza: acquisto personale del recensore.

:: Una spaventosa faccenda e altri racconti di Jim Thompson (Fanucci 2006) a cura di Giulietta Iannone

3 novembre 2017

una spaventosa faccendaJim Thompson credo sia un nome che non necessiti di grandi presentazioni, specie tra noi lettori amanti del noir contemporaneo americano. Nel mio ipotetico pantheon ha un posto di rilievo, e non solo io tendo a pensare che sia stato uno dei più grandi e versatili, perlomeno della sua generazione, se non il più grande.
Nacque nel 1906 in una sperduta e minuscola cittadina dell’ Oklahoma, una generazione dopo Chandler (1888- 1959) per intenderci, e morì a Hollywood verso la fine degli anni ’70 solo e alcolizzato, come un tipico personaggio dei suoi libri, libri che almeno in vita furono considerati, dopo un effimero successo negli anni ‘50, niente di più che romanzetti pulp da quattro soldi (a parte tre, tutti i ventinove libri pubblicati tra il 1942 e il 1973 erano tascabili).
Per capire il suo valore arrivarono in massa i critici dagli anni ’80 in poi del Novecento, facendo accostamenti vertiginosi più che ai maestri del noir e dell’ hardboiled, ad autori prettamente letterari e non di genere come Céline, Erskine Caldwell per non parlare di William Faulkner o addirittura Dostoevskij. Insomma quando un autore viene sdoganato, gli osanna della critica arrivano fino al Cielo.
Ma insomma Jim Thompson se lo meritava, avrebbe certo meritato anche più riconoscimenti in vita, meno disperazione e indifferenza specie negli ultimi anni di vita, ma forse avrebbero alterato il suo stile, (o forse il successo stesso non apparteneva alle sue corde) e noi oggi non avremmo avuto opere come L’assassino che è in me, Un uomo da niente, o Colpo di spugna, romanzi che se vogliamo rappresentano un punto di non ritorno e una nuova ridefinizione del genere.
Dunque sebbene più famoso per i suoi romanzi Jim Thompson non evitò la narrativa breve, e se volete accostarvi a questo autore vi consiglio proprio di iniziare dai racconti. Non sarà un innamoramento veloce, Jim Thompson non utilizza artifici letterari ed effetti speciali o fuochi d’artificio, anzi ha uno stile sobrio, piano se vogliamo, che utilizza anche cinicamente un’ apparente calma compositiva per poi mordere all’improvviso come un serpente a sonagli. Ma ragazzi se amate l’arte del racconto da Jim Thompson c’è solo da imparare, dalla caratterizzazione dei personaggi (truffatori, prostitute, psicopatici, assassini e tutto il sottobosco borderline dell’ epoca che lui conosceva per esperienza diretta), all’ambientazione (perlopiù squallida e degradata, e metropolitana), a quel mood che oscilla tra cieca disperazione e ottusa speranza, che naturalmente noi lettori sappiamo benissimo quanto sia senza futuro.
Jim Thompson tocca corde profonde, grazie a un’autenticità che nasce da una profonda sofferenza. Lo sguardo di pietà umana e tenerezza che getta sui i suoi antieroi, è qualcosa che commuove e rende splendide storie di per sé sordide, deprimenti e sporche, anzi cattive ma Jim Thompson non giudica né giustifica, i suoi perdenti sono gentaglia, ma forse l’intera umanità è fatta di gentaglia, di cialtroni per cui stare dal lato giusto della legge non è una grande priorità e che cercano sempre una nuova occasione ma non la trovano mai.
Una spaventosa faccenda e altri racconti (Fireworks. The Lost Writings, 1998), raccolta curata da Robert Polito, il suo biografo ufficiale, autore anche della breve e brillante prefazione, edita in Italia nel marzo del 2006 da Fanucci con traduzioni di Eleonora Lacorte, raccoglie 12 racconti usciti nell’arco di vent’anni (1946-1967) e pubblicati sulle più famose riviste americane di genere.
Abbiamo un Jim Thompson in splendida forma capace di scrivere racconti come Buio in sala, Per sempre (il mio preferito), Una spaventosa faccenda, Pagare all’uscita e La falla del sistema il più insolito e filosofico se vogliamo. Jim Thompson scrive racconti di suspense, neri fino nel midollo. Il cinismo di Aurora a mezzanotte è difficilmente sostenibile, nonostante l’apparente dolcezza con cui è scritto. La storia è sordida, dolorosa, disturbante, e lascia poco spazio a forme anche velate di redenzione o lieto fine.
I suoi truffatori sono quasi sempre falliti e mezze tacche, alle prese col colpo che gli dovrebbe cambiare la vita, ma tutto gli si ritorce sempre contro, e non perché il male deve essere punito e meglio se in modo eclatante, ma perché la vita e i meccanismi corrotti e contorti che la regolano portano a questo fallimento esistenziale prima che etico o morale. In un lento e inesorabile sgretolamento di difese.
Mitch Allison il truffatore sfortunato (ma criminale nel midollo) de Il calice di Cellini, lo ritroviamo anche in un secondo racconto, Una spaventosa faccenda (che dà il titolo italiano alla raccolta) ed è se vogliamo il più limpido esempio dell’antieroe tipicamente americano caro a Jim Thompson.
Gli elementi autobiografici si perdono in una densa struttura narrativa in cui la realtà è deformata dalle aspirazioni e da un disperato desiderio di riscatto e di conservazione e sopravvivenza. Truffare una compagnia, uccidere, prestarsi a grandi e piccoli raggiri è quasi una forma di compensazione, un desiderio folle di ottenere un risarcimento per una vita di stenti, povertà e miseria.
I personaggi sono fermamente convinti che la loro condizione è una grande ingiustizia, loro cercano solo di pareggiare la bilancia, come la sfortunata Ardis Clinton (non vi anticipo il colpo di scena finale, ma è geniale) e il suo folle piano congeniato col suo amante che porterà a derive horror e soprannaturali.
Ho in lettura Un uomo da niente, vi saprò dire, intanto buona lettura per questo.

Per approfondire: Lia Volpatti – Senza speranza da Vita da niente, Omnibus Gialli Mondadori

Jim Thompson, per tutti Jim, nacque in Oklahoma, nel 1906. A causa di dissesti finanziari familiari fin da ragazzo fu costretto a fare i lavori più umili, dal manovale al fattorino, dall’operaio nei pozzi petroliferi al gestore di sale cinematografiche. La scrittura arriva piuttosto tardi tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta. Thompson deve la sua fama principalmente ai romanzi. Ne ha scritti più di trenta, molti dei quali nel suo periodo più prolifico, dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta. Poco apprezzato in vita, la sua statura di autore cresce negli anni Ottanta con le riedizioni dei suoi romanzi per la casa editrice Black Lizard.
I personaggi che popolano i libri di Thompson sono truffatori, perdenti, psicopatici; alcuni di questi vivono ai margini della società, altri vi sono perfettamente inseriti. La visione nichilista dell’autore è quasi sempre espressa da una narrazione in prima persona; la profondità della sua comprensione degli abissi della follia criminale è quasi spaventosa. Difficile trovare personaggi “buoni”, nei suoi libri: anche quelli apparentemente più innocui mascherano egoismo, opportunismo e vizio.

Source: libro preso in prestito dalle biblioteche del circuito SBAM.

:: Recensione di Il burattino di Jim Nisbet (TimeCrime, 2013) a cura di Giulietta Iannone

6 settembre 2013

CopBurattino_lowSiamo a Dip, Stato di Washington, un’afosa località persa tra campi di grano e fattorie. Mattie Brooke, ragazza di campagna un po’ invecchiata ma ancora attrente, lavora come cameriera nella tavola calda di Morderai Sturm e intanto sente che la vita le sta scorrendo attorno, mentre sogna che Jedediah Dowd, proprietario di un ranch nelle vicinanze, un giorno la sposi, innamorata, più che di lui, delle lettere struggenti e poetiche che sua madre aveva scritto negli anni 40, prima di morire.
Poi un giorno entra nella sua vita un forestiero di passaggio, Tucker Harris, reduce del Vietnam, commesso viaggiatore, dedito all’alcool e alle anfetamine. Passano insieme una notte selvaggia di sesso e passione (più lotta all’ultimo sangue di pesci siamesi combattenti nell’acquario), così lontana dalla noia e il solitario trantràn a cui Mattie è abituata e il giorno dopo Tucker le lascia una poesia di Verlaine, Clare de lune, scritta su un velo di Scottex, dandole appuntamento tra un anno.
Così inizia Il burattino (Death Puppet, 1989) noir sulfureo e feroce scritto magistralmente da un Jim Nisbet in stato di grazia. Difficile credere che sia stato un americano ad averlo scritto, sebbene personaggi e ambientazioni più americani di così si muore, non tanto per la trama quanto per la scrittura così barocca, eccessiva, bizzarra, colta, ricca di citazioni letterarie (la parodia blasfema dell’incipit di Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen è uno dei tanti esempi che mi vengono in mente) scevra dalla linearità ed essenzialità dei maestri del noir americano.
Tradotto da Jacopo Lencowicz ed edito da Fanucci nella sua collana TimeCrime, Il burattino, che ricordiamolo è figlio degli anni Ottanta, sebbene ancora inedito in Italia, fu infatti scritto da Nisbet nel 1989, in piena era reganiana, figli dei fiori, guerra del Vietnam e controcultura beat ancora un ricordo recente, (specie per uno scrittore di San Francisco), racchiude molta bellezza e qualche difetto, dovuto principalmente ad una certa disomogeneità e pesantezza quando descrive dall’interno, tramite un forsennato e debordante stream of consciousness, la follia di Tucker Harris, personaggio che vive con un ingombrante diavoletto nella testa che gli parla, lo sfotte, lo incita nelle sue nefande imprese.
Tornando alla trama: Mattie Brooke dopo l’incontro con Tucker Harris si trova ad un bivio, niente sarà più come prima. L’arrivo alla tavola calda di due hippy da San Francisco, che si mettono a litigare con un avventore e il proprietario, segna un suo crollo emotivo e una ribellione che la porterà ad essere licenziata in un’esplosione di caraffe di caffè e vetri infranti. Poi quando i due forestieri, Scott e Eddie, le chiedono di portarli da Jedediah, qualificandosi come suoi vecchi amici e compagni d’arme, Mattie, forse troppo fiduciosa, ma è un suo difetto o meglio parte del suo fascino, accetta e inizia un viaggio che la porterà a scoprire che Jedediah non è l’uomo che credeva che fosse, per non parlare dei due stranieri o dello stesso Tucker Harris, che a quanto pare non è andato lontano.
In un crescendo narrativo, che culmina in una ipercinetica resa dei conti nel ranch di Jedediah a base di marijuana, omicidi, esplosioni (e anticipa con un certo anticipo le derive iperrealistiche e splatter di alcuni narratori noir e registi contemporanei, in cui le esplosioni di violenza, con schizzi di sangue, corpi crivellati dai proiettili e cadaveri carbonizzati, si associano ad una graduale presa di coscienza e deframmentazione dei personaggi), Nisbet trascina il lettore suo malgrado in una vicenda al calor bianco in cui realismo e verosimiglianza vengono sospesi in favore di una accettazione quasi incondizionata di motivazioni e obbiettivi, giustificabili forse solo con la follia.
Ingenua, sensibile, fondamentalmente romantica, anche se si crede una ribelle, Mattie è senz’altro l’eroina principale del romanzo e la sua parabola discendente verso la dannazione e o la salvezza, (sta al lettore deciderlo in un finale quanto mai aperto), viene seguita dall’autore con partecipata tenerezza, lasciata sospesa come una promessa non mantenuta. Bellissimo.

Jim Nisbet è nato nel North Carolina nel 1947. Vive a San Francisco, dove costruisce mobili. Finalista al Pushcart Prize e all’Hammett Prize, è stato tradotto in dieci paesi. In Italia, sono già usciti per Fanucci Editore Prima di un urlo (2001), Iniezione letale (2009) e Cattive abitudini (2010), per TimeCrime I dannati non muoiono (2012).

:: Altri regni di Richard Matheson (Fanucci, 2011) a cura di Giulietta Iannone

23 marzo 2011

altri-regni-matheson-fanucci-2011-copertinaChi ha detto che horror e fantasy non possano andare a braccetto?
Se avessimo dei dubbi in proposito ci pensa Richard Matheson a fugarli. Grande vecchio della letteratura americana del fantastico incluso nella Science Fiction Hall of Fame, ormai una leggenda.
Nato ad Allendale, New Jersey, da immigrati norvegesi  il 20 Febbraio del 1926, Matheson è la dimostrazione vivente che a ottant’anni suonati non si ha unicamente a che fare con dentiera e pannolone o gite al parco a far volare gli alianti, ma si può ancora essere brillanti di mente e forse più ironici e graffianti di quando si era giovani.
Tramite Fanucci, (che cura molte delle sue opere tra cui Io sono leggenda, Io sono Helen Driscoll, Ricatto mortale, The box e altri racconti, Tre ore di pura follia, Duel e altri racconti), ha pensato bene di pubblicare in anteprima in Italia prima ancora che sul suo suolo nativo Altri regni titolo originale Other Kingdoms una storia fatata di magia, amore e mistero in cui l’irrazionale aleggia sinistro e trascina il lettore in un mondo parallelo e sconcertante fatto udite udite, di gnomi e fate.
L’inizio del romanzo è saldamente ancorato alla realtà. Siamo nel 1917. Alex White figlio del capitano di marina Bradford Smith White, un porco calzato e vestito, come amorevolmente lo definisce, non appena gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania, prendendo così parte alla Prima guerra Mondiale decide, il 7 giugno Giornata nazionale del reclutamento, di arruolarsi nell’esercito e non nella marina per fare dispetto al terribile genitore odiato con tutte le sue forze.
Spedito oltremare su una piccola nave di linea britannica su cui il cibo, a essere generosi,  era disgustoso, il puzzo ancora peggiore, e l’acqua appena potabile, si trovò, vera e propria carne da cannone, sul Fronte francese a combattere la guerra di trincea.
Quando dico carne da cannone non è tanto un modo di dire. Dei due milioni che giunsero in Francia in meno di duecentomila tornarono a casa. La trincea in cui Alex White si trovò sepolto era profonda un metro e mezzo e al di sopra c’era un altro metro di sacchetti di sabbia. Il fondo era fatto di fango e più che camminare si strisciava sperando si essere fortunati e sfuggire alle bombe e ai colpi delle mitragliatrici e dei mortai.
Fu così che in una di queste interminabili giornate di morte Alex White conobbe Harold Lightfood e la sua vita cambiò per sempre.
In punto di morte il giovane soldato inglese dal sorriso incantevole e le mani paffute strappò all’amico americano la promessa che sarebbe andato in Inghilterra a Gatford suo borgo nativo. Un idilliaco paesino sperduto nell’amena e bucolica campagna inglese luogo di pace e serenità se non fosse per alcune leggende che narrano che i boschi dei dintorni siano infestati da creature malvagie e capricciose.
Alex per tenere fede alla promessa fatta all’amico e per curarsi dalla ferita che gli aveva fatto sfuggire il Fronte, non avendo la minima intenzione di tornarsene a casa, si reca così a Gatford.
Inizialmente armato di buon senso e cieca razionalità rifiuta di credere alle cupe leggende che sente raccontare dagli abitanti del luogo, ma il fortuito incontro nel bosco con la rossa Madga Variel, da tutti creduta una strega, lo porterà a ricredersi e fare i conti con l’irrazionale, molto di più di quanto avrebbe voluto.
Altri regni è un piccolo gioiello che si ricollega se vogliamo al romanzo gotico e soprannaturale, soprattutto ottocentesco, come alcuni critici hanno evidenziato. Ma a mio avviso sebbene venato da contaminazioni horror e fantasy è un’opera sperimentale che vive di luce propria e rivisita il genere in maniera molto personale.
Innanzitutto è una dolcissima storia d’amore, tra un umano e una fata. Cosa c’è di più romantico, nel senso etimologico del termine?
Ma non solo.
E’ qualcosa di molto più simile ad un romanzo di formazione in cui l’autore parla del processo che lo portò alla scrittura. Non a caso il protagonista è uno scrittore di romanzi gotici e spaventosi che scelse lo pseudonimo di Arthur Black che con ironia e autoironia rappresenta l’autore stesso in un vero e proprio omaggio alla scrittura.
In bilico tra lo shakesperiano Sogno di una notte di mezza estate  e le Fiabe irlandesi di William Butler Yates, Altri regni ha il fascino di un‘ antica ballata surreale e bizzarra in cui il soprannaturale non è che uno specchio deformato della realtà in cui riconoscersi e trasfigurarsi.
Il bosco incantato, e le fantastiche creature che lo popolano, raffigurano un mondo onirico e tenebroso in cui non a caso la paura e l’oscuro terrore scaturito dall’ irrazionale e dal pericolo imminente hanno la prevalenza sul fiabesco e sulla meraviglia.
Matheson scherza di continuo con il lettore accentuandone il rapporto di confidenza e di amicizia e si sente che a lui questo libro è dedicato, come atto di gratitudine e riconoscenza, per avergli permesso di fare per un’ intera vita quello che amava e gli riusciva meglio, raccontare storie.
Forse un addio o più semplicemente un arrivederci.

Altri regni di Richard Matheson,  Fanucci editore, Collezione Vintage, Traduzione dall’inglese di Maurizio Nati, 2011, pagine 291, titolo originale Other Kingdoms.

:: Recensione di Il Manipolatore di Michael Robotham (Fanucci 2010) a cura di Giulietta Iannone

7 gennaio 2011

il manipolatoreIn un piovoso mattino di fine settembre Joe O’Loughlin, professore di psicologia comportamentale dell’Università di Bath nella contea di Somerset, si accinge a tenere il suo corso introduttivo nell’aula magna davanti ad un platea di studenti del primo anno.
Ormai è quella la sua vita da quando ha lasciato Londra, e il suo lavoro di analista, per rifugiarsi con sua moglie Julianne e le sue due figlie Charlie ed Emma in un posto più tranquillo, lontano dai pericoli e dai fantasmi del passato. Se non fosse per il tremore dovuto al morbo di Parkinson la sua vita sarebbe perfetta. Ma il destino ha deciso altrimenti, ha deciso di coinvolgerlo in un gioco mortale che presto metterà in serio pericolo tutto il suo mondo, finanche il suo bene più prezioso, la sua stessa famiglia.
Finita la lezione, infatti, sotto un diluvio che dura da settimane, una macchina della polizia lo aspetta. Su a Clifton Bridge c’è bisogno di lui. Una donna sulla quarantina completamente nuda, se non fosse per un paio di scarpe scarlatte dal tacco vertiginoso, con un’inquietante scritta con il rossetto sulla pancia, minaccia di uccidersi.
Joe O’Loughlin non può tirarsi indietro e così si trova faccia a faccia con l’aspirante suicida, solo un paio di metri li separano, ma non ostante cerchi di salvarla non può far altro che assistere impotente ai suoi ultimi istanti di vita.
La donna regge un cellulare appoggiato all’orecchio. Sta parlando con qualcuno. Joe coglie solo alcuni frammenti della conversazione e fa di tutto per attirare la sua attenzione, ma inutilmente. Solo per un attimo la donna lo guarda negli occhi e gli sussurra le sue ultime parole: “Lei non capisce”.
Poi il salto.
La fine.
Per la polizia non c’è dubbio si tratta di suicidio, a confermarlo le decine di testimoni che hanno assistito alla scena, ma Joe sente che qualcosa non torna. Perché quella scritta sul ventre? Perché era nuda? Che significato hanno le sue ultime parole? E soprattutto con chi stava parlando al telefono?
Troppi interrogativi si affollano nella sua mente finchè un fatto inaspettato da concretezza ai suoi dubbi.
La figlia sedicenne della morta, Darcy, lo cerca a casa e lo implora di credere che è impossibile che sua madre si sia suicidata e l’abbia lasciata sola. Anche Sylvia, la sua amica e socia nell’impresa si organizzazione matrimoni, non lo crede. Joe è sempre più scettico e quando anche Sylvia viene trovata morta con indosso solo un paio di stivali diventa certo che si tratti di omicidio. C’è un serial killer per le strade capace di entrare nella mente delle sue vittime, manipolarle e piegarne la volontà fino a spingerle alla morte. Joe percepisce che per fermarlo deve impiegare tutte le sue capacità di analisi e osservazione conscio che il suo nemico è pericoloso, ostile e pronto a colpirlo in una lotta senza esclusione di colpi.
A chi è piaciuto La Psichiatra di Wulf Dorn, e ama gli psicothriller in cui Sebastian Fitzek è maestro, certo non potrà sfuggire Il Manipolatore di Michael Robotham, pubblicato a ottobre del 2010 da Fanucci nella collana gli Aceri.
La mente umana è il luogo del delitto in questo thriller a tinte forti e come ogni scena del crimine necessità di un esperto che raccolga indizi che certo non saranno impronte digitali, tracce di sangue o campioni di DNA, ma pensieri, parole, inconsci collegamenti e nessuno meglio di Joseph O ’Loughlin è l’uomo giusto per fare questo.
Premiato nel 2008 con il Ned Kelly Award come miglior romanzo di crime fiction, giudicato da Stephen King “Un eccezionale romanzo di suspense”, osannato dalla critica anglosassone, Il Manipolatore ha senz’altro le carte in regola per non deludere anche i lettori più esigenti.
Robotham ha senso del ritmo, una scrittura molto scorrevole e vivace all’insegna della semplicità, un approccio decisamente visuale che cattura il lettore basti pensare alla scena iniziale del suicidio, molto potente, drammatica che entra nell’immaginario del lettore e quasi lo catapulta nell’azione.
La trama è molto raffinata, originale, affatto scontata, ogni sua componente è a servizio di un quadro di insieme omogeneo e razionale. Tutto ha una spiegazione, una consequenzialità, uno scopo. L’autore è stato molto attento ad elaborare tutto questo.
I personaggi cono bene calibrati, i legami familiari del protagonista realistici e genuini, la psicologia dell’ antagonista contorta quanto basta, ma non inverosimile.
L’ambientazione, molto british, è caratterizzata da un’ attenta cura dei dettagli.
Consiglio anche a tutti gli appassionati di psicothriller di cercare di recuperare L’indiziato, romanzo di esordio di Robotham, davvero folgorante, edito nel 2005 in versione economica da Rizzoli sempre con Joe O ’Loughlin come protagonista. Non so se sarà facile perché mi risulta che su IBS non sia più disponibile.

:: Assassinio sul molo di Anne Perry (Fanucci 2010) a cura di Giulietta Iannone

12 settembre 2010

asLondra, estate del 1864. William Monk, ispettore della polizia fluviale di Wapping, è impegnato in un rischioso inseguimento sul Tamigi per catturare Jericho Phillips, accusato dell’omicidio del piccolo Walter Figgis, detto Fig. Un monello, un ragazzino di strada, che si guadagnava da vivere recuperando sulle rive del fiume oggetti smarriti, viti, oggetti d’ottone, frammenti di porcellana, pezzi di carbone, tutto quello che poteva avere anche un minimo valore tanto da essere venduto. Il suo cadavere era stato recuperato nel fiume a Greenwich con la gola tagliata, segni di bruciatura sulle braccia e segni di abusi in altre parti del corpo.
Subito era parso chiaro dal modo in cui era stato trattato che era quasi certo che fosse finito nelle mani di quei delinquenti che vendevano i bambini ai bordelli o ai pornografi. I ragazzini servivano fino a quando non iniziavano a cambiare voce e a mostrare i segno della pubertà, allora gli uomini a cui piacevano i bambini non nutrivano più interesse per loro e solitamente venivano venduti come mozzi ai capitani di mercantile.
Forse Fig si era ribellato in qualche modo e questo ne aveva decretato la morte.
Durante le indagine tenute dal comandante Durban, prima della sua morte, un informatore gli riferì che Jericho Phillips teneva sulla sua barca una specie di via di mezzo tra un bordello e un locale di spogliarello e costringeva i bambini a pratiche contro natura, fotografandoli e vendendo le foto per guadagnare altri soldi oltre a quelli di chi assisteva di persona.
Dopo una serie di appostamenti e nuovi riscontri, alla fine dell’inseguimento, Monk finalmente riesce a catturare Phillips e a consegnarlo alla giustizia. Ma un nuovo colpo di scena si sta per verificare.
Durante il processo Phillips ha come avvocato difensore Oliver Rathbone, uno dei migliori avvocati di Londra, incaricato della difesa da un misterioso filantropo pronto a pagare tutte le spese in nome della giustizia. Grazie alla bravura di Rathbone che riesce a insinuare nella giuria una serie di dubbi sulla correttezza dell’operato della polizia, Phillips viene giudicato innocente e sfugge al capestro.
Monk non ostante lo sconcerto, in memoria del vecchio capitano Durban che era certo della colpevolezza di Phillips e della sua implicazione in un giro di prostituzione minorile, riprende le indagini e senza esitare è pronto ad addentrarsi negli squallidi e degradati vicoli dei bassifondi e a infiltrarsi nei pericoli della malavita di Londra pur di raccogliere prove e testimonianze che incastrino una volta per tutte Phillips.
Quello che scoprirà andrà ben oltre le peggiori aspettative fino a far luce, nel sorprendente finale, sui vizi e le perversioni inconfessabili di alcuni personaggi illustri e insospettabili della moralista e perbenista buona società londinese. Assassino sul molo,uscito in questi giorni per Fanucci, appartiene alla serie ambientata nella Londra del periodo vittoriano che la scrittrice inglese Anne Perry ha dedicato all’ispettore William Monk.
Anne Perry è una narratrice straordinaria, capace di trasportarti in un epoca lontana con una facilità e una naturalezza che evidenzia la sua profonda conoscenza del periodo. Oltre alla cura per le psicologie dei personaggi, l’accuratezza nella descrizione degli ambienti, dei costumi, della mentalità, la Perry non trascura l’analisi di questioni etiche e sociali, anche scabrose, come in questo caso trattando la prostituzione minorile.
Dosando sapientemente suspense e colpi di scena, la Perry, attraverso riflessioni e osservazioni dettagliate, ci porta a scoprire i lati più oscuri della luminosa e puritana società vittoriana che sotto una patina di progresso e ottimismo nascondeva sordidi crimini indegni di una società civile.
La scrittura è elegante, il linguaggio ricercato, per gli amanti del mystery di stampo classico una lettura da non perdere.
Assassinio sul molo di Anne Perry Traduzione Sara Brambilla, Fanucci Editore, collana Vintage, pagg. 371, 2010.

Anne Perry, pseudonimo di Juliet Marion Hulme (Londra, 28 ottobre 1938), è una scrittrice britannica, condannata in gioventù per omicidio.
Figlia del professor Henry Hulme, medico e rettore dell’Università di Canterbury in Christchurch, alla giovane Anne (all’epoca ancora Juliet) venne diagnosticata la tubercolosi, così che fin dalla tenera età viaggiò in molti posti caldi del mondo (Caraibi, Sud Africa, ecc.) nel tentativo di migliorare la sua salute. All’età di 13 anni si riunisce con il padre, che si trasferisce all’Università di Cambridge della Nuova Zelanda.
Qui diviene amica intima di Pauline Parker, un’amicizia in cui molti all’epoca vollero vedere connotazioni omosessuali. La famiglia Hulme, però, era vicino al divorzio, e così Juliet pensò che poteva tornare in Inghilterra con l’amica. La madre di quest’ultima, Honora Rieper, era decisamente contraria, così nel 1954 Juliet e Pauline la uccidono. Il processo per omicidio ha eco internazionale e solleva l’indignazione pubblica. Il 29 agosto 1954 Juliet e Pauline vengono condannate per omicidio, ma essendo appena sedicenni ottengono una pena inferiore: cinque anni di detenzione e il divieto assoluto di incontrarsi di nuovo.
Finita la detenzione, Juliet parte dalla Nuova Zelanda per l’Inghilterra, poi dopo un periodo negli Stati Uniti si trasferisce in Scozia, nel paese di Portmahomack, dove vive tuttora con la madre. Suo padre ha avuto una carriera da eminente scienziato, guidando il programma britannico della bomba all’idrogeno. Juliet si cimenta con la scrittura e nel 1979 dà alle stampe il suo primo romanzo: Il boia di Cater Street (The Cater Street Hangman). Per tagliare i ponti con il passato, prende lo pseudonimo di Anne Perry, dal cognome del suo patrigno. Inizia così una prolifica carriera letteraria, che affronta i vari generi della letteratura gialla.
Sia Anne Perry che l’amica di una volta, Pauline Parker, vivono in Gran Bretagna, ma dal giorno del processo non si sono più incontrate.

:: Recensione di La libraia di Orvieto di Valentina Pattavina a cura di Giulietta Iannone

11 giugno 2010

Dopo avervi proposto thriller e noir, mie abituali letture preferite, ecco a voi una tenera storia ambientata a Orvieto, idilliaca cittadina umbra, luogo ideale per descrivere le dinamiche della vita di provincia. La libraia di Orvieto edita da Fanucci è la convincente opera prima dell’esordiente Valentina Pattavina, catanese, 42 anni, curatrice dal 1999 con Vincenzo Mollica della serie “Parole e Canzoni” di Einaudi Stile Libero. La Pattavina si avvicina per la prima volta alla narrativa con una storia delicata e divertente, una commedia nera in cui vari generi si intrecciano dando vita ad un piccolo gioiello davvero ben scritto, colto e raffinato. Scrittura minimalista, capitoli brevissimi, quasi schegge cadenzano, questo bizzarro e curioso romanzo che ha per protagonista Matilde una quarantenne single e irrequieta che dopo vari vagabondaggi per l’Italia, si rifugia ad Orvieto sfuggendo al proprio passato e raggiunge un’ oasi di sogno: può fare la libraia, sua grande aspirazione, grazie al vecchio e garbato professor Paolini; incontra buffi e teneri personaggi che l’accolgono come una naufraga e le fanno posto nella loro stretta cerchia di amicizie consolidate dagli incontri del sabato in cui si riuniscono per giovcare a carte, per mangiare piatti tipici umbri e per rinsaldare  una strana complicità che ben presto si rivelerà per lo meno sospetta agli occhi della attenta Matilde; finanche si innamora dell’affascinante e bel Michele, nipote del Paolini. Poi quasi per un gioco del caso emerge dal passato un omicidio irrisolto. Dieci anni prima infatti fu rinvenuto nel bosco il cadavere di un uomo, impiccato ad un albero, in una strana messinscena che apparentemente avrebbe dovuto fare pensare a un suicidio. I carabinieri indagarono svogliatamente facendo sì che le indagini raggiungessero un punto morto. Dieci anni dopo, quando ormai ogni pista sembra perduta e il colpevole vive indisturbato, Michele e Matilde riprendono le indagini e stranamente ostacolati dal gruppo di amici che li circonda, quasi trincerati dietro una fitta trama di silenzio complice, arriveranno finalmente a far luce sulla sconcertante verità.
La libraia di Orvieto di Valentina Pattavina, Fanucci, Collezione Vintage, 2010, 244 pagine, brossura, prezzo di copertina Euro 16,00.

Valentina Pattavina, editor, è nata a Catania nel 1968. Ha studiato archeologia. Dopo un’intensa attività nel mondo dello spettacolo, nel 1996 inizia a lavorare nell’editoria, ricoprendo diversi ruoli in ambito redazionale. Collabora tra gli altri con Fanucci, Chiarelettere e Einaudi, in special modo con Stile Libero, per la quale dal 1999 ha curato insieme a Vincenzo Mollica la serie Parole e canzoni dedicata ai cantautori. Per Stile Libero ha scritto i libri Non principe, ma imperatore. Storia di Totò, dalla polvere del palcoscenico alle luci del cinema (2008) e La grande anima d’Italia. Alberto Sordi, dal teatrino delle marionette ai fasti del cinema, una monografia su Paolo Villaggio e una su Vittorio Gassman. Per i tipi di Fanucci ha scritto i romanzi La libraia di Orvieto (2010) e La libraia di Orvieto. L’ultima eredità (2011).

:: Recensione di “Tokyo noir. Chi semina odio raccoglie vendetta!” di Kenzo Kitakata (Fanucci 2009) a cura di Giulietta Iannone

11 settembre 2009
tokyo noir

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Questa breve recensione è in assoluto la prima recensione che ho scritto, quando ancora pensavo che non ne avrei scritte molte. Un po’ perchè preferisco intervistare gli scrittori che dare giudizi sui libri, e un po’ perchè è un mestiere niente affatto facile. Rileggendola è molto breve e naïf, ma forse non era così male, dà davvero un’idea del libro di cui parlo. Kitakata è una sorta di Chandler nipponico, non mi pare l’abbiano più pubblicato in Italia, dato la sua vasta produzione. Meriterebbe di essere tradotto dal giapponese. Un vero peccato. 

Piove su Tokyo mentre si consumano le vite dei personaggi di questo torbido noir del magistrale Kenzo Kitakata. Da un lato Kazuya Takino un ex killer della yakuza che si è rifatto una vita gestendo un piccolo supermarket di periferia specializzato in generi alimentari e prodotti per la casa in compagnia della moglie Yukie. La vita sembra scorrere monotona e noiosa ma non si sfugge al proprio passato e quando una ricca compagnia desidera mettere le mani sulla sua proprietà e incarica un suo uomo di sbarazzarsi di lui la tentazione di farsi giustizia da sè è troppo forte per resisterle. Dall’altro il destino e il detective Takagi, detto “il cane bianco” per la sua capigliatura candida, un pluridecorato eroe vecchio e stanco ma sempre in cerca di nuove medaglie con la sua eterna sigaretta tra le labbra e un’ ossessione. E’ una storia di agguati, di inseguimenti, di lotte tra bande rivali, di sparatorie, di cieca violenza senza riscatto. Una storia dove non ci sono eroi e la vendetta sembra essere la sola legge a regnare. Scrittura ruvida e cupa anche se a tratti venata di raffinata poesia. Ritmo serrato, finale strepitoso. Traduzione dall’inglese di Paolo Falcone.

Kenzo Kitakata 北方 謙三 è uno dei più famosi autori giapponesi di hardboiled. E’ stato Presidente dell’associazione Japan Mistery Writers Association dal 1997 al 2001. Ha scritto più di cento libri. Tradotti in inglese, i suoi romanzi hanno riscosso un grande successo negli Stati Uniti. Kitakata ha vinto numerosi premi, tra cui il Japan Adventure Writing Association Award (1982), lo Yoshikawa Eiji Award for Fiction (1983), il Japan Mistery Writers Association Award (1983, per Tokyo noir), il Bungei Award (1985) e lo Shiba Ryotaro Award (2005).

Source: preso in biblioteca.

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