Posts Tagged ‘Stefano Di Marino’

:: Recensione di Nero criminale – I segreti di una città corrotta di Stefano Di Marino (Edizioni della Sera, 2012) a cura di Giulietta Iannone

7 settembre 2012

Era il ‘nero criminale’, una mia elaborazione dell’hard-boiled ispirata un po’ a Richard Stark, un po’ a Josè Giovanni e a Melville, parecchio al poliziottesco e al cinema del milieu di Fernando Di Leo che poi era una sua rivisitazione personale di Scerbanenco.

Io racconto storie criminali, come questa in cui si trovano persone di ogni etnia e ceto sociale in un intrico che lega tutti perché a volte, la sera, quando guardo il traffico cittadino scorrere nelle grandi arterie tutte quelle luci mi sembrano far parte di un unico disegno, un unico piano. Non so se criminale ma, con la fantasia, di certo lo è.

Ma, in questa foto al nero della mia città c’è anche fortissima la passione per il ‘polar’ francese degli ultimi anni. Di quello cinematografico e televisivo ma anche quello reale. La storia dei Manouches è una storia vera e ci riporta all’epopea dei ‘flic e dei caid’ che hanno creato la leggenda criminale della banlieue francese. [1]

Chance Renard, alias il Professionista, torna in libreria con Nero criminale – I segreti di una città corrotta, grazie a Edizioni della Sera e a Enzo Carcello, che l’ha voluto nella sua collana Calliphora, dopo Rock – I delitti dell’uomo nero di Danilo Arona.
L’autore, Stefano Di Marino, con una bibliografia importante, qualcosa come più di 80 romanzi pubblicati oltre a numerosi racconti, saggi e traduzioni, è indubbiamente un maestro del “nero criminale” e soprattutto uno scrittore di talento capace di nobilitare un genere che ha avuto anche i suoi grezzi eccessi pieni di stereotipi ed effettacci da z movie.
Con una solida scrittura e grazie all’insolita capacità di unire il senso dell’azione a lampi introspettivi venati anche di malinconia, Di Marino si colloca tra gli scrittori in grado di dare spessore e realistica profondità ad un genere che è riduttivo definire solo “noir”. E’ molto di più, è letteratura senza categorie e limitazioni.
La sua capacità di dare vita all’anima più nascosta di Milano, con pochi tratti, con poche frasi essenziali e illuminanti, facendo si che i luoghi diventino parte viva della narrazione e protagonisti essi stessi, è a mio avviso cosa meglio definisce il suo stile ed è sicuramente la parte che ho amato di più di questo libro. Tutto scorre come nel fiume di auto che scivola tra i grattacieli, tra i grandi palazzi dalle sagome più bizzarre costruiti in vista dell’Expo 2015. Un torrente di luci in movimento che supera i navigli, i rioni con le case basse, quelli delle fabbriche abbandonate. Cartelloni pubblicitari e insegne di locali notturni, grandi magazzini e scure abitazioni popolari. Gangland, appunto. La mia città.
L’utilizzo della prima persona, canale diretto tra il protagonista, alter ego dell’autore e il lettore, aggiunge ad una storia dannatamente seria e violenta se vogliamo, connotazioni intime e private capaci di suscitare suggestioni ed emozioni che nascono dalla spontaneità e dalla sincerità che traspare come in filigrana tra le pagine.
Non è certo un testo dichiaratamente politico o con intenti sociali, pur tuttavia emerge un quadro sociologico che necessità di una lettura ben più approfondita di una semplice lettura superficiale. Nel testo sono presenti messaggi, riflessioni, considerazioni dell’autore, che denotano la volontà di parlare di cose serie pur sotto la forma di letteratura di intrattenimento e di svago. Ma svago intelligente, che trasmette qualcosa, non si limita a parlare del nulla.


:: Recensione di L’ora decisiva di Lee Child (Longanesi, 2012) a cura di Stefano Di Marino

3 Maggio 2012

Duro, durissimo, senza pietà. Jack Reacher torna in una nuova avventura, fedele alla formula che gli ha portato fortuna negli anni. In viaggio, sempre senza bagaglio, una meta abbozzata, si ritrova in una situazione di emergenza, coinvolto in un complicato meccanismo che lo schiera in prima linea contro il crimine. E lui, che vorrebbe star fuori dalla lotta, finisce per trasformare in personale ogni battaglia. Forse il segreto del personaggio sta tutto in un frammento di film che Susan Turner, che lo ha sostituito nell’esercito e intreccia con lui una bizzarra ma coinvolgente relazione a distanza, ritrova nelle sue valutazioni. Una reazione di un bambino di sei anni che, mentre gli altri mostrano paura, impugna un serramanico e si prepara ad affrontare un mostro. Non importa che sia di celluloide. È il tratto psicologico di Reacher a stupire. Reagire, combattere, non accettare soprusi. Sempre più eroe western in un’epoca sbagliata. Ma forse Reacher è l’uomo sbagliato nel posto sbagliato. O quello giusto nel posto giusto. Questa volta in una tormenta con solo 61 ore per sventare il piano di un narcotrafficante che ha portato alla luce un segreto vicino a una prigione. Ci sono poliziotti, testimoni, biker, gente comune, gangster messicani e russi. Solo contro tutti, Reacher corre verso il traguardo. Ci arriverà? L’ho conosciuto nel 2006, Lee Child. Molto british, taciturno come il suo eroe. Capace di creare vicende complesse coinvolgenti, ricche di azione ma anche di suspense e umanità. Uno di quei personaggi che compro il giorno stesso in cui li vedo in libreria e me li leggo d’un fiato. Per divertirmi e imparare. Solo, mi rimane  sempre il dubbio che accorciati di una cinquantina di pagine i romanzi di Child potrebbero essere anche più belli, più adrenalinici. Ma se proprio un difetto lo vogliamo trovare. Avercene, cari maestri del thriller italiano…

Lee Child è nato a Coventry, in Inghilterra, nel 1954. Dopo aver lavorato per vent’anni come autore di programmi televisivi, nel 1997 ha deciso di dedicarsi alla narrativa: il suo primo libro, Zona pericolosa, è stato accolto con un notevole successo di pubblico e critica, e lo stesso è accaduto per gli altri romanzi d’azione incentrati sulla figura di Jack Reacher, personaggio definito dall’autore «un vero duro, un ex militare addestrato a pensare e ad agire con assoluta rapidità e determinazione, ma anche dotato di un profondo senso dell’onore e della giustizia». Nel 2019 è stato proclamato Autore dell’anno dal British Book Awards. Lee Child vive negli Stati Uniti dal 1998.

Source: libro del recensore.

:: Recensione di Il Perfezionista di Hervé Le Corre a cura di Stefano Di Marino

4 giugno 2011

3102706Se il marketing e le mode editoriali non imponessero che i thriller ormai abbiano tutti i titoli uguali (Il suggeritore, L’analista, L’ipnotista, L’inseguitore, L’allieva…) e che ogni storia vagamente gotica presenti con qualche variante un uomo con cilindro e bastone, il romanzo di Hervé le Corre avrebbe mantenuto il suo titolo originale L’Homme au lévres  de sapphir ben più suggestivo e una copertina capace di dar vita alla Parigi  sanguinosa, appassionata, ribelle ritratta in quest’opera raffinata, da non confondere con altri gialli d’epoca. L’ambiente è ricreato da Le Corre con sapienza, padronanza di un linguaggio letterario ma che all’occorrenza sa recuperare il nerbo asciutto dei migliori thriller senza dimenticare la passione politica. La Parigi della Comune, dei quartieri malfamati, delle fabbriche, dei locali dove si riuniscono dandy e  prostitute. Un girone dantesco che esercita una strana e ambigua fascinazione sul lettore, proprio come l’opera maledetta che ispira il suo feroce protagonista. Forse non tutti sanno cosa sono I canti di Maldoror, opera in sei parti pubblicata ma subito scomparsa nel 1869, firmata da tale conte di Lautrèamont. Un viatico per il serial killer, un insieme di visioni e delitti raccapriccianti di cui si perse traccia ma non memoria, tanto che il regista Alberto Cavallone (non per nulla attivo in quella fase della cinematografia nostrana più prolifera e libera) trasse un film che pare sia stato montato e programmato in Turchia, almeno parzialmente, e poi scomparve del tutto. Censura, complotto? O forse nelle pagine del Maldoror c’era veramente qualcosa di insano, malato capace con la sua ferocia di anticipare i tempi. La modernità è qualcosa che la gente comune non comprende,un’apoteosi di sangue che conduce a tempi nuovi. Sembra quasi una citazione di From Hell e il richiamo a Jack Lo Squartatore non è casuale. Ma qui siamo in Francia ed Henri Pujol, trasformista, sadico, sessualmente turbato ma soprattutto fanatico ammiratore dei canti, tanto da disprezzarne il vero autore quando questi li rinnegherà. I suoi delitti, compiuti principalmente ai danni di giovani biondi scalpati e sventrati in vari punti della capitale coinvolgono un poliziotto onesto di origine basca, un giovane arrivato a Parigi in cerca di lavoro e riscatto, un paio di prostitute coraggiose e sventurate e tutto un universo che assiste egualmente impotente alle gesta del maniaco come alla ferocia degli scontri di piazza. Benché la fase propriamente politica suoni un po’ troppo sottolineata (per il mio gusto almeno) bisogna riconoscere a Le Corre grande capacità di documentazione e la naturale dote dell’affabulazione. In quegli scontri di piazza che occupano un lungo capitolo sembra proprio di starci in mezzo. Ma è sulla follia omicida di  Pujol, evidente sin da principio, che si concentra l’attenzione del lettore. Non una semplice vicenda di precursori di serial killer ma il diario di un’ossessione. Lo stesso diario che l’assassino perde dopo aver commesso un delitto particolarmente spettacolare a Place Vendome e che costituisce un po’ il McGuffin della storia. Libro non facile per contenuti e stile Il perfezionista costituisce una lettura intelligente, ricercata, degna di una seconda riflessione. E, al momento, scusate se è poco.

Hervé Le Corre vive nella regione di Bordeaux, dove insegna. Autore molto apprezzato, ha vinto numerosi premi tra cui il Prix Mystère, il Prix du roman noir Nouvel Obs/Bibliobs e il Grand Prix de Littérature policière. Con Il perfezionista (Piemme 2012), che in Francia ha venduto più di 50.000 copie, ha ottenuto il prestigioso Grand Prix du roman noir français di Cognac e il Prix Mystère de la critique. Dopo la guerra ha vinto il Premio Le Point 2014.

Recensione di La lingua del fuoco di Don Winslow a cura di Stefano Di Marino

14 gennaio 2011

La lingua del fuoco di Don WinslowDon Winslow è sicuramente uno dei più significativi autori di thriller di questi anni. In attesa di leggere Satori , seguito del magnifico Il ritorno delle gru (Shibumi) di Trevanian accontentiamoci della riproposta di alcuni suoi lavori risalenti alla fine degli anni  ’90. Accontentiamoci… espressione certamente non adatta  visto che di romanzi cosce ne vorrebbero a vagoni ai giorni nostri. Certo, La Lingua del  fuoco è in qualche modo un’opera minore se paragonata al Potere del Cane e anche di  L’inverno di  Frankie Machine…ma possiede una forza raramente riscontrabile nei thriller letti negli ultimi tempi. Una  menzione di merito va anche alla traduzione di Alfredo Colitto che si districa con abilità e perfetto controllo del linguaggio anche in quelle sezioni di ‘ police procedural’ riguardanti i tecnicismi di un’indagine su un incendio doloso. Ma il fulcro non sono questi capitoli che,a a prima vista possono sembrare sin troppo specifici. Winslow riesce a stupire cambiando meccanismi e  spunti a ogni libro pur restando se stesso, con le sue passioni(il surf prima di tutte) e un certo disincantato romanticismo che accomunano  Bobby Z, Frankie Machine, Boone Daniels e Jack Wade. In fondo il mondo si restringe a una tavola che cerca la Grande Onda… sin dai tempi di Un mercoledì da leoni e Point break. È una mitologia a sé che, ben sfruttata, fa già metà del romanzo. L’altra metà è la capacità di costruire un intreccio che  pare dipanarsi in mille rivoli ma poi è saldamente in mano all’autore. Tanto che il gioco di fili che ti portano in una direzione e ti lasciano a bocca aperta perché tutto si ricollega e la storia subisce un capovolgimento che ribalta la situazione da una pagina all’altra , si ripete diverse volte nel corso di una vicenda. Questa si presenta come un ‘semplice’ thriller centrato su un omicidio celato da  incendio accidentale. Ma entrano in scena gangster, traffici interraziali, frodi assicurative, un panorama variegato di personaggi che recitano tutti la loro parte per avvincere,stupire. E Winslow non sbaglia un passaggio, non perde una sola occasione per toccare le corde che il lettore vuole sentir vibrare. E così anche in una lunghezza inusuale per un thriller tutto tiene, tutto ti costringe a leggere una pagina…una ancora. E non è il vetusto stereotipo del page turner. Lingua di  fuoco regala davvero momenti memorabili, emozioni. E ,forse, è in grado di insegnare qualcosa a tanti presunti noiristi nostrani che credono dispare già tutti. Maestro Winslow in cattedra… noi sediamo attenti e ammirati

Stefano Di Marino

:: Recensione di Il professionista: Morte senza volto di Stephen Gunn (Mondadori Segretissimo 2010) a cura di Giulietta Iannone

8 novembre 2010

Morte senza voltoChance Renard è tornato su Segretissimo, la collana della Mondadori dedicata alla spy story e all’action thriller, dai primi di novembre in tutte le edicole in Il professionista: Morte senza volto, nuovo romanzo di Stefano Di Marino, per la precisione il 29° dedicato al Professionista, firmato con lo pseudonimo di Stephen Gunn. La spy story non è mai stata così dura, cattiva, senza regole. L’azione riprende dove terminava Guerre segrete, episodio uscito questa estate in Supersegretissimo speciale che la Mondadori ha dedicato ai 15 anni del Professionista, e vede il nostro eroe alle prese con nuovi nemici sempre più spietati, feroci, inesorabili. Ma anche Chance non scherza, è pronto a sporcarsi le mani assieme ai suoi fidati alleati e alla bellissima Antonia Lake, personaggio femminile decisamente originale rispetto alle eroine dei romanzi di genere in un certo senso vicina all’affascinante killer Nikita di Besson, nata nella saga di Vlad apparsa su Segretissimo dove Di Marino si firmava con lo pseudonimo di Xavier LeNormand. Di Marino, pur proseguendo una tradizione consolidata e cara a tutta la spy story classica a partire dal fortunato James Bond di Fleminghiana memoria dove agenti segreti affascinanti, in smoking elegantissimi,  sempre intenti a sorseggiare Vodka Martini agitati non mescolati, pieni di gadget avveniristici scorrazzavano su auto di lusso con neanche un capello fuori posto, ci mette del suo e sporca l’eroe di umane debolezze rendendolo non un cliché ma un uomo in carne ed ossa, che invecchia, che sanguina se ferito, che piange gli amici morti, non comprimari senza importanza che svaniscono meccanicamente senza lasciare traccia, che mantiene una moralità e una triste melanconia episodio dopo episodio e forse questo è il segreto che ha fatto entrare Chance Renard nell’immaginario collettivo, facendone uno dei personaggi di thriller più amati dal pubblico italiano. O forse c’è dell’altro, individuabile in quel tocco di esotismo che nasce dal profondo amore di Di Marino per l’Oriente, amore non nato unicamente dai libri, dai film, dai fumetti ma vissuto in prima persona in lunghi viaggi che l’ hanno portato a conoscere bene una realtà che traspare con vivido realismo dai suoi libri in cui l’ambientazione è precisa e documentata e non improvvisata. L’amore per l’azione, aggiunto poi ad una sana sensualità ci dona quel valore aggiunto che riporta l’avventura in primo piano facendo del prolifico scrittore milanese un maestro del genere da cui molti giovani hanno imparato lezioni fondamentali sull’arte della scrittura. Ultimo ma non meno importante è la precisa padronanza delle scene d’azione in cui ogni colpo, ogni mossa è sincronizzata e realistica come in un autentico combattimento dettagli che non possono sfuggire agli appassionati del genere e che lo pongono ad anni luce da molti autori anche stranieri. E poi Chance Renard è Stefano Di Marino, mai simbiosi tra autore e personaggio è mai stata così completa e profonda. Che dire d’altro, Chance Renard è tornato e vi aspetta in edicola, non fatelo aspettare che potrebbe arrabbiarsi.

In appendice il racconto “Requiem del coccodrillo” di Serena Bertogliatti.

Stephen Gunn  Il Professionista: Morte senza volto. Segretissimo, novembre 2010. Euro 4,50. In edicola.

:: Gli scrittori parlano dei loro libri: Stefano Di Marino racconta “Quarto reich”

14 settembre 2010

Questo romanzo fa parte di una mia mai sopita passione per le storie avventurose svincolate (almeno parzialmente) da intrighi spionistici o noir. L’ho ripetuto diverse volte, nasco come lettore salgariano, consumatore di film e fumetti di  ‘avventura pura’ e anche nelle mie spy storie più esotiche questo genere di elemento non è mai venuto meno. Intorno agli anni 2000 continuavo a sentirmi ripetere che ‘ non scrivevo storie italiane’, che il mio problema sotto il profilo della promozione editoriale era che la mia vena era troppo ‘ internazionale’. Volete sapere cosa ne penso? Tutte balle… in questi anni ho scritto in egual misura storie italiane e straniere raccogliendo consensi da parte del pubblico e (diciamolo) anche dalla critica, ma evidentemente avevo già l’etichetta di ‘scrittore di  nicchia’ ,quindi il cambiamento di prospettiva non ha convinto nessuno a promuovermi meglio. Poco importa, finché posso continuerò a raccontare le mie… avventure. Dicevamo, in quel periodo, seguendo queste indicazioni, ho scritto una storia avventurosa con forti legami italiani e quel pizzico di ricerca storica che mi sembrava un  buon veicolo per rilanciare il mio lavoro. Il cavaliere del vento ( benché l’editore imponesse quel ‘Steve Di Marino’ con una finta biografia senza praticamente interpellarmi) andò piuttosto bene, tanto da essere ‘libro del giorno’ sul Corriere della Sera e avere una seconda edizione economica e una traduzione in tedesco. Diciamo che si trattava di un’avventura con un vago sapore prattiano (di cui vado fiero). Per lo stesso editore programmai quindi un altro romanzo che, nelle mie intenzioni, si doveva chiamare ‘Inferno verde’. Anche questa era la storia di ‘un italiano in fuga’ e copriva tra flashback e linea narrativa  principale uno spazio di tempo che andava dal 1936 al 1947. Bruno Spada, il protagonista, era un espatriato fuggito dall’Italia fascista a cercar fortunata in Etiopia. Con lo stesso personaggio scrissi anni dopo un racconto Il sogno dello Squalo che fu pubblicato in una prima versione su M, rivista del  Mistero e poi in una versione più lunga e completa in coda a un Segretissimo. La vicenda principale di Inferno verde si svolgeva nel  Congo belga all’indomani della seconda guerra mondiale. Era una vicenda di vecchi briganti arabi, schiavisti, legionari, piantatori e streghe yoruba. L’ispirazione mi era venuta un paio d’anni prima leggendo su National Geografic un bellissimo articolo sulle città-chiatte che risalivano il fiume Congo. Poi avevo letto due episodi della saga a fumetti Equator di Dany e letto diversi libri sull’argomento trai quali ricordo la magnifica navigazione  del fiume scritta da Xavier Reverte, Vagabondo in Africa. Poi, inutile negarlo c’era sempre un po’ di spirito salgariano e, se vogliamo, anche Cuore di tenebra. Però c’erano moltissimi altri stimoli tra i quali un vecchio romanzo di Silverberg (Prince of Darkness sugli schiavisti del XVII secolo in Africa occidentale) , le memorie di mio zio prigioniero in Indukush durante la seconda guerra mondiale dopo la cattura avvenuta a Bardia e la Bologna dove vive una parte della mia famiglia. Proprio ripescando tra i ricordi di quelle vecchie abitazioni su per via san Frediano avevo ricavato momenti interessanti che si alternavano alle avventure dei miei protagonisti. Un tesoro nascosto, un vulcano in eruzione e sì… anche un gruppo di cattivi nazistiche nutrivano la speranza di far rinascere il Reich con i diamanti trafugati da un vecchio pirata berbero. C’erano poi due personaggi femminili contrapposti nella più pura tradizione avventurosa. Ricordo in particolare la strega mulatta Katalè che forse è uno dei personaggi femminili che   rammento con più piacere. Quindi una storia di guerra e azione ma anche di sentimento e atmosfera legata a un continente magico, selvaggio, primordiale. Non so veramente per quale ragione in casa editrice decisero di cambiare il titolo mettendo una copertina che pareva ‘Mein Kampf’ a meno di un mese dall’uscita con la presentazione già fatta ai venditori. Quando scoprii tutto ciò mi fu fatto subito capire che… o uscivo così o chissà quando. Riuscii a impuntarmi ripristinando alcune parti del testo che un editing a dir poco  demente aveva massacrato ma sull’esteriorità del prodotto niente da fare. Dopotutto avevo un blurb di Lucarelli che diceva ‘Di Marino è sicuramente il più grande scrittore di avventure che abbiamo in Italia”. Quando andai a parlare con l’editor a luglio (il libro usciva a settembre) mi parve che, alla fine, fosse lo strillo la cosa cui tenevano di più. Poi a settembre scopro che l’editor non c’è più, l’ufficio stampa non fa una cippa per pubblicizzare l’uscita, insomma, come al solito, quel poco che ho potuto fare l’ho fatto da solo. Fine dei rapporti con quell’editore. Salvo poi ogni tanto sentire qualche lettore che mi segnala di aver visto pacchi del mio romanzo in qualche autogrill di una sperduta autostrada… avventure anche queste. Se si fa questo lavoro bisogna esserci preparati. Di fatto credo rimanga uno dei miei romanzi più avventurosi e ricchi di passioni, di storie che rimandano ad altre storie, di atmosfere, di personaggi di suggestioni. Non per nulla Andrea Carlo Cappi lo apprezzò moltisismo (e del suo giudizio mi fido più di chiunque altro) e lo avrebbe voluto rifare in Alacràn con il titolo ‘Il tatuaggio di sabbia’ molto più adatto e magari con una copertina consona. Poi come sono andate le cose in Alacràn lo sapete. Di fatto i diritti sono ancora miei e non è detto che ‘Inferno verde’ o comunque lo si decida di chiamare non possa  avere una seconda vita. È una storia dei tempi passati, di avventurieri e affascinanti fattucchiere, di tesori, vendettem amicizia e sortilegi… sono storie che non invecchiano mai.

 

:: Recensione di Vita dura per le canaglie di Andrè Héléna (Aisara 2010) a cura di Stefano Di Marino

30 agosto 2010

vita dura per le canaglieSembra di vederlo ancora Lino Ventura nei panni di Maurice, simpatica canaglia che per vendicarsi del tradimento della sua ‘bella’ spara a lei e al suo amante, facendo secco anche un altro personaggio che si trova sulla sua strada in piena Parigi occupata dai Nazisti. Disgraziatamente il ganzo della fanciulla è un collaborazionista e l’altro morto accoppato fa parte della struttura spionistica dei tedeschi. Così comincia una fuga disperata verso non si sa bene dove, sempre con la pistola in pugno, coinvolgendo un amico e altri personaggi incontrati per strada. Coincidenze, colpi di scena, un’azione che non si ferma mai e porta il nostro a diventare un sicario per la resistenza. Con una ambiguità personale di fondo che  porta Maurice a camminare sul filo della sua convenienza e il patriottismo scoperto. Conoscevo già Héléna, autore prolificissimo, forse a torto (o magari anche con qualche ragione…) accusato di non star troppo a lambiccarsi sulle trame o quantomeno sulla pagina pur di dar sfogo alla sua creatività. Siamo della stessa gang, alla fine… Scherzi a parte l’ottima traduzione di Zucca, appassionato cultore del filone, rende tutta la canagliesca energia di questa storia che, rispetto ad altre dello stesso autore, ha un respiro (e troverà anche un seguito di prossima pubblicazione… in Il festival dei cadaveri) che le conferiscono un sapore epico. Proprio come quei vecchi film che ci piacevano tanto anni fa… Un modo di scrivere il nero europeo con vigore, passione e una strafottenza buscaglionesca che se la ride di certe correttezze politiche che, oggi, non fanno altro che legare mani e piedi a eroi che hanno bisogno di sganassoni e faccia dura per sopravvivere e appassionare.

André Héléna, autore maledetto, dalla personalità controversa, considerato uno dei maestri del noir francese, scrive centinaia di romanzi molti dei quali sotto pseudonimo. Nato nel 1919 a Narbonne, si trasferisce giovanissimo a Parigi, partecipa alla guerra civile spagnola e, sul finire della seconda guerra mondiale, nel 1944 si unisce per un breve periodo alla Resistenza. A causa di una banalissima vicenda di debiti e firme false finisce per qualche mese in carcere, esperienza che avrà una grande influenza nella sua produzione letteraria. Si guadagna da vivere passando da un lavoretto all’altro (non ultimo il rappresentante di insetticidi…) e, a quanto si racconta, vende anche i propri libri porta a porta. Nel periodo a cavallo fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta raggiunge un considerevole successo. Nel 1972, minato dall’alcolismo, muore a 53 anni.

:: Intervista a Stefano Di Marino a cura di Giulietta Iannone

7 febbraio 2010

Stefano Di Marino

LdS Benvenuto Stefano su Liberidiscrivere. E’da tanto che volevo intervistarti. Sei uno dei pochi autori italiani specializzati in noir d’azione. Presentati ai nostri lettori, tuoi pregi e tuoi difetti.

SDM- Ciao a tutti. Presentarmi? Sono uno che da ragazzo sognava di trasformare il suo hobby in un lavoro. Adesso che ci sono riuscito ho scoperto di non sapere fare altro. Un po’ come Il Professionista, il mio personaggio più fortunato… solo che a differenza sua non devo alzarmi tutti i santi giorni e sparare a qualcuno. Quindi direi che è andata meglio a me che a  Lui… (Sorride)

LdS- Parlaci della tua Milano. Ami l’Italia o preferisci i luoghi esotici?

SDM- Sono cresciuto con Salgari, il mito dell’Oriente dove ho effettivamente passato parecchio tempo, le arti marziali e tutto quel genere di mitologia. Poi, quasi per caso, anni fa, ho scoperto che anche la mia città è un ottimo set per le storie che racconto. Milano. Gangland. Ormai la città di Chance Renard, il Professionista, da diversi anni. Ma anche la mia. Ci sono cresciuto ne ho letto la cronaca ma soprattutto ne ho studiato la geografia criminale. Ho girato le sue strade di giorno e di notte. Studiando la gente, guardando le facce, le vie buie che non finiscono mai. Quelle belle e quelle meno La Milano da bere, delle modelle, della coca, dei salotti buoni. Ma anche la Milano dei tunnel della Stazione, dei binari morti, dei giardinetti striminziti dove si vende di tutto e tutti. La città dei film di Di Leo, di Lenzi, di Martino dei romanzi di Scerbanenco, la Milano degli anarchici, dei centri occupati, delle mille mafie extracomunitarie, della mala italiana che dal Sud è venuta qui a spartirsi il bottino,  la città delle lucciole, dei trans in guerra tra loro, del ‘ tutto a posto e niente in ordine’.  La città dei banditi famosi, della rapina di via Imbonati, dei quartieri cinesi, della casbah, dei bastioni dove i ragazzini romeni si mettono in vendita così, come se fosse normale. La Milano dei pornoshop, dei centri massaggi, dei club privè, delle catene di pizzerie che nascono come funghi e spariscono il giorno dopo per coprire chissà quali riciclaggi, delle palestre, dei bodyguard, del recupero crediti fatto da pugili falliti. Degli assassini e dei maniaci. Dei disperati e di quelli che annegano qualsiasi cosa in un bicchiere d’alcol. Gangland. Senza legge, senza ordine, senza una logica.

LdS- Ti sei laureato in Giurisprudenza, poi invece di fare l’avvocato hai scelto di fare il narratore. Come è nato il tuo amore per la scrittura?

SDM- Ho cominciato a scrivere a dodici anni e da allora non ho mai smesso. Già leggevo moltissimo. La laurea in Giurisprudenza è stato un errore di percorso, me ne sono accorto che ero a metà del cammino. Erano anche altri tempi. Se non mi fossi laureato chi lo sentiva mio padre? Però ho sempre cercato di lavorare nel’editoria, campo di cui non sapevo nulla di concreto. Poi, sbagliando, si impara.

LdS- Cosa leggevi da ragazzino, quali sono state le tue letture di formazione?

SDM- Salgari e London, nelle versioni per ragazzi, montagne di fumetti di ogni genere. Poi sono passato a Fleming, a Segretissimo e ai grandi Western… così ho scoperto molti autori, poi è venuto McBain che era un maestro per chiunque volesse imparare a scrivere. Diciamo una formazione eterogenea…

LdS- Raccontaci una tua giornata tipo dedicata alla scrittura.

SDM- Io lavoro a tempo pieno nell’editoria. Di solito la mattina, dopo aver risposto alla posta, e navigato un po’ tra i vari siti che trattano del mio settore (che cominciano a essere davvero tanti…) traduco per un paio d’ore… diciamo cinque o sei pagine quasi definitive. Poi a pranzo… sport… nuoto, abitualmente. Riprendo il lavoro con una sessione di scrittura di un paio d’ore o qualcosa di più. Diciamo anche qui 5 pagine complete. Tutti i giorni. La costanza e la continuità sono importantissime. Quel che resta tra attività di promozione e letture. Non lavoro mai dopo cena se non per eventi quali presentazioni e corsi di scrittura.

LdS- Sei stato definito uno scrittore prolifico e instancabile, ed effettivamente hai scritto tantissimo spaziando  dal thriller, al noir d’azione, all’horror . Dove trovi tutta questa energia?

SDM- Nella passione per quello che faccio. Personalmente ho una formazione marziale, quindi sono un ‘padrone’ abbastanza rigido. Scrivere è un mestiere, bellissimo, ma richiede dedizione. Tutti i giorni, un po’ , ma tutti i giorni. I libri non si scrivono da soli….

LdS- Raccontaci i tuoi esordi. Quando hai avuto nel
le mani il tuo primo manoscritto ultimato come hai trovato un editore? C’è qualche talent scout che ti ha scoperto?

SDM- Come dicevo ho scritto sin da giovanissimo. Un sacco di romanzi e racconti finiti ma non rivisti. Ho cominciato a cercare di pubblicare intorno ai 25 anni collezionando una serie di porte in faccia micidiali. Però ho iniziato con qualche articolo, un raccontino qui e uno là, e sempre avanti a rompere l’anima a editor e a chiunque avesse contatti con l’editoria. Contate che negli anni ‘80 non c’era internet e tutto diventava più lento. L’occasione buona venne per testardaggine e per fortuna. Scrivevo per la rivista Febbre Gialla di Massimo Moscati che collaborava con il Giallo Mondadori ed era amico di Orsi allora proprietario della Libreria del Giallo. Un pomeriggio ci incontrammo di persona proprio in libreria. Mi disse che stava curando un progetto per gli Oscar, Nero  Italiano. Mi chiese se mi andava di cimentarmi. Certo, non era una spy story internazionale ma una vicenda  milanese con parecchi paletti imposti dall’editore. Ma l’idea del thriller ambientato nel quartiere cinese gli piacque. È cominciata così…. Per il sangue versato, 1990.

LdS- Io sono una lettrice istancabile di Segretissimo, scaffali interi della mia biblioteca sono pieni di quei libri sottili dalla copertina nera, quali pensi siano gli autori migliori?

SDM- Molto piacere che tu lo dica… sfata il mito che Segretissimo sia solo una lettura maschile. Diciamo che Segretissimo ha sempre proposto la spy story nella sua versione più dinamica e avventurosa. Tra gli autori del passato sicuramente Jean Bruce, Nick Carter e Donald Hamilton (quello di Matt Helm). Il migliore di tutti per me era comunque Aarons che era anche un grande giallista. I romanzi di Sam Durrell sono ancora oggi trai migliori. Poi c’è SAS di de Villiers che è un po’ un caso a parte perché ha trovato una variante del  modello Bond inserendo l’attualità realistica e il sesso hard che prima non c’erano. Dal 1965 a oggi 180 episodi (non tutti scritti da lui) : bel record. Poi mi piaceva molto Phil Sherman di Don Smith. Ma c’erano moltissime serie valide che spesso hanno ispirato il cinema da Coplan di Paul Kenny a Domino di John Tiger.

LdS- Hai letto Balkan Bang di Al Custerlina? Se sì, che ne pensi?

SDM- Certo. Lo presi all’uscita perché già dal titolo mi ispirava. Poi ho conosciuto Alberto. Abbiamo fatto anche diverse presentazioni assieme e siamo diventati amici. Abbiamo una affinità di visione per quanto riguarda questo genere di storie. Mi fa molto piacere che Balkan Bang sia stato pubblicato anche su Segretissimo e naturalmente aspetto di leggere Mano nera che dovrebbe uscire entro questa estate.

LdS- Oltre a scrivere romanzi scrivi anche racconti, nella brevità è più difficile essere incisivi e completi, che tecniche usi per scrivere buoni racconti?

SDM- Ho esordito con i racconti ma la mia passione sono gli intrighi lunghi. Però ho riscoperto il piacere del racconto di media lunghezza proprio nell’ultimo anno. Prima di tutto devo dire che mi fa piacere che si siano aperti più spazi per questo tipo di narrativa che ritengo utilissima per farsi conoscere al di fuori del proprio pubblico abituale. Lo schema di lavoro è identico a quello del romanzo, a volte i fatti si sviluppano intorno a una singola idea. Il racconto , dopotutto, vive intorno a una trovata. Mi trovo a mio agio sulla lunghezza che va dalle 30 alle 60 cartelle perché ho comunque la possibilità di sviluppare una trama. Però ho scritto anche racconti di una pagina come nel caso dell’antologia 365 racconti erotici che uscirà per Delos, in cui era richiesto un racconto di 2000 battute, una pagina. Lì sì che ci vuole l’idea fulminante.

LdS-Fai parte della redazione della rivista fantascientifica Urania. Quali sono i tuoi scrittori di fantascienza preferiti?

SDM- In realtà ho cominciato a lavorare nella redazione di Urania, 20 anni fa… non ne faccio più parte dal  ’94, ma ho mantenuto buoni rapporti ovviamente con lo staff. Devo ammettere che la mia cultura fantascientifica è più cinematografica che letteraria. Per me la fantascienza è Alien e seguiti, Blade Runner, Matrix… narrativamente trovo interessanti i romanzi di Gibson ma credo che il mio punto di riferimento in merito sia Herbert con la saga di Dune. Ricordo poi Lucius Shepard, in particolare  Settore Giada e Kalimantan, una storia sul mondo magico del Borneo che mi  ispirò moltissimo… Ovviamente per lavoro ho letto i classici da Asimov a Phol, Strugeon e molti altri, però non è che mi abbiano lasciato moltissimo. Nel campo del fantastico sono più orientato sull’horror dai classici gotici passando per Lovecraft via Matheson, Block, McCammon e Simmons che trovo eccezionale nei romanzi  horror(I figli della paura, L’Estate della Paura, il Terrore, e Drood che è ancora inedito ma è una ricostruzione dell’epoca dickesiana in chiave horror veramente eccezionale) mentre mi piace di meno quando scrive di fantascienza.

LdS- Stefano Di Marino e la critica. Più gioia o dolori? Quale è la recensione che ti ha fatto più felice leggere?

SDM- Ho sempre avuto critiche positive ma agli editori la cosa sembra interessare poco. Un funzionario di una casa editrice una volta mi disse… ‘bella la recensione di Pacchiano sul Sole 24 ore (si parlava Ora zero, Nord) ma quante copie ti ha fatto vendere?’ Ne ricordo una molto positiva di Lacrime di Drago sul Manifesto, poi alcune di Asciuti su Pulp. Tante comunque. Ricordo con piacere quelle in cui ho capito che il recensore aveva letto il romanzo… Sic transit gloria mundi… preferisco le lettere dei lettori…

Lds- Quali scrittori esordienti ti hanno maggiormente impressionato. C’è un consiglio che vorresti dargli?

SDM- Negli ultimi anni c’è stato un florilegio di nuovi autori. Sono amico di diversi di loro. Tra le donne la più dotata mi sembra sicuramente Barbara Baraldi, però mi piacciono molto anche i racconti di Cristiana Astori. Ho trovato formidabile anche Les italiens di Enrico Pandiani che non conosco ma credo che diventerà noto. Poi diversi altri…A chi comincia consiglio senz’altro di interrogarsi sulle proprie motivazioni. È un ambiente e un lavoro difficilissimo, non tanto per la parte creativa. Il ‘mestiere’ di scrittore è fatto anche di risvolti meno piacevoli che riguardano i rapporti con le case editrici, con le immancabili frustrazioni che vengono dai rifiuti, dalla cattiva distribuzione… insomma tutte cose che all’inizio si tende a dimenticare eppure sono fondamentali. Se non avete una grande passione e una grande forza di volontà è meglio che scegliate un’altra carriera. Difficilmente diventerete ricchi e famosi con questo lavoro, perciò le soddisfazioni vengono dalla possibilità di raccontare le proprie storie, magari a un numero ristretto di persone, e a volte arrivare a fine mese è dura. Se dopo aver considerato che comunque in Italia si legge poco e che gli scrittori di successo di solito sono persone che hanno già altre fonti di reddito e anche spinte e non necessariamente vi trovate in questa situazione privilegiata… e avete ancora voglia di diventare narratori… be’ ragazzi, dateci dentro. Avete tutto il mio sostegno morale.

Lds- Il libro aperto sul classico comodino?

SDM- Il ventre del lago(Boy’s Life) di Robert McCammon, pubblicato da Interno Giallo. La storia di un ragazzo che vuol diventare scrittore. Nel corso di un’estate vissuta tra le paludi del profondo Sud degli Stati Uniti diventa uomo attraverso tutta una serie di avventure che hanno tutte una spiegazione logica ma potrebbero avere un risvolto fantastico. Ho pianto alla fine. E poi Posizione di Tiro di Manchette, il vademecum del  noir d’azione.

LdS- Puoi parlarci della trilogia di Montecristo? Ti sei ispirato a fatti reali italiani, come Gladio?

SDM- No, per la verità. Volevo scrivere una storia su un colpo di stato in Italia e cercavo uno spunto da molti anni. Poi mi sono ritrovato con una serie di fatti slegati del passato e del presente, suggestioni cinematografiche e reali. Insomma un sacco di cose vere o fantastiche che si intersecavano ed è nata quella storia. Malgrado sia molto lunga , 900  pagine in tutto,  nelle sulle linee guida mi è stata subito molto chiara. E’ un romanzo politico? Forse; è uno specchio distorto ma fino a un certo punto dell’Italia che vedo interno a me e che, per la verità, mi inquieta parecchio. Ma è anche una storia di intrattenimento, di fantapolitica. Certo ci sono dei riferimenti per chi vuole vederli, ma il mio scopo non era quello di lanciare messaggi. Magari suscitare qualche riflessione quando l’eco delle pallottole si spegne.

Lds- Raccontaci un episodio divertente o bizzarro che è accaduto durante una presentazione dei tuoi libri.

SDM- Presentazione di Ora Zero alla FNAC di Milano nel 2005. Mi introduce  Giovanni Pacchiano che è sempre un nome della cultura  italiana, pubblico variegato. L’editore era stato mio compagno di Liceo e aveva chiamato tutta una platea di ex compagni e compagne che io non vedevo da vent’anni. La Milano bene. Poi c’erano amici e colleghi. E poi venne Caterina, una spogliarellista con cui uscivo in quel periodo. Colombiana, una ragazza d’oro. Serissima e un po’ intimidita ma sempre in grado di far girare la testa a tutti. Si siede in ultima fila poi a un certo punto mi saluta timidamente. Impegni. Ho fermato la presentazione per salutarla. “Encandato de su presencia!” Un figurone. Poi, l’anno scorso a Bologna, con Bernardi alla Feltrinelli per la presentazione di Pietrafredda (Perdisa) presentavamo anche il romanzo di Angelo Marenzana. Bel pubblico. Arrivano poi una serie di mie affezionati lettori. Alcuni li conoscevo solo via internet, altri di persona. Uno aveva la maglietta del  Punitore con il teschio. Un altro arriva tutto fico, abbronzatissimo, altri con le facce da duri. Si arroccano in prima fila. Guardo Luigi e gli dico: “I tatuati sono la mia gang”. E Luigi che mi conosce da vent’anni e sa che sono rimasto quello di una volta sospira e sorride. “Lo so”, mi dice. Poi ci sarebbe da scrivere un libro su tutto quello che è successo e succederà ancora al Sud di Milano con Pinketts e Cappi. Il Sud ci ha regalato emozioni uniche. Sigari, alcol, ragazze, tipi strani. Gangland, come dicevo prima.

LdS-Ci sono progetti cinematografici tratti dai tuoi libri?

SDM- Al momento no. Per il sangue versato  fu opzionato dal cinema e pagarono anche un sacco di soldi di anticipo. Mi ci comprai la macchina. Ma non se ne fece nulla. In realtà ho l’impressione che le mie cose non siano adatte alle produzioni italiane attuali né per il cinema né per la Tv. Negli anni ’70 forse…

Lds-Quali sono i tuoi scrittori preferiti e quelli che ti hanno maggiormente influenzato?

SDM- Come ti dicevo da ragazzo tutti gli autori avventurosi da Salgari a  Fleming passando per McBain. Di sicuro agli inizi degli anni ‘90 la lettura di Ellroy(Dalia Nera e Il Grande Nulla in particolare) mi hanno aperto delle prospettive nuove. Sono comunque un grande consumatore di pulp, nel senso migliore. Robert B. Parker, Richard Stark, LeBreton, sicuramente Manchette, Recentemente ho riscoperto Huges Pagan e ho letto con grandissimo piacere il romanzo che Oliver Marchall ha scritto con David Defendi dalla sua serie Braquo. Tra gli italiani Scerbanenco e… sì lo so che è un autore di fumetti, ma mi ha influenzato moltissimo,  Magnus (Roberto Raviola) dello Sconosciuto e dei Briganti. Un grande artista, un grande Uomo, che ho avuto anche il piacere di conoscere. Credo manchi a tutti…

Lds-Sei un appassionato d’oriente e un cultore d’arti marziali. In cosa pensi queste passioni abbiano influenzato la tua scrittura?

SDM- Per me arti marziali, scrittura, fotografia fanno parte del mio modo di esprimermi, non c’è una linea di demarcazione. Una volta ero un praticante ossessivo se non  bravissimo… insomma come per la scrittura… talento sicuramente un po’, ma moltissima passione e perseveranza. Oggi  gli anni sono passati ma lo spirito resta quello.

LdS- Sempre parlando d’arti marziali, argomento che mi appassiona, pensi che chi pratica queste discipline abbia un’ autodisciplina e un rigore morale maggiore anche fuori dalle palestre?

SDM- Ne parlavamo prima. Io credo nella autodisciplina che è il contrario della disciplina. È una cosa che scegli di seguire da solo, non ti viene imposta. Sei tu il tuo maestro. Il più severo a volte.

LdS- Ci sono errori che hai commesso nella tua carriera che oggi grazie all’esperienza non commetteresti più?

SDM- Eh, ho un brutto carattere, combattivo, indipendente… per emergere , paradossalmente, bisogna stare nel branco… no, sinceramente ho sicuramente fatto delle scelte sbagliate ma alla fine, nelle stesse condizioni, le rifarei. Ti faccio un esempio. Quando cominciai a lavorare in Mondadori mi offrirono un posto da redattore ordinario(non giornalista) a Urania. Il funzionario che mi fece il colloquio mi disse che era un lavoro da frustrati ma io dovevo guadagnare e accettai. Di certo non avrei retto più di quattro anni, però ho conosciuto un sacco di persone, ho visto come ‘ si fanno’ fisicamente i libri e sono state lezioni importantissime. Poi, anni dopo, mi sentii dire che dovevo scontare di aver cominciato a lavorare come redattore… in pratica o si comincia a giocare in prima classe oppure si resta sempre nelle retrovie. Ma credo succeda anche nella musica dove ci sono fior di arrangiatori e la gente ricorda solo i divi che finiscono sui rotocalchi… un  po’ il contrario del mito del narratore  che comincia da zero. Però fa anche parte della condizione di scrittore ‘ de genere’ che mi sento attaccata addosso da anni. E va bene così.

LdS- A che libro stai lavorando in questo momento? Puoi anticiparci i tuoi progetti anche futuri?

SDM- In questo preciso momento sto lavorando a una nuova avventura del Professionista ma ho moltissimi progetti. Si lavora sempre con un anticipo di almeno un anno. Ho scritto e consegnato dei racconti  hard boiled, erotici, horror, un manuale di scrittura… stavo lavorando a una sceneggiatura a fumetti presa dal Professionista ma il progetto mi sembra sfumato. Non importa; scrivere è un lavoro che richiede molta volontà e una continua  creatività. Alla fine come diceva Oliver Stone ‘Che si vinca o si perda, non conta. Si gioca ogni maledetta domenica e ogni volta si comincia da capo’. Grazie a te e a Liberi di Scrivere per avermi concesso questo spazio.