Posts Tagged ‘Giulia Gabrielli’

:: Il manicomio dei bambini – Storie di istituzionalizzazione di Alberto Gaino (Edizioni Gruppo Abele, 2017) a cura di Giulia Gabrielli

31 marzo 2017
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«Pericoloso per sé e per gli altri» è questa la definizione lapidaria che segna l’ingresso in manicomio dei bambini raccontati in questo libro. Ma certo ci si chiede come possano essere ritenuti pericolosi dei bambini di tre, quattro o cinque anni. L’internamento, infatti, di solito avveniva ancora prima che i bambini fossero mandati a scuola e spesso su richiesta dei genitori stessi che, non avendo altre possibilità, ricorrevano al sistema degli istituti per poter garantire ai propri figli un pasto.
Quello di Alberto Gaino non è un saggio storico, critico, distaccato, ma un reportage molto personale e sentito, che intreccia le vicende lavorative dell’autore (che come giornalista aveva avuto accesso ad alcuni dei reparti non ancora chiusi nei manicomi torinesi) con i documenti e le interviste raccolti in anni di lavoro. Anche l’esposizione è fortemente empatica: punta a restituire una storia, una vita, ai bambini che furono internati negli istituti di cura piemontesi negli anni Sessanta e Settanta.
Tutto il lavoro di Gaino si muove nella scia di quell’editoria socialmente impegnata che ha segnato la storia culturale italiana degli anni Settanta: gli scritti di Franco Basaglia, primi tra tutti L’istituzione negata e La fabbrica della follia, e Il paese dei CelestiniIstituti di assistenza sotto processo di Bianca Guidetti Serra e Francesco Santanera, sono questi i saggi che hanno contribuito in maniera determinate al crollo dell’istituzione manicomiale e che sono stati un modello per Il manicomio dei bambini.
La struttura è quella classica del saggio: ad una prima parte sulle condizioni dei manicomi per adulti e per bambini, ricostruite attraverso le testimonianze puntuali della documentazione ed attraverso una lunga intervista ad uno dei pochi bambini sopravvissuti all’internamento; segue una seconda, centrale per argomento e posizione, cruda e dal forte impatto emotivo sul lettore, che raccoglie le storie di otto bambini, tutti internati a Villa Azzurra, l’ospedale psichiatrico per l’infanzia di Torino chiuso nel 1979. La chiusura, infine, è un’interessante terza parte di approfondimento sull’attualità, sulle condizioni psichiatriche dei bambini e ragazzi di oggi, sui casi recenti di plagio e maltrattamento dei minori e sui casi difficili che si presentano nei centri di accoglienza per i migranti.
A quasi quarant’anni dalla chiusura dei manicomi in Italia ci si potrebbe chiedere a cosa può servire un’inchiesta sulle condizioni di vita e di “cura” dei più piccoli dei pazienti di queste strutture. La prima ovvia risposta sarebbe per non dimenticare, per far conoscere (ed è su questo che si concentrano le prime due parti); ma serve, almeno nella mia prospettiva, anche a riflettere sul nostro presente, quando questo sembra avvicinarsi di nuovo, troppo, a quelle situazioni:

La crisi è diventata la giustificazione di nuove e più profonde diseguaglianze che ci riportano indietro di mezzo secolo: se non ai manicomi come Villa Azzurra a tentazioni vecchie, rassicuranti. Il personale dei servizi pubblici è stato tagliato pesantemente, le liste d’attesa si sono allungate in modo impressionante, non si conosce neppure il fabbisogno di richieste per affrontare il disagio mentale della nostra gioventù. Per cui, come si possono programmare gli stanziamenti di risorse e interventi? Si tampona: è la sola politica che si conosce in Italia. Intanto, il diritto alla salute viene silenziosamente cancellato per i poveri – che sono sempre di più – con un’erosione dello Stato sociale che, per i bambini e gli adolescenti, si traduce nell’azzeramento di ogni possibile progetto di prevenzione.

Alberto Gaino, giornalista per il Manifesto negli anni Settanta, dal 1981 ha lavorato prima per Stampa Sera e poi per La Stampa; si è occupato di cronaca giudiziaria, seguendo le maggiori inchieste della magistratura torinese. Dal 2013 è in pensione. Autore di Falsi di stampa, Eternit, Telekom Serbia e Stamina (Edizioni Gruppo Abele, 2014).

Source: gentilmente inviato al recensore dall’ufficio stampa dell’editore per la recensione.

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:: Altrisogni vol. 3 – Antologia di narrativa fantastica (dbooks.it, 2016) a cura di Giulia Gabrielli

10 febbraio 2017

dbA qualche lettore appassionato di Lovecraft o di horror, fantascienza e fantasy classico americano potrà suonare già familiare il progetto della rivista Altrisogni: creare uno spazio per quelli che sono stati a lungo dei generi molto apprezzati dal pubblico, ma anche molto ignorati dalla critica. Un percorso già intrapreso dalla storica Weird Tales, la rivista pulp statunitense di racconti horror e fantastici nata nel 1923, che ha avuto tra i suoi più assidui collaboratori proprio il suddetto H.P. Lovecraft.
All’horror, alla fantascienza e al weird si aggiunge in questo terzo volume della rivista italiana anche il fantasy, arrivando a coprire praticamente ogni sfumatura dell’immaginario fantastico, di quei mondi “diversi dal nostro ma specchio del nostro”.
I sette racconti dell’antologia oscillano tra il mondo post-apocalittico della La lunga notte del ladro di ricordi, in cui un’eterna notte avvolge il mondo e esseri umani de-evolutisi in bestie cannibali vanno a caccia degli ultimi sopravvissuti, alla distopia classica di Furore, in cui l’umanità ormai del tutto apatica viene rifornita di emozioni in pillole da sette multinazionali, ognuna delle quali sintetizza un’emozione.
Il fantasy si divide tra il brevissimo Mordred, quasi un esercizio di stile sulla mitologia del ciclo arturiano che attraversa i pensieri e le tappe salienti della vendetta del giovane sul proprio padre (e per il quale per completezza consiglio anche l’omonima canzone Mordred dei Blind Guardian da ascoltare) e il più lungo Figlio di canti. Quest’ultimo, oltre ad essere un fantasy molto più classico e tradizionale, con abbondanza di magia e battaglie nonché con protagonisti di razze differenti, è stato anche uno dei racconti che ho più apprezzato per il sottotesto: in un mondo morente, reso sterile dalla contro-magia salmodiante degli Scribi, l’unica speranza è rappresentata da un bambino, l’ultimo Cantore, l’ultimo bardo, che dovrà continuare a narrare la storia di quel mondo per ridargli vita. Il tema è un classico nello studio delle “lettere” dalla Bibbia, a Platone, al filosofo francese Derrida: la lettera scritta, la ripetizione senza la comprensione, è sterile, è morte; solo la parola viva ha valore.
E infine “L’Orrore! L’Orrore!”, come dicevano Conrad e Dylan Dog. Un horror comico-grottesco in Hell Express – Consegna per l’Inferno, in cui lo sboccato e cinico protagonista, per evitare la dannazione, accetta di diventare l’autista di uno dei camion che portano ogni giorno le anime all’Inferno. Più classici invece Dietro il frigorifero, con la lenta, soprannaturale e spaventosa consunzione che colpisce la compagna della protagonista, e Veduta di Carcosa, che con un colpo di genio fantastico, che coinvolge anche il pittore Giorgio De Chirico, ambienta la mitologia lovecraftiana dei Grandi Antichi nelle nebbie della campagna padana.
Entrambi i racconti hanno, infatti, proprio il merito di saper rendere sottilmente inquietante anche qualcosa di vicino e conosciuto: in questo tipo di narrativa di solito, anche se è di un autore italiano, si tende a dare un’ambientazione americana, o perlomeno “straniera”, sia perché quella è l’ambientazione più diffusa, sia perché sembra più semplice e meno inverosimile credere a qualcosa di spaventoso se si trova in un luogo che non ci è familiare. Ma non è assolutamente questo il caso (le protagoniste di Dietro il frigorifero potrebbero essere le vostre vicine, i casolari sperduti della Bassa potrebbero essere quelli davanti a cui passate per andare al lavoro) e il risultato è davvero godibile.

Altrisogni è una rivista digitale nata nel 2010 per creare uno spazio per gli scrittori italiani di horror, fantascienza e weird e per i lettori appassionati del genere fantastico, con l’obbiettivo di fornire racconti appassionanti e curati, notizie sul fantastico e consigli per cimentarsi nella scrittura, senza mai soffocare la voce del singolo autore all’interno della collettività, tanto che all’interno dei numeri dell’antologia è possibile trovare un’ampia sezione finale dedicata alla presentazione degli scrittori ed alle loro biografie.

Source: gentilmente inviato dall’ufficio stampa di dbooks.it.

:: Fiera dell’editoria indipendente, Più Libri Più liberi 2016-12-10, a cura di Giulia Gabrielli

10 dicembre 2016

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Più Libri più liberi, la fiera dell’editoria indipendente di Roma che ormai è arrivata alla sua quindicesima edizione, rappresenta un appuntamento fisso e imperdibile per tutto il mondo editoriale, ma soprattutto è un’occasione straordinaria per i lettori di conoscere e scoprire facilmente quei libri che faticano a trovare uno spazio nella grande distribuzione e nelle librerie di catena. Se siete alla ricerca di qualcosa in particolare, di un regalo per un amico, o volete solo curiosare tra gli scaffali è il posto giusto dove passare il fine settimana.
Gli incontri giornalieri sono sempre interessanti e di alto livello, alcuni più tecnici sul mondo dell’editoria italiana, altri più classici, come gli incontri con gli autori o i dibattiti letterari; ma la cosa più bella, almeno secondo me, è la possibilità di incontrare di persona chi con i libri ci lavora tutti i giorni, chi li scrive e chi li crea fisicamente, trasformandoli in oggetti fisici.
Se avete tempo vi consiglierei di fermarvi a fare due chiacchiere con le redazioni ai vari stand: ad esempio, lo sapevate che NN non distingue i suoi libri un collane vere e proprie ma in tematiche? Altri invece, come Iperborea e Voland, hanno scelto di dedicarsi al letterature di paesi di solito meno rappresentati sui nostri scaffali ed altri ancora hanno scelto l’impegno politico come linea guida, come nel caso del Becco Giallo, collana di racconti a fumetti pensati per illustrare ai ragazzi le vicende e i fatti di cronaca che hanno segnato la storia recente dell’Italia.
Ogni casa editrice indipendente, piccola o meno che sia, ha una propria “anima”, una propria particolarità che la guida nella scelta delle pubblicazioni e che vale la pena di essere scoperta e questa fiera è un’ottima occasione di conoscere meglio una realtà varia e multiforme come quella della piccola e media editoria.

:: Fango – Una distopia in pochi atti di Luca Palumbo (Lorusso Editore, 2016) a cura di Giulia Gabrielli

16 novembre 2016
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Matteo Furst e Gino Pilàr sono due operatori del centro di accoglienza per i rifugiati politici, Sakine è una degli ospiti del centro, rifugiata curda; Nanà e Romero sono due ragazzi, lavoratori precari e squattrinati; Dago e Molise sono due amici che si ritrovano allo stesso bar ogni sera. Cosa hanno in comune?
Tutti sono, o sono stati, dei dissidenti, esponenti della sinistra romana: chi più, chi meno, tutti hanno partecipato a qualche protesta, lottato per qualcosa che li ha portati a pestare i piedi a qualcuno di potente. E tutti avvertono negli ultimi tempi un senso di isolamento: i movimenti si sono sfaldati, ovunque sembra aleggiare un senso di depressione e rassegnazione apparentemente immotivata. Sono pochi, sempre più divisi, non hanno più contatti coi compagni e sono stanchi, in balia degli eventi.

Le loro storie si intrecciano in una Roma a noi quasi contemporanea, “duemila e qualche cosa” è l’unica indicazione che abbiamo; mentre i luoghi sono quelli familiari a chi conosca Roma Est: Torpignattara, il Pigneto, via Marranella, l’ex Snia…
Da giorni sulla città si abbatte un temporale incessante e il fango, elemento qui sì concreto e naturale, ma anche fortemente simbolico, invade le strade, completamente abbandonate dall’amministrazione e dai cittadini che, terrorizzati, si chiudono nelle loro case per sfuggire ai rastrellamenti degli uomini del Sindaco.
Il nuovo Sindaco di Roma, un nemico che non si rivela mai, senza volto se non negli incubi e nelle allucinazioni di Matteo, si è messo in moto contro di loro e contro tutti gli emarginati e i dissidenti, gli immigrati, gli irregolari, i gay, i comunisti, i pazzi. Contro tutti gli indesiderati nella nuova Roma città stato.

 «Tutto così in fretta, tutto così inaspettato, grottesco. La distopia non era più un’invenzione. E il mondo intorno non esisteva. Nanà aveva la sensazione che esistesse soltanto quella parte di Roma, sotto assedio, pronta a essere drasticamente rivoltata come un calzino. E niente più. Né il mondo circostante, né il resto dell’umanità. Forse nemmeno il mare.»

La zona della città in cui si svolge tutto diventa come un’isola, come una “zattera di pietra” – che è il titolo di un capitolo ma anche un omaggio all’omonimo libro di José Saramago – staccatasi dal continente e alla deriva, anzi, più che pietra qui ci sono solo terra e  fango. Quest’isola è un ghetto separato dal resto di Roma con presidii e posti di blocco, in cui far confluire e poi sparire tutti gli indesiderati.
I “buoni” sono tutti rassegnati, vinti, senza speranza, braccati, cacciati dalle loro case e annegati nel mare di fango che sta sommergendo la città; ma anche i “cattivi”, per lo meno quelli che come l’ispettore Castracane e la donna magrissima in motocicletta si mostrano di persona, non hanno una reale forma di malvagità, sono altrettanto disperati o disillusi o disgustati della loro vita, con la differenza che hanno deciso di schierarsi con il potere per avere qualcosa in cambio. Sono dei disperati che fanno quanto gli viene ordinato solo per la promessa di una ricompensa futura, della “vita migliore”, lontano da Roma.
Il Sindaco invisibile, i reparti di uomini incappucciati che affiancano la polizia nelle azioni più spietate, persino il vecchio e abietto “palazzinaro” legato al passato di alcuni dei protagonisti: tutti loro invece restano senza volto, senza un nome o senza mai apparire sulla scena, se non nei discordi dei loro sottoposti. Sono loro qui l’incarnazione di un potere malvagio, vendicativo e più grande del singolo individuo che lo esercita, come si addice ad una buona distopia.

Luca Palumbo è nato a Napoli nel 1979, redattore di Laspro – Rivista di letteratura, Arti & Mestieri, ha già pubblicato una raccolta di racconti, Il pianista nano, per 0111 edizioni nel 2009, e il romanzo Un maledetto freddo cane, Lorusso 2012. Con Fango è al suo secondo romanzo, che dovrebbe essere il primo di una trilogia dedicata alla Roma città-stato.

Source: gentilmente inviato dall’ufficio stampa dell’editore per la recensione.

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:: La mia vita con Mr.Dangerous, di Paul Hornschemeier (Tunué, 2016) a cura di Giulia Gabrielli

3 ottobre 2016
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«Di tutte le teste qui… Solo la tua chiede a dei cartoni di essere dei lucchetti»

Amy è una ragazza che ha appena compiuto 26 anni, lavora come commessa in un negozio d’abbigliamento, vive da sola con il suo gatto Moritz, si è appena lasciata col suo ragazzo e per il compleanno ha ricevuto in regalo dalla madre una maglia fuxia con un unicorno.
Ma soprattutto Amy è appassionata, anzi direi proprio ossessionata, da un cartone animato, Mr. Dangerous, i cui personaggi sono diventati un filtro e un veicolo per i suoi pensieri e sogni (ad occhi aperti e non) e anche un metro di valutazione nelle sue relazioni con gli altri.
Le relazioni di Amy con gli altri sono difficili, è spesso sola, incastrata in un lavoro poco gratificante e al di sotto delle sue capacità: solo con la madre sembra avere un legame stabile, ma si tratta comunque di un rapporto in cui è più quello che non si dicono a riempire i loro pranzi assieme. La madre infatti è una donna dolce, affettuosa, che ama profondamente la propria bambina, ma anche stanca, sfinita da un lavoro che non ama (lo stesso di Amy) e dall’età.
I rapporti con gli uomini poi sono ancora più disastrosi: del padre non c’è proprio traccia, se non per un cenno al fatto che abbia lo stesso umorismo di Amy; mentre cinque/sei relazioni si sono susseguite nella vita della ragazza, ma senza trovare mai qualcuno con cui poter davvero condividere qualcosa, relazioni che alla fine l’hanno lasciata ancora più sola, piena di complessi col proprio fisico e insicurezze.
L’unico vero legame profondo di Amy è con Michael, l’amico lontano, trasferitosi a San Francisco, presente però solo come una voce al telefono e mai nemmeno inquadrato in una vignetta. Una presenza insomma che si fa sentire soprattutto per la sua assenza. Michael condivide con lei lo stesso amore per Mr.Dangerous, per le avventure folli e i racconti strampalati, lo stesso tipo di umorismo; ma è lontano, spesso irraggiungibile al telefono. E anche Michael fa parte dell’immaginario di Amy, proiettato nel suo “teatro mentale” sotto forma di un gatto nascosto dietro una barba posticcia.
Michael è a tutti gli effetti il centro delle relazioni di Amy, la persona che più influenza le sue giornate, ma è un centro lontano, fuori dalla sua vita quotidiana per colpa della distanza.
La solitudine e i silenzi della vita di Amy sono ingabbiati in una griglia regolare, fatta di vignette dalla suddivisione classica, e in un disegno pulito, preciso, dal tratto un po’ “morbido”. I colori, senza sbavature o effetti di chiaro-scuro eccessivi, restano sempre tenui, mai carichi o saturi se non per certe scene oniriche in cui Amy trasforma se stessa in un personaggio del cartone di Mr. Dangerous e che finiscono con l’essere i momenti di introspezione più veri della ragazza.

Paul Hornschemeier è autore completo delle sue opere: testi, disegni e colori. Nato nel 1977 da genitori avvocati, cresciuto nel sud dell’Ohio, in una piccola città, le sue opere, famose per smascherare i meccanismi con cui si mente a se stessi, sono state tradotte in molte lingue e gli sono valse diversi premi, tra cui tre Eisner (Best Limited Series; Best Writer/Artist; Best Coloring). Ha lavorato con la Dark Horse che ha pubblicato il suo primo fumetto, Mother, come home, nel 2004 e con la Marvel per la quale ha colorato e diretto una mini serie.
La mia vita con Mr.Dangerous, 2011, è stato inserito tra i New York Time Best Seller.

Source: inviato dall’ufficio stampa di Tunué

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:: Sherlock : un uomo, un metodo di Arthur Conan Doyle (Rogas Edizioni, 2016) a cura di Giulia Gabrielli

30 luglio 2016
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Di libri di e su Sherlok Holmes se ne possono trovare a centinaia: edizioni di diverse case editrici delle opere di Conan Doyle, saggistica specifica, o recentemente, anche romanzi di altri autori ma sempre con protagonista Il Detective.
Per non parlare della sterminata filmografia, delle trasposizioni a fumetti, delle serie tv e tutte le riprese possibili e immaginabili, più o meno apprezzabili, del personaggio.
In tutto ciò pare difficile trovare ancora qualcosa di inedito (in Italia) su Holmes, eppure è quello che è successo con questo libro, che raccoglie quattro nuovi testi di solito considerati extra-canonici: una piece teatrale, due racconti brevi e uno schema per un racconto mai sviluppato.

Il primo testo, a mio avviso il più curioso, è un’opera teatrale andata in scena nel 1910, La banda maculata: non è la prima rappresentazione teatrale su Holmes, ma è la prima (e l’unica) scritta interamente da Conan Doyle. L’opera riprende il racconto La fascia maculata – in Le avventure di Sherlock Holmes – e ne amplia i personaggi, approfondendo alcune parti del racconto e affidando al dialogo tutta la forza della narrazione. Per chi conosce bene il racconto originale può essere quindi una bella occasione per fare un confronto e scoprire dei dettagli in più sulla storia, in particolare per quello che riguarda le scene dell’Atto I nelle quali il nostro detective ancora non compare sulla scena.
Il secondo ed il terzo testo sono più canonici: due racconti, anche se molto brevi. Più che racconti in effetti sono aneddoti, due storie sulla convivenza di tutti giorni di Holmes e Watson, in cui risalta come sempre la forza del metodo deduttivo del detective, che come l’investigatore Dupin di Poe, è perfettamente in grado di leggere il pensiero del suo collega osservandone i gesti e le reazioni (La fiera di beneficienza). Mentre lo stesso non si può dire del povero Watson e del suo tentativo di fare altrettanto (Come Watson imparò il metodo)…
L’ultimo testo, L’avventura dell’uomo alto, invece è una sorta di canovaccio per un racconto, o un romanzo, mai sviluppato dall’autore, ma nel quale si vede bene tutta l’ossatura della narrazione, costruita grazie ad una serie di indizi ben collegati tra loro.

In tutti e quattro i testi comunque resta sempre forte, centrale, la figura di Sherlock Holmes, quello classico, il cinico, freddo, intelligente e lucidissimo analista che ben conosciamo:

«WATSON: Io posso fare ben poco. Ma ho un amico singolare – un tipo dalle strane abilità e dalla personalità geniale. Abbiamo vissuto insieme e ho imparato a conoscerlo a fondo. Holmes è il suo nome – Mr. Sherlock Holmes. Se fossi in voi e dovessi trovarmi in una brutta situazione, chiederei il suo supporto. Se c’è un uomo in Inghilterra che può aiutarvi, quello è lui.»

Arthur Conan Doyle (1859-1930) è, assieme ad Edgar Allan Poe, uno dei padri fondatori del genere del “giallo deduttivo”. Durante il periodo degli studi di medicina inizia la sua carriera come scrittore, con una serie di racconti e romanzi che si avvicinano molto al genere fantastico. Ma è solo dopo una serie di infruttuosi tentativi di lavorare come medico che si dedicherà alla scrittura a tempo pieno, trovando fortuna grazie al personaggio di Sherlock Holmes, che Doyle finì però con l’odiare presto a causa della troppa notorietà del personaggio stesso, che gli impediva di smettere di scriverne per potersi dedicare ad altro.
Numerose infatti sono state le escursioni di Conan Doyle al di fuori del genere giallo verso i lidi del fantastico, del soprannaturale e dell’orrore – e dei quali comunque si trova spesso traccia anche nelle avventure di Holmes.

Source: inviato al recensore dall’ufficio stampa di Rogas Edizioni.

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:: Anime di seconda mano di Christopher Moore (Elliot, 2016) a cura di Giulia Gabrielli

30 giugno 2016
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Un piccolo avvertimento: Anime di seconda mano è in realtà il secondo libro che Moore dedica alle assolutamente folli vicende della vita di Charlie Asher.
Il  che comunque non impedisce di cominciare a leggere senza sapere nulla del libro precedente, Un lavoro sporco (Elliot, 2007), esattamente come ho fatto anche io.

Tra i due libri infatti sono passati alcuni anni e l’autore stesso sembra rendersene ben conto, agevolandoci con delle rapide sintesi degli eventi accaduti:
Charlie Asher era un mercante di morte, incaricato, lui come molti altri, di raccogliere le anime dei defunti e custodirle fino al loro passaggio in un nuovo essere vivente. Fortuna ha voluto poi che sua figlia di sette anni, Sophie,  fosse l’incarnazione in terra della Grande Morte in persona. Cosa che comunque gli è tornata molto utile quando le Morrigan, delle antiche divinità celtiche divoratrici di anime e assetate di sangue, si sono liberate dalle Tenebre per piombare su San Francisco. Sophie è riuscita a vaporizzare le tre donne-corvo, ma non prima che uccidessero suo padre Charlie.
O meglio: ora sappiamo che solo il corpo di Charlie è andato perduto, perché la sua anima in realtà è stata salvata e messa in una creaturina artificiale, un recipiente a forma di bizzarro coccodrillo di trenta centimetri dotato di piccole zampette artigliate, una tunica da mago e un gigantesco pene. Ed in questa forma assolutamente disagevole Charlie si trova a dover affrontare il ritorno delle Tenebre, attirate in città dall’enorme quantità di anime e fantasmi che sono rimasti in giro dopo che lui e gli altri mercanti di morte hanno smesso di fare il loro lavoro.
Il testo di Moore è divertente, pieno di guizzi linguistici, giochi di parole e battute che ti fulminano mentre leggi; è un libro pieno di inventiva, straripante di idee e trovate buffe, un po’ freak, e che all’improvviso vira violentemente verso il grottesco e l’inquietante. Dove il motore della storia è la fantasia dell’autore, che si diverte a mettere insieme dei personaggi improbabili e tutti dalla caratterizzazione fortissima, alle prese con vicende cosmiche e un pantheon di dei altrettanto variegato che mette insieme celti e antichi egizi, cristianesimo e buddismo.
Il vero punto di forza del libro sono proprio, almeno secondo me, i suoi personaggi, particolari fino all’inverosimile e impossibili da scordare: c’è l’Imperatore di San Francisco, un vagabondo senza tetto con i suoi due cani, ex-mastini infernali, che parla in sogno coi fantasmi; Menta Fresca, afroamericano di due metri che veste solo di sfumature di verde menta, mercante di morte anche lui; Audrey, monaca direttrice di un centro buddista con dei capelli cotonati da drag queen, capace di proiettare l’anima di un defunto nei pupazzi creati da lei; e la mia preferita in assoluto, Jane, la sorella di Charlie Asher che dopo la “morte” di lui gli ha rubato tutti i migliori completi dall’armadio e che con la sua compagna è diventata la tutrice della piccola Sophie alla quale è stata capace di insegnare parolacce veramente molto fantasiose.
E in tutto questo si trova coinvolto e sballottolato Charlie Asher, “maschio beta”, naturalmente remissivo e anonimo, alla ricerca di un po’ di equilibrio nella sua vita, di un corpo nuovo e di un modo per evitare la fine del mondo.
Si potrebbe dire insomma che questo libro è costruito un po’ come lo sono alcuni dei suoi personaggi, ovvero le creaturine artificiali del Popolo degli scoiattoli, realizzate dalla monaca buddista Audrey a partire da pezzi di animali e prosciutto per contenere le anime da salvare: tanti personaggi diversissimi tra loro formano un’unica storia, così come le tante parti di animali formano un unico essere vivente; mentre tanti stili diversi (specie nei racconti che i fantasmi fanno in prima persona delle loro vite) sono i tanti materiali diversi che compongono il Popolo degli scoiattoli.

Christopher Moore, nato in Ohio nel 1957, è autore di quindici romanzi, inclusi alcuni come Il vangelo secondo Biff, amico d’infanzia di Gesù o Un Lavoro sporco che hanno avuto un successo internazionale. Prima di pubblicare l suo primo romanzo nel 1992, La commedia degli orrori, ha lavorato come cameriere, fotografo, DJ, portiere di notte, commesso di drogheria e riparatore di tetti, tutte occupazioni che svolgono anche i personaggi di alcuni suoi romanzi.
Al momento vive a San Francisco col la moglie e quando non scrive si rilassa con il kayak o la fotografia.

Source: inviato dall’ufficio stampa al recensore, ringraziamo Giulia dell’ ufficio stampa Elliot Edizioni .

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:: Il quinto figlio, Doris Lessing (Feltrinelli, 2008) a cura di Giulia Gabrielli

31 Maggio 2016
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Il quinto figlio è una storia che inizia come una favola idilliaca, con una giovane coppia che sembra essere destinata a stare insieme fin dal primo sguardo, due giovani testardamente convinti che avranno la felicità che vogliono per la sola forza del loro volerlo, ma il cui sviluppo rasenta la letteratura horror dal momento in cui il sogno verrà a scontrarsi con una forza violenta ed estranea, incarnata in un figlio che sembra essere la punizione alla loro arroganza.

«Harriet e David si conobbero a una festa aziendale a cui nessuno dei due aveva avuto molta voglia di andare, e subito capirono di non aver atteso altro. Antiquati, vecchio stampo, retrogradi, timidi, troppo esigenti, così la gente li definiva, ma non terminava qui la lista degli aggettivi poco teneri che si attiravano. Entrambi difendevano un’idea si sé a cui erano testardamente attaccati; quella di essere, a buon diritto, gente comune.»

Alla festa i due giovani restano in disparte, con un’espressione guardinga, specchio di quella dell’alto, fino a che nello stesso istante si staccano dal loro angolo per andarsi incontro. Un sorriso nervoso, una lunga conversazione e subito decidono di dividere tutta una vita assieme. Harriet e David sono una coppia di ragazzi “all’antica”, legati ad un sistema di valori diverso rispetto a quello dei libertari anni ’60 in cui è ambientata la storia, decisi a creare una famiglia numerosa: una decina di figli e una famiglia allargata, in un’enorme villa a tre piani nella campagna inglese, dove ad ogni festa possano riunirsi tutti i parenti. E nonostante il biasimo dei parenti vanno avanti: riescono ad acquistare la casa, poco importa se dovrà intervenire finanziariamente il ricco padre di David, e in sei anni mettono al mondo quattro figli, anche se Harriet è ormai stremata e solo grazie all’aiuto di sua madre, che si trasferisce a vivere da loro, riesce a badare ai bambini.
Il sogno della giovane coppia riesce a contagiare tutti e il tempo della vita familiare scorre scandito dalle festività (Natale, Pasqua e i mesi estivi), dalle riunioni con genitori, fratelli, cugini e amici nella grande casa e dalla nascita dei figli, in un’atmosfera di felicità assurda, fortissima, quasi un’euforia folle, che presagisce già la sua fine. Harriet infatti è sempre più provata dalle gravidanze, che non sono mai facili e che la lasciano sfinita e nervosa, ma pur volendo assecondare le pressioni della madre e delle sorelle affinché si prenda una pausa prima del prossimo figlio, resta di nuovo immediatamente incinta.
La nuova gravidanza si prospetta subito minacciosa per l’equilibrio della famiglia: il nuovo feto è forte, violento e si contorce scalciando dentro Harriet lasciandola a pezzi, dolorante e impossibilitata a seguire gli altri quattro bambini e la casa; solo con i tranquillanti riesce a tenere a bada il bambino abbastanza a lungo da sembrare almeno normale di fronte ai figli la sera.
Alla nascita le cose peggiorano: Ben, il quinto nato, è un bambino giallastro, grosso, muscoloso, forte, intransigente e duro, un bambino spaventoso, capace di mettere a disagio chiunque lo guardi, se non a scatenare vero e proprio terrore. Ben è violento, incomprensibile, sembra provare felicità solo nel distruggere e nel fare del male, non impara nulla dal contatto coi fratelli e non è in grado di provare affetto nei confronti della madre; è una creatura preistorica, un abitante di un mondo antico e violento che per uno scherzo della genetica è rinato in una famiglia inglese che non è preparata a confrontarsi con lui.
Parenti e amici smettono di visitare la casa mentre la famiglia va in pezzi a causa delle tensioni, della paura e delle decisioni spietate prese per gestire il bambino. Soprattutto quando Harriet si rifiuterà di lasciare il piccolo Ben nell’orrendo istituto dove vengono rinchiusi i figli anormali delle famiglie ricche e che il padre di David aveva deciso di pagare per loro.
Con la sua scelta la madre condanna la famiglia: nega il suo tempo agli altri figli e crea una frattura insanabile col marito, che non riesce ad accettare Ben come “suo” figlio. Harriet sceglie insomma il bene del singolo contro quello della comunità e per questo non sarà perdonata da sua madre, che lascia la famiglia per andare a vivere con un’altra figlia, da suo marito che svanirà inghiottito dal lavoro e dai suoi stessi figli, che fuggiranno a studiare lontano o in altre famiglie. Ma allo stesso tempo non riesce a salvare nemmeno il suo quintogenito che a malapena riesce a inserirsi nella società, se non come parte di un branco di piccoli criminali, che vivono di furti, stupri, risse e violenza.

Doris Lessing è nata a Kermanshah, nel 1919, figlia di un reduce di guerra britannico che voleva vivere il sogno vittoriano delle “terre sevagge” e ha vissuto fino a trent’anni nella Rhodesia meridionale, nel 1949 si è trasferita definitivamente in Inghilterra, dove è morta nel 2013 all’età di 94 anni. Ha vissuto il colonialismo britannico, il nazismo, il fascismo e il comunismo dell’Unione Sovietica, attraversando le grandi tappe della storia mondiale contemporanea. Viene da molti considerata una delle più grandi scrittrici femministe, ma curiosamente non si è mai riconosciuta in questa definizione, preferendo invece porre l’attenzione sulla sua produzione fantascientifica, ovvero il ciclo di Canopus in Argos dove ha condensato i temi fondamentali della sua produzione, molto legata ai temi del sufismo. Ha vinto il premio internazionale Grinzane Cavour “Una vita per la letteratura” nel 2001 e il premio Nobel per la letteratura nel 2007.

Source: acquisto del recensore.

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:: La battaglia di Campocarne di Roberto Recchioni (Mondadori, 2015) a cura di Giulia Gabrielli

20 aprile 2016
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“YA” è la parola più usata all’interno del romanzo. E’ un’esclamazione, un segno di assenso e di incitamento, un’intercalare, ma anche l’acronimo del genere in cui ci muoviamo, Young Adult. Un romanzo di formazione quindi, la storia di come questo ragazzo magro, alto e goffo, da tutti chiamato Stecco, diventerà un uomo. O almeno ci proverà.
Nel mezzo della battaglia, ferito e già a terra al primo assalto, conosciamo Stecco, il giovane protagonista di questa storia. Stecco è un ragazzo di campagna, che vive nel piccolo e periferico villaggio di Zarafa, un sognatore che vuole diventare un grande avventuriero, proprio come il Granduomo, l’eroe di mille storie e mille avventure, che viaggia sul suo carro blu notte, accompagnato da Nonna Mannaia e dall’Incappucciato, reclutando giovani avventurieri in tutti i villaggi dove si fermano.
E un giorno il Granduomo arriva anche a Zarafa.
I capitoli, brevissimi e dallo stile asciutto, oscillano tra due linee temporali: tra quella della Battaglia di Campocarne, che è la linea più avanzata e che fa da anticipatore con i suoi improvvisi colpi di scena, e l’altra che riempie le lacune e spiega come Stecco sia arrivato in un tale guaio.
Nel romanzo tutto contribuisce a creare una narrazione veloce e fluida, capace di catturare l’attenzione del lettore e di trascinarlo fino alla fine del romanzo senza un attimo di pausa. C’è pochissimo spazio al sentimentalismo e all’introspezione: ciò che ci rende reali Stecco e la sua compagna Marta la Brutta, il Granduomo e Nonna Mannaia sono i loro dialoghi incalzanti, “botta e risposta”, realistici e senza alcuna interruzione per segnalare al lettore chi sia a parlare – cosa che tra l’altro richiede un pochino più di attenzione per seguire le conversazioni, ma mi pare giusto che anche il lettore faccia la sua parte in una storia.
Lo stile di Recchioni è, come sempre, asciutto e con una certa tendenza alle frasi brevi e ad effetto, usate soprattutto alla fine del capitolo, come una sorta di firma, e che a seconda della situazione aggiungono alla narrazione un tocco di ironia e di comicità, o ulteriore velocità al ritmo già serrato della storia. L’autore poi ha un’esperienza ventennale nel mondo del fumetto e un taglio molto cinematografico, cosa che rende le scene descritte immediatamente visualizzabili, così che i personaggi e tutti i loro ambienti ci appaiono di fronte visivamente ben delineati anche quando le descrizioni non sono altro che veloci note di colore.
Ma oltre ad essere una storia di formazione YA è anche una riflessione sulla formazione delle storie, su come esse si intreccino alla vita reale fino a trasformarla e a cambiare la percezione che abbiamo del mondo ma anche, più prosaicamente, su come si realizza una buona storia – ad esempio pare ci voglia sempre un bell’inseguimento in una storia.
Le storie crescono e si alimentano di se stesse, e non importa che siano vere o false, basta che siano delle buone storie, capaci di avvincere chi le ascolta, o le legge.

Roberto Recchioni, romano classe 1974, è sceneggiatore e soggettista per il cinema, illustratore, critico, nonché personalità molto nota nel web. La sua principale occupazione è l’arte sequenziale ed ha scritto personaggi iconici come Tex, Diabolik e Dylan Dog, co-creatore di John Doe e Detective Dante, creatore di Battaglia e della serie di Orfani, direttore di Dylan Dog. Autore di numerosissime graphic novel; YA – La battaglia di Campocarne è il suo primo romanzo, al quale seguiranno a breve altri due, sempre dedicati alle avventure di Stecco.

Source: acquisto personale.

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:: Né di Eva né di Adamo di Amélie Nothomb (Voland, 2008) a cura di Giulia Gabrielli

16 febbraio 2016
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Con uno stile sempre leggero, ironico, frizzante e coinvolgente Amélie Nothomb ci racconta del suo ritorno in Giappone una volta diventata adulta.
Amélie è una ragazza belga, nata in Giappone ma dal quale deve andare via a cinque anni, che ha deciso di tornare in quella che considera la sua patria; Rinri è un silenzioso ragazzo giapponese che studia il francese all’università e che ha un gran bisogno di lezioni supplementari.
La relazione tra i due è l’incontro di due culture diverse, l’una affascinata dall’altra, che trova subito la sua definizione nelle parole della lingua dell’altro:

«Quello che provavo per lui non aveva un nome in francese moderno, ma in giapponese sì, perché il termine koi gli si addiceva. Koi in francese classico si può tradurre con “diletto”. Mi procurava diletto. Lui era il mio koibito, colui con il quale condividevo il koi: provavo diletto in sua compagnia.»

Ed allo stesso modo Rinri usa il francese per le sue dichiarazioni di amore appassionato: «lui giocava all’amore, inebriato da questa novità, e io mi dilettavo del koi».
A legarli poi è anche il rapporto di amore profondo che entrambi hanno con le loro sorelle maggiori che vivono lontane, in Belgio quella di Amélie, in America quella di Rinri.
La vita di coppia dei due ragazzi si intreccia con la scoperta del Giappone da parte di Amélie: la scalata del monte Fuji, i quartieri di Tokyo, la gita sull’isola Sado e quella ad Hiroshima, i film del cinema classico giapponese e il cibo che le riporta i sapori dell’infanzia, in piena tradizione proustiana.
Il Giappone descritto dall’autrice è un mondo di cui anche lei è stata parte, ma non è il suo mondo; il suo è uno sguardo attento, ironico e consapevole, che non cade nella denuncia o nell’esaltazione di una cultura tanto diversa ed allo stesso tempo tanto familiare per lei.
In questo romanzo la Nothomb ci svela così un altro pezzetto della sua biografia, ma distinguere esattamente quale sia il confine tra la realtà e la licenza poetica, come sempre, non è  facile.
Né di Eva né di Adamo comunque è solo uno dei tre libri dedicati al sua rapporto con il Giappone: è successivo a Metafisica dei tubi, che racconta dell’infanzia dell’autrice in questo paese, e complementare a Stupori e Tremori, che invece racconta dell’orribile anno trascorso a lavorare in una grande azienda giapponese.
Dal romanzo inoltre è stata tratta una versione cinematografica nel 2014: Il fascino indiscreto dell’amore (Tokyo Fiancée) di  Stefan Liberski.

Amélie Nothomb è nata a Kobe, in Giappone, nel 1967, figlia di un diplomatico belga, ha seguito il padre nel suo lavoro in Cina, America, Bangladesh e molti altri paesi. Oggi vive tra Parigi e il Belgio.
Ha debuttato come scrittrice nel 1992 con Igiene dell’assassino, suscitando l’entusiasmo del pubblico e conquistando milioni di lettori in tutto il mondo in pochi anni.
Vincitrice di numerosissimi premi letterari e tradotta in tutto il mondo, ha scritto a tutt’oggi ventidue romanzi, tutti tradotti in Italia da Voland, e prosegue nel suo intento di pubblicare un libro all’anno.

Source: acquisto del recensore.

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:: I cento fratelli di Donald Antrim (minimun fax, 2011) a cura di Giulia Gabrielli

2 febbraio 2016
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Una riunione di famiglia, cento fratelli, tutti maschi e di ogni età possibile, riuniti a cena nell’enorme biblioteca dell’antica villa di famiglia, in questa sala decadente, logora e ormai in stato di abbandono, come tutto il resto della casa e del giardino.
Un’ambientazione cupa e invernale, che riflette l’animo dell’io narrante, Doug, il fratello appassionato di araldica e genealogie, l’esperto di storia e tradizioni, depresso e quasi alcolizzato, come la maggior parte dei suoi fratelli.

I cento fratelli è, prevedibilmente, un romanzo completamente al maschile in cui nessuna donna viene mai nominata, né una madre, né le mogli dei fratelli sposati. Compare un solo nome femminile, quello di Jane, la donna con cui è fuggito il fratello mancante alla cena, George.
Il tema della discendenza (e di conseguenza del sesso) e delle tradizioni è fortissimo nel racconto: Doug è totalmente ossessionato dallo studio della storia della sua famiglia, soprattutto dallo studio delle vite di tutti gli antenati che avevano il suo stesso nome.

Il tempo sembra stagnare nella sala della biblioteca, le poche ore di una cena si dilatano all’infinito, spezzate dalle descrizioni della casa in decadenza, così come sembrano stagnare i rapporti tra i vari fratelli. C’è infatti un frustrante mantenimento dei ruoli e delle relazioni tra i fratelli, che nonostante il passare del tempo restano ancora legati ai litigi dell’infanzia: i fratelli che avevano sottomesso e maltrattato Doug da piccolo continuano a mantenere la loro supremazia, soprattutto Hiram il fratello maggiore; così come il fratello più debole e fragile psicologicamente, Virgil, continua ad aver bisogno della vicinanza di Doug.

Quella descritta da Antrim è una famiglia assolutamente disfunzionale, dove i rancori accumulati dai fratelli crescendo assieme restano sempre accesi e pronti ad esplodere, e dove la figura del padre, anche se ormai defunto da molti anni, aleggia sospesa e soffocante su tutta la serata.

«La personalità collettiva di questa famiglia potrebbe legittimamente essere descritta come convulsa, romantica, letargica, sarcastica, spaventosa, frustrata, alticcia, combattiva, impudica, crudele, alla “cane mangia cane”, narcisistica ai limiti del borderline, di vedute nervosamente ristrette, nonché più o meno rassegnata alla disperazione, pur se occasionalmente festosa, qualora ebbra.»

Ogni fratello è caratterizzato da un attributo specifico, saturato e portato all’estremo per riuscire a distinguerlo dagli altri novantanove. Ma che ci si distingua per il lavoro, l’età, il fatto di essere parte di una coppia di gemelli o per due cani sempre al seguito, non ha importanza perché si tratta sempre di variazioni minime dalla personalità collettiva della famiglia.
Sono variazioni sullo stesso tema, sullo stesso individuo visto da prospettive diverse, sono in definitiva tutte le concretizzazioni possibili di quello che il DNA di una famiglia ha in potenziale.

Donald Antrim, nato a Sarasota, in Florida, nel 1958, ha esordito come autore di romanzi nel 1993 con Votate Robinson per un mondo migliore, pubblicato da minimum fax in Italia e accolto con entusiasmo dalla critica. Sempre con minimum fax vengono pubblicati anche i suoi due romanzi successivi, Il verificazionista e I cento fratelli; il quarto romanzo invece, La vita dopo, è edito da Einaudi.

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:: Annientamento di Jeff VanderMeer (Einaudi, 2015) a cura di Giulia Gabrielli

14 gennaio 2016
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Tra i tanti libri ricevuti per Natale il primo a cui mi sono dedicata è stato Annientamento: già da diversi mesi ero incuriosita dalla nuova trilogia pubblicata da Einaudi nella collana dei Supercoralli, anche per il coinvolgimento di un illustratore che amo molto per le copertine (Lorenzo Ceccotti, in arte LRNZ), ma devo dire che questo libro ha superato di molto le mie aspettative.
Ero preparata a leggere un romanzo di fantascienza con un probabile buonismo ambientalista di fondo e invece mi sono trovata tra le mani una storia inquietante, con un pizzico di orrore lovecraftiano, un’indagine della mente umana e molteplici piani di lettura, un romanzo del genere che di solito appartiene alla fantascienza alta, quella di riflessione sociale e politica.
La storia è quella della dodicesima spedizione esplorativa nell’Area X, composta solo da donne: la Biologa, la Psicologa, la Topografa e l’Antropologa. E le altre undici spedizioni? Nessuno è mai davvero tornato indietro dall’Area X, tutti hanno fallito, i più fortunati sono morti lì.
E anche la dodicesima spedizione è destinata a fallire: ce lo dice subito la nostra voce narrante, la Biologa, che come ogni membro di ogni spedizione deve tenere un diario delle proprie scoperte, dei propri pensieri.

«Vi direi i nomi delle altre tre, se fosse importante, ma solo la topografa sarebbe durata un paio di giorni in più. E poi ci avevano sempre vivamente sconsigliato di usare i nomi: dovevamo concentrarci sulla nostra missione e «lasciare a casa qualunque dato personale». I nomi appartenevano al luogo da cui venivamo, non alle persone che eravamo durante la missione nell’Area X.»

Una totale spersonalizzazione delle protagoniste, indicate solo con il loro ruolo, e totale assenza di riferimenti geografici o temporali. Perché l’Area X è un ambiente alieno all’uomo, ecosistema incontaminato che da trent’anni è riuscito a liberarsi di tutte le presenze umane che hanno tentato di violarlo, è un’area di transizione che lega assieme la foresta, le paludi e il mare. Un ambiente in cui affiorano solo poche costruzioni umane: un villaggio soffocato dalla vegetazione, un faro fortificato sul mare, il tunnel, o meglio la Torre. Qui si cela il mistero dell’Area X: le “parole viventi” che brillano nel buio e sprofondano nella terra, formate da una sorta di colonia di funghi luminescenti che crescono lungo le pareti della torre.
Nella narrazione di VanderMeer le parole hanno il peso dell’ipnosi, riecheggiano nella mente confusa e offuscata della Biologa, divisa tra il mistero di un luogo che i suoi strumenti scientifici non sono in grado di spiegare e i ricordi della vita fuori dall’Area X, i ricordi dell’infanzia e di suo marito, scomparso nella spedizione precedente.
Ma le parole ipnotizzano anche il lettore: la vertigine, la transizione, la mutazione della natura, la luminosità, le onde, la Torre, si rincorrono sulla pagina, tornano sempre a legare, a suggerire nuovi percorsi nell’interpretazione del testo.

Jeff VanderMeer, nato a Bellefonte in Pennsylvania nel 1968, ha trascorso la maggior parte della sua infanzia nelle Isole Figi; scrittore ed editore statunitense, autore di antologie di racconti e romanzi con cui ha vinto il BSFA Award, il World Fantasy Award, il Nebula Award e con cui è stato finalista allo Hugo Award. Scrive per numerose testate fra cui il “New York Times”, il “Guardian” e il “Washington Post”. VanderMeer ha lavorato anche con altri media: ha girato un film basato sul suo romanzo Shriek con la colonna sonora della rock band The Church, e dal suo racconto A New Face in Hell Joel Veitch ha realizzato una versione animata per la Playstation.
Per il momento in Italia sono stati pubblicati solo i tre libri della Trilogia dell’Area X.

Source: acquisto personale.

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