Il breve saggio, Nella Russia di Putin, edito da Carocci editore ormai nel 2023, del professor Bonelli, esperto di questioni inerenti la Russia sovietica e post sovietica, di cui vi parlerò oggi, è un interessante compendio di molte tematiche inerenti il passto, il presente e il futuro della Russia partendo dal suo passato zarista, per passare all’eredità sovietica, per poi giungere al putinismo odierno, un misto di ideologia e valori tradizionali ben radicati nella coscienza russa, che sì può essere visto come un regime illiberale, e quasi stalinista, non segreta l’ammirazione che Putin prova per Stalin rivendicando un orgoglio nazionale mai sopito e rifiutandosi di demonizzare un periodo storico vissuto da generazioni di russi, ma con peculiarità sue proprie che è interessante studiare per capire la Russia moderna e soprattutto l’eredità che lascerà una volta che Putin, per raggiunti limiti d’età, lascerà volente o nolente il potere. La vocazione imperiale della Russia odierna ha radici profonde, che precedono l’epoca sovietica, e traggono le basi dallo zarismo stesso, che se vogliamo ha forgiato molte delle caratteristiche peculiari dell’animo russo, spirito passato indenne durante lo stalinismo sovietico e giunto fino a noi, in cui la fede, non solo quella ortodossa (strano come questa fede sia sopravvissuta in un regime come quello sovietico che si professava ateo), e i valori tradizionali hanno cementato una coscienza comune che Putin ha raccolto e fatta propria, acquisendo un consenso non solo imposto con misure coercitive e autoritarie. E’ importante capire questo per comprendere fino a che punto il putinismo ha cambiato la storia non solo russa ma mondiale. Ma chi è Putin? Come è stato possibile che un incolore burocrate, passato dalle maglie dei Servizi, abbia raggiunto le più alte cariche dello Stato e abbia conservato il potere per tutti questi anni attorniato da una classe politica dirigenziale fedele e imbevuta di ideali pattriottici e nazionalisti molto forti? A queste domande forse risponderanno gli storici futuri, ma già oggi possiamo capire quanto l’abilità di Putin risieda nella sua capacità di essersi fatto percepire come uno del popolo, anche raccontando nella sua biografia ufficiale fatti strettamente personali come la perdita del fratello in guerra o il ritorno del padre ferito dal fronte appena in tempo per salvare la madre che se no sarebbe morta di stenti. Tutte vicende che hanno inciso profondamente nell’immaginario che lo circonda. Come il battesimo ricevuto segretamente, quando le leggi sovietiche lo proibivano. Il militarismo patriottico, l’esaltazione della Vittoria nella Grande Guerra Patriottica, l’importanza geopolitica del paese e il suo ruolo a livello mondiale, sono tutti temi radicati nello spirito russo, di cui Putin si è appropriato per consolidare un potere che sarebbe stato difficile altersì ottenere, nè tanto mantenere per più di vent’anni. Intanto è importante focalizzare l’attenzione sulla convinzione radicata nel Cremlino dell’importanza del ruolo stabilizzante della Russia, senza il quale l’Europa e gli Stati Uniti sarebbero incapaci di gestire un ordine mondiale post Guerra fredda, ordine che ancora non è stato raggiunto. E all’orizzonte lo spettro dell’inverno nucleare, augurandoci che almeno questa profezia apocalittica non si avveri.
Andrea Bonelli è ricercatore in Storia dell’Europa orientale all’Università di Pisa. Ha svolto ricerche in archivi russi ed europei e ha insegnato in diverse università italiane. Autore di saggi scientifici, ha pubblicato Gorbačëv e la riunificazione della Germania. L’impatto della perestrojka sul comunismo (1985-1990) (Roma 2021).
Sentii parlare per la prima volta dei BRICS qualche anno fa, in una conversazione informale in cui si discutevano i nuovi equilibri mondiali e come l’Occidente sottovalutasse questo organismo nato per riunire le economie di alcuni paesi emergenti (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) ai quali pian piano si sono uniti nuovi stati e altri si aggiungeranno. Che l’Occidente troppo concentrato su se stesso, troppo viziato da secoli di predominio ed egemonia, sottovalutasse la questione è anche plasticamente evidenziato dal fatto che a Kazan lo scorso ottobre al XVI vertice BRICS ci fosse un unico giornalista occidentale, Margherita Furlan, che ha raccolto le sue riflessioni in un libro BRICS. Scacco Matto. L’ultima scelta: vivere o morire, che consiglio sicuramente di leggere perchè è uno dei primi lavori disponibili tesi a cercare realmente di capire cosa siano i BRICS e in che maniera stiano cambiando la storia di questo nostro martoriato pianeta. A Kazan, dal 22 al 24 Ottobre 2024, si sono dunque riuniti i vertici delle principali economie emergenti per decidere una strategia comune, comunitaria oserei dire, per affrontare le sfide che ci prospetta il futuro. Non in un’ottica smaccatamente antioccidentale c’è da dire, sempre che questa deriva non prenda piede nei prossimi anni, per la miopia e l’arretratezza di chi non si sta accorgendo che il mondo sta cambiando, che la maggior parte delle risorse naturali si trovano in quella fetta di mondo, e che quei paesi ne stanno prendendo coscienza e si stanno organizzando di conseguenza. Nel vertice di Kazan si sono gettate le basi per una concreta rivoluzione copernicana sul piano geopolitico che permetta l’emergere di un Nuovo Mondo orbitante intorno agli stati aderenti ai BRICS, superando secoli di egemonia anglosassone, questo in sintesi dice Roberto Quaglia nella prefazione. Dunque il mondo è multimopare. Jalta non esiste più. Questa volta è ufficiale e alla luce del sole, dice Margherita Furlan mettendo a disposizione nel suo libro, dati, statistiche, e prospettive. E si evince che da fuori, forse meglio di noi, questi paesi ci osservino e scorgano le nostre principali debolezze, scorgano un Occidente relativistico, individualistico, materialistico, borghese, che ha rifiutato le tre grandi forze che ne hanno fatto lievitare l’esistenza spirituale: la cultura antica, il cristianesimo, l’intreccio di arte, letteratura, scienza e tecnica, condannandosi a una lenta o veloce, non si sa, decadenza. Che questa lezione ci arrivi dai nostri maggiori competitor economici è assai curioso, ed evidenza un tratto saliente: la Cina non sarà il solo competitor con cui avranno a che fare gli Stati Uniti, e mentre loro si alleano, cercano politiche comuni, in un’ottica democratica, noi ci disgreghiamo, gli Stati Uniti sembrano volere abbandonare l’Europa, definita parassitaria, e l’Europa non trova di meglio per difendere i suoi privilegi che un’anacronistica corsa agli armamenti. Tutto assai curioso, finirà che i singoli stati chiederanno di aderire ai BRICS. E non dubito che alcuni analisti ci abbiano fatto un pensierino davvero. Ma tornando al libro in questione, interessanti le riflessioni sul neoliberismo, e mentre noi rimpiangiamo il passato, a Kazan hanno progettato il futuro, diventando a tutti gli effetti un “laboratorio del futuro”. Non si sottovalutano le criticità e gli ostacoli, ma si cerca una strada comune per una coesistenza pacifica per la creazione di un Nuovo Ordine Mondiale che succederà al vecchio ormai in fase di decadenza. Tutto con cautela e senza un’opposizione netta e diretta. Sebbene nel libro viene descritta la dedollarizzazione nella pratica, per farci capire che fanno sul serio. E noi Occidente in decadenza cosa facciamo? che prospettive abbiamo? quali sono le nostre speranze?, per popolazioni sempre più anziane, in cui la denatalità è solo in parte compensata dalle migrazioni, in cui la transizione ecologica e la ricerca di nuove vie energetiche si fa sempre più difficoltosa, in cui crisi, disoccupazione, abbattimento del welfare, erodono i privilegi che per anni hanno caraterizzato il nostro tenore di vita? Non resta che la strada della cooperazione tra Stati Uniti e BRICS, è dunque sempre più necessario prenderne coscienza, prima del passo nucleare che non prevederebbe ritorno.
Margherita Furlan è giornalista, scrittrice, direttore editoriale de La Casa Del Sole TV. Si occupa principalmente di Russia e Medio Oriente. Già vice direttrice e co-fondatrice di Pandora TV, prima web tv italiana diretta dal noto giornalista Giulietto Chiesa. Sceglie di fare informazione per essere al servizio del bene comune. Perché non sappiamo più cosa realmente sta succedendo nel mondo, così come a casa nostra, e se non sappiamo dove siamo, non sapremo orientarci. Dai padroni universali. O da chiunque. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
Buongiorno professore, lei è stato docente di Storia delle Relazioni internazionali alla Sapienza di Roma e da diversi anni cura la pubblicazione dell’Atlante geopolitico del Mediterraneo, giunto all’edizione 2024. “Il Mediterraneo ha sempre occupato un ruolo centrale nelle dinamiche geopolitiche globali, un crogiolo di civiltà che ha plasmato la storia, la cultura e le economie di ben tre continenti. Questa regione assume oggi una rilevanza ancora maggiore, rappresentando il cuore di cruciali questioni geopolitiche, economiche e ambientali che influenzano direttamente e indirettamente il futuro di molte nazioni al di là delle sue coste” cito Paolo de Nardis nella prefazione dell’Atlante Geopolitico del Mediterraneo 2024. Il Mediterraneo mai come in questi anni si può dire sia un sorvegliato speciale. Perlomeno gli stati che si affacciano sulle sue sponde. Sebbene le previsioni sembrino voler far ritenere lo spostamento del baricentro geostrategico globale verso l’indopacifico, il Mediterraneo riveste ancora il suo ruolo di ponte per una composizione pacifica delle frizioni e criticità di questi anni?
R: Il Mar Mediterraneo si conferma un’area di cruciale importanza nelle dinamiche geopolitiche ed economiche internazionali, e tale centralità è destinata a perdurare nei prossimi anni. Pur rappresentando soltanto l’1% della superficie marina globale, il Mediterraneo riveste un ruolo di primo piano nel commercio marittimo mondiale. Secondo il Rapporto Italian Maritime Economy 2022 del Centro Studi SRM, attraverso questo bacino transita circa il 20% del traffico marittimo globale. Inoltre, il Mediterraneo è attraversato da circa il 27% delle rotte commerciali containerizzate e gestisce il 30% dei flussi di petrolio e gas, inclusi quelli trasportati tramite oleodotti, lungo le principali direttrici nord-sud ed est-ovest. Tuttavia, negli ultimi quindici anni, la regione mediterranea è stata teatro di numerose crisi che ne hanno compromesso la stabilità, tra cui il conflitto libico, la guerra in Siria e, più recentemente, l’inasprimento delle tensioni nel contesto israelo-palestinese. Questi eventi non solo hanno avuto ripercussioni socio-economiche significative sui paesi della sponda sud, ma hanno altresì inciso profondamente sugli interessi strategici dell’Europa, esponendone le vulnerabilità in termini di sicurezza e approvvigionamento energetico. In questo contesto, si rende necessaria un’azione più incisiva da parte dell’Unione Europea, al fine di riaffermare il proprio ruolo storico nella regione e contrastare l’influenza crescente di attori esterni con rilevanti interessi economici e strategici, in primis Cina e Russia. Un rinnovato protagonismo dell’UE nel Mediterraneo appare essenziale non solo per la stabilità dell’area, ma anche per la tutela degli equilibri geopolitici globali.
Alcuni analisti addirittura azzardano di rifondare l’Unione Europea in favore di un’unione dei paesi del Mediterraneo. Come valuta questa ipotesi?
R: L’ipotesi in questione appare altamente improbabile. Le recenti dinamiche della politica internazionale evidenziano in maniera inequivocabile come l’Unione Europea necessiti di un significativo rafforzamento della propria capacità di azione politica. Tuttavia, tale evoluzione risulta spesso ostacolata dalla diversità degli interessi nazionali dei suoi Stati membri, che ne limitano la coesione e l’efficacia decisionale. In questo contesto, l’idea di un’unione tra i paesi del Mediterraneo, o addirittura di un’integrazione tra l’UE e gli Stati della regione, si configura come un’ipotesi ancor meno realistica in termini di concreta fattibilità politica. Ciò che appare invece imprescindibile è la necessità per l’Europa di ricostruire un dialogo strutturato con i paesi della sponda sud del Mediterraneo, ridefinendo le basi su cui si fondano le relazioni tra le due rive del bacino. Risulta evidente, infatti, che l’Unione Europea non rappresenta più l’unico interlocutore possibile per i paesi della regione, i quali hanno progressivamente diversificato le proprie partnership economiche e strategiche, in particolare con la Cina, per quanto concerne gli investimenti e il sostegno finanziario, e con la Russia, in termini di cooperazione in materia di sicurezza. Alla luce di tale scenario, appare imprescindibile adottare un approccio innovativo nei rapporti tra l’Europa e i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, basato sulla creazione di progetti di sviluppo condivisi e sulla convergenza di interessi strategici, tenendo conto delle specificità e delle priorità di ciascun attore regionale. Solo attraverso una politica fondata su cooperazione paritaria e obiettivi comuni, l’UE potrà ambire a esercitare un ruolo realmente incisivo nel contesto mediterraneo, contrastando al contempo l’influenza crescente di attori esterni alla regione.
La recente guerra in Ucraina ha destabilizzato l’Europa e l’Occidente tutto, rendendo necessaria la riorganizzazione di strutture politiche e militari come la NATO e l’Unione Europea, che mai come in questi frangenti stanno testando i limiti della loro tenuta. C’è speranza di riprendere una strada di cooperazione e sviluppo, della cui necessità hanno capito l’importanza, per esempio, i paesi aderenti ai BRICS, o ci avviamo verso una crescente militarizzazione penalizzando welfare, e benessere dei cittadini comunitari?
R: Il piano recentemente proposto dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, volto a rafforzare la difesa comune europea, avrà inevitabili ripercussioni sulla spesa pubblica, incidendo in particolare sulle risorse destinate al welfare nei paesi che decideranno di aderirvi. Tuttavia, l’attuale scenario geopolitico internazionale e la recente postura assunta dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, impongono all’Unione Europea un incremento significativo delle proprie spese per la sicurezza e la difesa. In un contesto globale caratterizzato dall’emergere e dal rafforzarsi di nuove potenze internazionali, l’UE non può più permettersi di delegare la propria sicurezza a soggetti esterni, come è avvenuto negli ultimi ottant’anni. Gli Stati Uniti, del resto, sollecitano da tempo l’Europa affinché aumenti il proprio impegno finanziario in materia di difesa, una richiesta motivata anche dalla necessità di concentrare le proprie risorse sulla crescente competizione strategica con la Cina nella regione del Pacifico. Tali pressioni non sono un fenomeno recente, ma risalgono almeno alla presidenza di Barack Obama, segnalando un cambiamento strutturale nella politica di sicurezza statunitense. L’Unione Europea, pertanto, non può ambire a essere un attore globale credibile né a tutelare efficacemente i propri interessi senza dimostrare una reale capacità di gestire in autonomia la propria sicurezza e difesa. L’attuale fase storica, segnata da profondi mutamenti negli equilibri internazionali, impone una rivalutazione delle priorità politiche e finanziarie dell’Europa, con un necessario bilanciamento tra esigenze di sicurezza e sostenibilità economica.
Sarà il Mar Nero il possibile casus belli di un ipotetico, e si spera remoto, scontro diretto tra Europa e Russia, che alcuni analisti russi addirittura fissano per il 2027 se non si perviene a una risoluzione diplomatica? È in previsione di questa eventualità che l’Europa sta serrando i suoi ranghi chiedendo agli stati membri, anche a costo di un pesante indebitamento, di investire maggiormente nella difesa? Studiando l’area approfonditamente in questi anni con il suo Centro di ricerca quali sono le criticità che ha evidenziato? E c’è ancora margine di trattativa per evitare uno scontro armato tra Europa e Russia, tenendo anche conto del disimpegno statunitense?
R: Le potenziali aree di tensione tra l’Unione Europea e la Federazione Russa si configurano come nodi strategici in un contesto internazionale complesso e in continua evoluzione. Un esempio emblematico è rappresentato dalla regione della Transnistria (Repubblica Moldava di Pridniestrov, PMR), un territorio separatista situato nella parte orientale della Moldavia, lungo il confine con l’Ucraina. La Transnistria si autoproclamò indipendente nel 1990, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica, ma non ha mai ottenuto riconoscimento ufficiale da parte della comunità internazionale, rimanendo, di fatto, annessa alla Moldavia ai sensi del diritto internazionale. Nonostante ciò, la presenza di truppe russe e il sostegno economico e politico offerto dalla Federazione Russa consolidano il ruolo di questo territorio come possibile fonte di instabilità regionale, fungendo da potenziale punto di contesa nelle relazioni tra l’UE e la Russia. Parallelamente, un’altra area di particolare interesse e criticità è costituita dalle Repubbliche Baltiche, dove la presenza di una significativa comunità russofona ha alimentato, nel corso degli anni, dibattiti interni ed esterni in merito all’identità nazionale e alla sicurezza regionale. Le dinamiche in queste aree sono ulteriormente complicate dall’evoluzione del contesto geopolitico, in cui la recente aggressione russa nei confronti dell’Ucraina ha acuito le preoccupazioni dei paesi confinanti. In risposta a tale scenario, paesi come la Svezia e la Finlandia hanno intrapreso percorsi di integrazione nell’alleanza atlantica, sottolineando l’urgenza di un rafforzamento dei meccanismi difensivi e della cooperazione militare all’interno dell’UE. La questione della sicurezza e della difesa europea, pertanto, assume una rilevanza strategica non solo dal punto di vista militare, ma anche in termini diplomatici. Una capacità difensiva insufficiente incide direttamente sulla credibilità dell’Europa come attore globale, limitando le possibilità di negoziazione e di equilibrio nei confronti di una superpotenza come la Russia. In tale prospettiva, il rafforzamento delle capacità militari e la costruzione di un assetto difensivo più robusto appaiono indispensabili per consentire all’UE di esercitare una politica estera autonoma e credibile, capace di tutelare efficacemente i propri interessi e quelli dei paesi membri. In conclusione, il rischio di conflitti armati e di escalation delle tensioni nel bacino eurasiatico impone alla comunità europea di investire nella costruzione di un sistema di sicurezza integrato e multilaterale, che sappia coniugare gli interessi economici, politici e strategici. Solo attraverso un rafforzamento sia militare che diplomatico l’Europa potrà ambire a stabilire un equilibrio di potere che riduca le possibilità di crisi e garantisca la stabilità nell’area, in un’epoca in cui l’emergere di nuove potenze e il riposizionamento degli attori internazionali rendono il panorama globale sempre più incerto e competitivo.
State lavorando all’Atlante del 2025, può anticiparci qualche linea guida del prossimo testo e quando si prevede la pubblicazione?
R: Speriamo di vedere l’Atlante 2025 nelle librerie già nel mese di aprile. Stiamo concludendo il lavoro che, come ogni anno, è reso complesso dalla rapida evoluzione degli eventi nella regione. In questa edizione analizzeremo, come sempre, gli undici paesi della sponda sud del Mediterraneo, e proporremmo un’analisi delle politiche di Cina e Stati Uniti nel bacino. Non mancherà poi un approfondimento sulla caduta del regime di Assad e sugli effetti che ciò ha prodotto su alcuni paesi molto coinvolti nel dossier siriano.
Grazie professore di averci concesso questa intervista che si ricollega a quella che ci ha concesso nel marzo del 2023. Parleremo sempre di Ucraina, e più nello specifico delle conseguenze di questa guerra per l’Europa e più in generale sui cambiamenti, repentini e per un certo verso imprevisti, sull’Ordine Mondiale. Inizierei con il fare un bilancio su questi ultimi tre anni di guerra, a partire dall’ingresso delle truppe russe in Ucraina nella cosiddetta “operazione militare speciale”.
Dunque nell’ottica di Mosca l’Ucraina come ex repubblica sovietica rientrava a pieno titolo nelle sfere di influenza della Russia. Dal punto di vista russo era dunque più che legittimo intervenire per riportare all’ordine una “repubblica ribelle“, troppo protesa verso l’Occidente?
Non credo si debba parlare di repubblica ribelle. La preoccupazione della Russia è nata dalla ripetutamente minacciata adesione dell’Ucraina alla NATO. Poi dagli accordi economici tra Unione Europea e Ucraina sullo sfruttamento delle risorse minerarie dell’Ucraina: infatti, nel luglio 2021, l’allora vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič incontrò a Kiev il primo ministro ucraino Denys Shmyhal, per sottoscrivere il partenariato strategico sulle materie prime ucraine. Nel novembre 2021, ad esempio, la European Lithium Ltd. di Vienna (società di esplorazione e sfruttamento minerario) creava una joint venture con la Petro Consulting Llc (azienda ucraina basata a Kiev), che dal governo locale aveva ottenuto i permessi per estrarre il litio da due depositi (Shevchenkivske nel Donetsk e Dobra, nella regione di Kirovograd), vincendo la concorrenza della cinese Chengxin.
Uniamo a questo la discriminazione politico-culturale e la durissima repressione poliziesca attuate dall’Ucraina dal 2014 nelle are russofone orientali, che avevano provocato una situazione di conflitto civile, con migliaia di caduti, civili compresi: la Federazione Russa non poteva accettare quest’azione da parte del governo ucraino.
Questi tre elementi, uniti alle avventate affermazioni di Zelensky, alla Munich Security Conference (MSC) nel febbraio 2022, sulla sua volontà di cancellare gli accordi internazionali sulla denuclearizzazione dell’Ucraina, hanno spinto la Federazione Russa ad un’azione di forza che, come ho scritto su clarissa.it, non mirava all’invasione dell’Ucraina ma al rovesciamento di Zelensky ed alla sua sostituzione con un governo favorevole a Mosca: operazione fallita grazie, a mio avviso, ad una contromossa di deception (inganno) secondo me pilotata dai servizi di intelligence britannici – cosa al momento ovviamente non dimostrabile.
Trump, scavalcando l’Europa, e per chiudere al più presto questa guerra ha iniziato un canale diretto con Mosca. Abbiamo visto i colloqui di Riad, il voto congiunto con la Russia all’ONU, la firma di Zelensky sul trattato per la cessione delle terre rare come indennizzo dell’aiuto ricevuto (n.d.r l’accordo non è stato firmato dopo scontri verbali nella Sala Ovale). Tutto sta evolvendo molto rapidamente verso un cessate il fuoco, una tregua e l’inizio dei trattati di pace. Una pace “imposta” dagli Stati Uniti con queste modalità, ha speranza di essere duratura? Che scenari si aprono per il futuro?
Lo scenario è quello che caratterizza la storia europea dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Stati Uniti e Russia hanno di fatto dominato la storia del continente. Il crollo dell’Unione Sovietica ha messo in momentanea crisi la Russia, crisi di cui l’Occidente atlantico ha creduto di poter approfittare, allargandosi fino ai confini della Russia. Trump non sta facendo altro che provare a ricostituire il condominio USA – Russia in Europa, con la speranza di staccare la Russia dalla Cina.
L’Unione Europea sta dimostrando di essere quello che è sempre stata: un’entità nata ad opera di un gruppo di tecnocrati e finanzieri, che hanno concepito un progetto di natura economica, privo di una forza ideale condivisa dai popoli. Per questo è ridicolo, ad esempio, parlare di una difesa europea: per difendere cosa? La BCE? L’euro? La Commissione europea mai eletta democraticamente?
La conferma viene dal fatto che il Paese che in questo momento sembra avere assunto la guida della “opposizione” a Trump è la Gran Bretagna, che difficilmente arriverà ad un scontro con gli Stati Uniti d’America… Né Francia né Germania, a mio parere, hanno al momento classi dirigenti in grado di smarcarsi dagli Usa. Non a caso, quando si parla di difesa europea, si finisce poi nella NATO: una realtà che senza gli Usa non avrebbe alcuna consistenza sul piano militare, anche perché fin dal 2003 l’Unione Europea le ha delegato la propria difesa.
Dunque verranno progressivamente tolte le sanzioni, riaperte regolari relazioni diplomatiche, riaperte relazioni economiche stabili, revocati i mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale nei confronti di Vladimir Putin per crimini di guerra in Ucraina? Cioè con un colpo di spugna tutto verrà azzerato come se non fosse mai successo? Non le sembra piuttosto surreale? L’Europa è pronta ad accettare tutto questo? E soprattutto la popolazione ucraina?
Gli Stati Uniti non si sono mai fatti problemi del genere. Trump poi aveva mantenuto relazioni tanto strette con la Russia da rischiare un procedimento giudiziario a suo carico, nelle precedenti elezioni.
Gli Stati Uniti hanno spesso abbandonato alleati, che si erano spesi in termini di uomini e di sangue: Vietnam del Sud, Iraq, Afghanistan ce lo raccontano. Ho spesso detto ad interlocutori ucraini di stare attenti agli Usa, e loro ne hanno sempre convenuto con me. Ora, per Trump come per qualsiasi altro presidente statunitense, non sarà certo un problema imporre all’Ucraina condizioni giugulatorie per chiudere la partita.
Il problema semmai sarà per quei Paesi dell’Unione Europea, Italia in prima fila, che, forse ignorando la storia degli ultimi due secoli, si sono sbracciati in difesa dell’Ucraina: una difesa, non ci dimentichiamo, consistita in tante parole, tanti soldi e tante armi, ma nessuna seria iniziativa diplomatica per arrivare ad un accordo russo-ucraino – pur consapevoli che Donbass e Crimea sono storicamente e culturalmente russi.
Eppure gli Europei avrebbero dovuto pensare all’importanza di mantenere buoni rapporti con una Russia che, almeno dal mio punto di vista, è un Paese europeo prima che asiatico. Un corretto rapporto con la Russia non è quindi solo questione di risparmiare sui costi energetici, ma di realizzare una vera identità europea: una identità che storicamente accomuna genti neolatine, germaniche e slave. Perché allora dovremmo tenere fuori la Russia, considerarla il nemico, come si è predicato negli ultimi decenni?
La Germania, motore dell’Europa, è in recessione, alla luce delle ultime elezioni che scenari si aprono per la tenuta dell’Unione europea? Prevarranno gli interessi nazionali di ogni singolo stato con l’avvento di governi sempre più sovranisti? Il sogno europeo è definitivamente tramontato? Cooperazione, progresso comune, crescita condivisa sono concetti sempre meno popolari?
Il sogno europeo rimane tale fintantoché viene concepito non in relazione ai popoli ma viene evocato dalle classi dirigenti di obbedienza atlantista; quelle che hanno costruito una istituzione non democratica, verticistica e burocratica, che ha cercato di regolamentare tutto senza tuttavia essere mai riuscita nemmeno a varare una propria costituzione – un aspetto di cui ci si dimentica spesso.
Io mi auguro che, dalla scossa che l’elezione di Trump sta provocando, con la sua impostazione rozzamente mercantile, possa maturare una presa di coscienza dell’Europa: ma tale presa di coscienza presuppone la formazione di nuove classi dirigenti nei nostri Paesi, ispirate da ideali diversi da quelli del capitalismo finanziario occidentale, che ha impoverito famiglie e disseccato coscienze in tutto il mondo. Non vedo ancora all’orizzonte traccia di simili classi dirigenti di ricambio. Esse vanno costruite da zero.
Non può esistere infatti cooperazione fra i popoli e le nazioni dove solidarietà, equità e libertà di spirito sono soffocate.
L’Ordine Mondiale sta cambiando a una velocità vertiginosa, i conservatori stanno mietendo successi, l’ultradestra avanza, le sinistre sono in affanno. Come valuta questa congiuntura nell’ottica di una convivenza pacifica tra popoli e stati?
Francamente non credo che ci sia da preoccuparsi della politica, coi suoi schieramenti oramai intercambiabili. Abbiamo visto che le destre, i centri e le sinistre lasciano il tempo che trovano; i partiti non sono portatori né di idee né di ideali, ma al massimo di interessi.
Credo che si debba ripensare il cambiamento: questo non può venire dalla politica come oggi intesa, ma da una rivoluzione culturale, che presuppone la spinta di impulsi interiori nelle persone. È questa la sola speranza per avere una pace fondata sulla giustizia – non quella retoricamente predicata da decenni, mentre infuriavano i più brutali conflitti della storia: basti vedere cosa è successo in Palestina…
Da storico come valuta questo momento storico? Stiamo assistendo a un tramonto dell’Occidente, paventato da alcuni, in favore di economie e stati emergenti in un mondo multipolare sempre più frammentato?
L’Occidente del capitalismo finanziario è ancora egemone; domina il mondo, come se non più di prima. È riuscito a cancellare non solo il proletariato ma anche la borghesia (povero Marx!): lo sfruttamento oggi è talmente generalizzato e introiettato che vi partecipiamo attivamente, offrendoci spontaneamente al marketing globale che signoreggia incontrollato – basta pensare ai social, o allo spamming telefonico che ci bombarda quotidianamente.
Certo, emergono forze, per altro non nuove alla storia, come India e Cina, che, non lo dimentichiamo, ancora nel mondo del XVIII secolo erano le aree tecnologicamente ed economicamente all’avanguardia. Ma, per quanto siano in crescita, sono legate a doppio filo alle grandi forze finanziarie del capitalismo occidentale. Per cui andrei molto cauto nel parlare di multipolarità, in una globalizzazione economica controllata da una ristrettissima oligarchia di operatori mondiali, che non a caso chiamano se stessi master of the universe, cioè i padroni del mondo. Effettivamente lo sono.
La vera novità, mi sento di dire, è il livello di coscienza che tutti noi dovremmo conquistarci, per vivere ogni giorno consapevolmente nel mondo che ci circonda, ed agire per il cambiamento: un livello di coscienza che per esempio lo studio della storia potrebbe aiutare ad acquisire.
Invece tecnologia, sistemi educativi, media fanno sempre più solo puro intrattenimento: per farci dimenticare noi stessi, i problemi individuali e quelli collettivi. Posso ripetere anche qui allora quello che sono andato dicendo ai miei studenti: studiate la storia, siate consapevoli. Ma la consapevolezza raramente è divertente: e oggi sembra che l’unico diritto-dovere rimasto alle persone sia quello di divertirsi.
Dopo l’elezione di Trump la posizione statunitense nei confronti dell’Ucraina di Volodymyr Zelens’kyj è nettamente cambiata, dal pieno appoggio del governo Biden siamo passati a varie manovre di disimpegno tra cui le trattative per la consegna di 500 miliardi (cifra sovrastimata) in terre rare di Kiev come indennizzo di guerra per il sostegno passato. Tutto si è svolto in pochi giorni lasciando le cancellerie europee sgomente. Dunque, la guerra è formalmente finita con la sconfitta dell’Ucraina e di riflesso dell’Europa a cui spetteranno tutti gli oneri?
La sola certezza oggi, a mio parere, è la fine dell’Europa come unità di nazioni, come progetto politico, come ideale comune. E questo per me è un bene, perché nessun essere umano in buona fede e con capacità raziocinanti può essere fedele o peggio affezionato a questa Europa, a questa Unione. Il suo fallimento è assoluto, totale, e persino clamoroso. Se gli europei avessero voluto contare qualcosa avrebbero dovuto porsi subito come forza di interposizione, e come centro propulsore di pace, di accordi, di intese. Hanno fatto l’opposto, mossi da una russofobia che richiama l’antisovietismo dei decenni ante-1989. Ne hanno pagato il fio e la resa dei conti è appena iniziata.
Dunque Trump da sconfitto invece di raccogliere i cocci di una guerra che non avrebbe mai dovuto essere combattuta si sta improvvisando vincitore a cui spetteranno tutti i meriti di una prossima stipula dei trattati di pace? Secondo lei la Russia di Putin cosa vorrà in cambio? La spartizione dell’Ucraina per la ricchezza del suo sottosuolo sarà l’unico argomento sul tavolo delle trattive?
Trump è un giocatore d’azzardo, persegue interessi propri e delle sue cricche multimiliardarie, ma ha promesso (ed è stato votato) la fine del conflitto e la sta delineando a modo suo, dando uno schiaffo agli inetti europei. Ha il merito comunque di togliere di mezzo la retorica dell’ideologia democratica, e far cadere la politica dal cielo fasullo delle ideologie (mendaci) alla terra della concreta realtà. In fondo si tratta di un salutare bagno di Realpolitik. La Russia vuole soltanto non esser ostacolata nel suo tragitto verso il posto che le spetta e le compete nell’arengo internazionale, e non vuole un’Ucraina “spina nel fianco”. Putin non ha bisogno di conquistare l’Ucraina o di sfruttarne le ricchezze, ne ha ad abundantiam, piuttosto non vuole missili alle sue frontiere, né che la Nato abbai troppo vicina. Certo Putin considera ormai russe la terre de Donbass e la Crimea, e non escludo pensi di inserire nel “pacchetto” anche Odessa, città intrinseca alla storia e alla cultura russa.
A Riad Stati Uniti e Russia si sono incontrati per un primo colloquio a cui seguiranno i previsti negoziati di pace. Né Zelens’kyj né inviati europei sono stati ammessi. Dunque, Trump vuole dare inizio ad accordi bilaterali per una possibile normalizzazione dei rapporti diplomatici, ed economici con Mosca. Come valuta nei fatti l’ininfluenza europea? Ci sono margini di manovra per un possibile riavvicinamento tra Russia ed Europa, a cui manca significativamente il gas russo per la propria crescita?
La UE si è auto-eliminata, e sono stati patetici i tentativi di rientrare in gioco di Macron e Starmer. Il gioco è completamente nelle mani del duopolio Trump/Putin. Agli europei, dentro e fuori la UE, è concesso soltanto il ruolo di spettatori. Credo saranno necessari anni, forse decenni per la normalizzazione Europa/Russia, ma nei prossimi anni e decenni l’Europa tutta e l’UE in specie saranno praticamente scomparse dallo scenario degli attori che contano a livello globale. Zelens’kyi è sul punto di essere buttato nel cestino dai suoi alleati/protettori e farà bene a dileguarsi prima di essere fatto fuori dai suoi stessi sodali (complici!) interni.
Il ritorno in Europa ai nazionalismi e ai governi sovranisti sta di fatto ponendo fine al sogno di un’Europa unita, solidale, e coesa. La guerra in Ucraina è stata per lei una leva, di riflesso, per interrompere questo percorso? O è un effetto collaterale non previsto?
Ripeto e ribadisco: la vicenda ucraina, dal 2014 in poi, ha segnato la fine del sogno europeo, e lo ha trasformato in un incubo. Ma ripeto ancora, questo non è di per sé un male, trattandosi di un inutile corpaccione burocratico, costoso, e politicamente irrilevante. Solo eliminandolo dalla scena si può pensare o di ricostituire un nuovo progetto unitario continentale, oppure sostituirlo con un progetto alternativo per esempio l’Unità euromediterranea o addirittura mediterranea tout court.
Secondo lei i tentativi di istaurare un dialogo diretto con Mosca da parte di Trump hanno lo scopo preciso di allontanare Pechino da Mosca rinsaldando alleanze economiche, politiche e militari che attualmente sono solo sulla carta? Secondo lei Mosca preferisce Washington a Pechino?
Sì tutti ripetono questa tesi, ma io sono assai in dubbio. Cina e Russia si sono assai rinsaldate in una unione che non è solo politica ma copre ogni ambito. Non vedo come Trump possa spezzare questo legame. Diciamo che anche se Trump avesse questo obiettivo, partirebbe troppo tardi, quando ormai il blocco russo-cinese è già di fatto costruito. E la Russia ha nella sua vocazione e nella sua storia un elemento ancipite: è europea e insieme asiatica. Se Putin riuscisse a conservare entrambe le relazioni (USA e RPC), farebbe un capolavoro: comunque vada, l’Europa è tagliata fuori, e non ha alcuna chance di rientrare in gioco e si sta prendendo ogni giorno giuste sberle dai russi.
Come valuta il futuro politico di Volodymyr Zelens’kyj? Anche lei ritiene che se anche solo non farà la fine di Saddam Hussein sarà fortunato? Non gli consiglierebbe di dimettersi per potere indire nuove elezioni politiche anche se difficilmente ne uscirebbe vincitore?
L’ex attore è ormai politicamente finito, non serve a nessuno e farebbe un favore a tutti (a cominciare dai suoi amici occidentali) a scomparire, e come ho accennato, personalmente non scommetterei un euro sulla sua stessa sopravvivenza fisica. Altro che elezioni. Ne uscirebbe travolto, se si svolgessero liberamente, cosa di cui c’è da dubitare, visto come si è comportato, mettendo fuori legge tutti i partiti eccetto il suo e tutti i giornali tranne quelli a lui fedelissimi.
Ricollegandoci alle nostre precedenti interviste sulla guerra ucraina, è triste dover dire che erano prevedibili gli esiti a cui stiamo assistendo in questi giorni. Come abbiano potuto far credere all’opinione pubblica che la Russia avrebbe potuto essere sconfitta militarmente (senza neanche la possibilità di un intervento diretto della NATO che avrebbe comportato il rischio di un reale scoppio della Terza Guerra Mondiale) è ancora un mistero, ci sono colpe e responsabilità precise per tutti questi anni di sofferenza. Che scenari ipotizza per il futuro? Sorgeranno in Europa politici illuminati capaci di ribaltare la situazione? O andremo incontro a derive antidemocratiche? Grazie.
Mesta consolazione “l’avevo detto io!”, ma è proprio così. Mezzo milione di cadaveri, un Paese devastato, e pressocché oramai disabitato, un’abitudine alla violenza diffusa a livello continentale, la cancellazione di un tessuto di relazioni Est/Ovest in Europa faticosamente costruito lungo gli anni. E ancora oggi ci sono politici e opinionisti che continuano ad affermare che si può sconfiggere la Russia. Sono mossi, come l’intero Occidente (lo ha rilevato Emanuel Todd nel suo ultimo libro; La sconfitta dell’Occidente, Fazi editore) da una terrificante, insopprimibile spinta nichilistica. Quanto alle nostre classi politiche il panorama è deprimente. Bisogna immaginare un percorso di lunga lena, volto a formarne di nuove competenti, serie, e che abbiano a cuore soltanto gli interessi generali non quelli personali, di clientele, di famiglie, di partiti. Una prospettiva davvero lontanissima.
Il rapido, e per alcuni versi inaspettato, emergere della Cina come potenza globale, in un contesto internazionale sempre più interconnesso e gravato da problemi che necessinano di risposte anch’esse globali e condivise, ha cambiato, forse per sempre se vogliamo, gli equilibri economici e geopolitici favorendo per timore della sua complessità logiche che evidenziano il conflitto come “scontro di civiltà”, “trappola di Tucidide”, “Nuova guerra fredda” tutti termini che identificano una narrazione non priva di rischi e di criticità. Se le scelte vengono fatte non solo in base a calcoli esclusivamente politici, economici e militari, – come ben evidenziano nell’introduzione Agostino Giovagnoli e Elisa Giunipero curatori della raccolta-, ma appunto anche tramite le grandi narrazioni attraverso cui le relazioni tra Occidente e Cina vengono rappresentate, è più che evidente che la logica del conflitto non è una buona strategia per decodificare la realtà e ipotizzare la risoluzione dei problemi. Per ovviare a questo rischio, dalle proporzioni e conseguenze drammatiche e incalcolabili, e dimostrare che un approccio differente esiste, nasce questo libro Cina, Europa, Stati Uniti. Dalla Guerra fredda a un mondo multipolare, raccolta di saggi di autori sia occidentali che cinesi, fondamentale per iniziare a capire un mondo in rapida evoluzione in cui i centri di potere saranno frammentati e polarizzati e in cui Cina, Europa e Stati Uniti dovranno imparare a cooperare per affrontare le sfide che ci attendono. Nella prima parte i fatti vengono analizzati da un punto di vista storico, dalla genesi della guerra fredda, per passare alle relazioni della Cina con l’Occidente tra il 1949 e il 1978, e all’apertura al mondo esterno dal 1978 al 1989, fino alla caduta del Muro di Berlino che se vogliamo ha costituito uno spartiacque le cui conseguenze ancora influiscono sulla storia globale. La seconda parte, più articolata, contiene saggi che ci parlano del presente e delle sue sfide contingenti ad iniziare dal saggio di uno dei due curatori “Il conflitto delle narrazioni”, la cui importanza è evidenziata nell’introduzione. I temi trattati vanno poi dalle relazioni culturali e scientifiche, alla transizione ecologica, alla sinizzazione dell’industria digitale. Di importanza fondamentale poi il saggio dedicato a Taiwan di Lorenzo Lamperti, il possibile casus belli che grava su tutto lo scenario. Non da meno il saggio di Huang Jing che analizza la guerra in Ucraina e le sue conseguenze sulle relazioni internazionali dal punto di vista cinese. Abbiamo evidenziato la pericolosità di adottare una narrazione caratterizzata dalla logica del conflitto, ben due saggi del libro presentano alternative in cui è presente la possibilità di evitare lo scontro tra Occidente e Cina, sia dal punto di vista dell’Europa, e da quello della Chiesa cattolica, seguendo la strada del diaologo inaugurata dal Papa e dalla Santa Sede. Un dialogo necessita che dall’altra parte ci sia un interlocutore con cui confrontarsi senza minimizzare le difficoltà e le differenze di approcci e punti di vista. Per dimostrare coi fatti che questi interlocutori esistono anche dalla sponda cinese, il saggio si chiude con un’ interessante intervista al professor Ge Zhaoguang, una delle voci più autorevoli tra gli storici cinesi, dimostrazione pratica che anche in Cina ci sono seri tentativi di affrontare il discorso esulando da tesi puramente propagandistiche ma avviando un serio confronto tra il proprio punto di vista e altri punti di vista, sulla base di modelli e strumenti di una global history condivisa dalla comunità scientifica internazionale. Le difficoltà non sono ignorate e nè minimizzate, il forte antagonismo tra Cina e Stati Uniti esiste, e anche in Cina sono numerosi i pregiudizi e gli stereotipi che impediscono di comprendere il mondo occidentale. Tuttavia la strada della cooperazione resta l’unica percorribile perchè nessuno neanche una superpotenza può pensare al giorno d’oggi di affrontare da sola sfide globali come il cambiamento climatico o la trasformazione energetica. E di qui l’importanza di ridefinire un nuovo ordine internazionale che sia il più stabile e pacifico possibile.
Agostino Giovagnoli è docente di Storia della storiografia contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Per le edizioni Guerini e Associati ha curato i volumi: Pacem in terris. Tra azione diplomatica e guerra globale (2003), Un ponte sull’Atlantico. L’alleanza occidentale 1949-1999 (2004, con Luciano Tosi), Il mondo visto dall’Italia (2004, con Giorgio Del Zanna), La Chiesa e le culture. Missioni cattoliche e «scontro di civiltà» (2005), Paolo VI. Il Vangelo nel mondo contemporaneo (2018, con Giorgio Del Zanna).
Elisa Giunipero è docente di Storia della Cina moderna e contemporanea e direttrice dell’Istituto Confucio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Per edizioni Guerini e Associati ha curato i volumi: Un cristiano alla corte dei Ming. Xu Guangqi e il dialogo interculturale tra Cina e Occidente (2013), Cina e World History. Materiali didattici per lo studio della Cina nel contesto globale (2017), Uomini e religioni. Sulla via della seta (2018), Xu Guangqi e gli studi celesti. Dialogo di un letterato cristiano dell’epoca Ming con la scienza occidentale (2020).
Proprio quando l’Europa sta affrontando la più grave crisi dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi con tutte le incognite legate alla difficile composizione del conflitto tra Russia e Ucraina, che ormai si trascina da due lunghi anni e che da un momento all’altro può deflagrare in una imprevedibile escalation dalle conseguenze irreparabili, lasciamo per un attimo l’Europa, che a torto o a ragione non è il centro del mondo, per spostarci nell’Indo- Pacifico e analizzare forse il nuovo punto caldo del pianeta dove si giocheranno nei prossimi anni gli equilibri geostrategici mondiali. Parlo dell’isola di Taiwan con la sua capitale Taipei, isola posizionata a sole tre miglia nautiche dalla costa cinese, proprio di fronte al porto di Xiamen, nella provincia del Fujian e roccafòrte militare statunitense e baluardo della Cina non comunista. Dunque un’isola sentinella, con molte similitudini con la Cuba, a parti invertite, degli anni ’60. La Repubblica Popolare cinese non nasconde la sua volontà di riannetterla pacificamente al territorio cinese (come in tempi recenti è accaduto per Hong Kong e Macao) in conformità alla formula teorizzata da Deng Xiaoping di “un Paese, due sistemi”, gli Stati Uniti dal canto loro sono pronti a tutto per mantenerla come punto di appoggio per il controllo del Pacifico. Per cui è sicuramente di estremo interesse la lettura di Taiwan – L’isola nello scacchiere asiatico e mondiale dell’analista indipendente Giacomo Gabellini che con i suoi soliti acume e libertà di pensiero parte dall’analisi storica delle vicende che toccarono Taiwan per giungere, intrecciando i dati economici, politici e militari, a conclusioni personali e non prive di coerenza e originalità. I rapporti tra Washington e Pechino sono messi a fuoco e analizzati nel dettaglio, interessanti le pagine dedicate a Nixon e Kissinger e alla “diplomazia triangolare” culminata con la storica visita ufficiale a Pechino del presidente americano Nixon del febbraio del 1972 che diede l’avvio al riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese come stato sovrano e alla sua inclusione nelle Nazioni Unite (a scapito di Taiwan). Per la Cina Taiwan resta un affare interno cinese e tollera con molto fastidio le interferenze americane che si frappongono a questo, dai cinesi considerato inevitabile, ricongiungimento. Taiwan non ha solo una collocazione geostrategica unica, tanto da essere una vistosa spina nel fianco del colosso cinese, ma è di per sé una piccola potenza economica con centri all’avanguardia (soprattutto nel campo informatico) e capacità tecniche e scientifiche di prim’ordine. Stratega dell’avvicinamento se non dell’alleanza tra Stati Uniti e Repubblica Popolare cinese fu senz’altro Kissinger, abile tessitore di rapporti diplomatici, che comunque lasciò una porticina aperta con Taiwan negli accordi autorizzando il suo governo a rifornire l’isola di sistemi d’arma difensivi per pararsi le spalle da eventuali ripensamenti e gettando quel germe di incertezza che tuttora persiste e che il prof. Li Peng nella sua postfazione non esita a definire vera e propria interferenza statunitense negli affari interni cinesi stigmatizzando il suo ruolo attivo nell’ostacolare la riunificazione dell’isola con la Cina continentale. Il sostegno a Taiwan da parte degli Stati Uniti comunque non venne mai a mancare basti pensare che tra il 1950 e il 1962 gli Stati Uniti erogarono all’isola ben 4 miliardi di dollari di cui 1,5 destinati all’industrializzazione e 2,5 al rafforzamento dell’apparato militare. C’è da dire che ai vari richiami della Cina continentale a ricongiungersi con Pechino con tutte le concessioni del caso, Taipei ha sempre rispedito al mittente le proposte puntando al conseguimento di un’indipendenza anche formale da ottenere mediante l’istituzione di un nuovo Stato opportunamente “de-sinizzato”. Che non esistano rapporti di collaborazione tra Pechino e Taipei comunque non è esatto, basti pensare che le sinergie generate dalla complementarietà tra le strutture produttive taiwanesi e cinesi rendono in una prospettiva anche futura un apporto economico di tale entità che rende Taiwan irrinunciabile per la Cina continentale. Si arriverà mai a uno scontro diretto per il possesso dell’isola? Dio non voglia, un’invasione militare di Taiwan da parte cinese, seppur seguita anche a obiettive provocazioni statunitensi, segnerebbe una via di non ritorno con ripercussioni catastrofiche. Per ora il Dragone attende il momento opportuno per fare le sue mosse, sempre preferendo una via pacifica tra negoziati e sostegno popolare. Per ora la popolazione di Taiwan non sembra volerne sapere di un ricongiungimento con Pechino, ma le condizioni potrebbero cambiare, le alleanze rinsaldarsi e Washington accetterebbe di perdere Taiwan? Staremo a vedere nei giochi delle sfere di influenza che si verranno a creare nel Pacifico e avranno ripercussioni sul mondo intero. Insomma l’affare Taiwan non è così marginale come può sembrare, ma è al contrario da monitorare attentamente calibrando sviluppi e opportunità. Gabellini con il suo documentato saggio (ricca e aggiornata la bibliografia) getta una luce nella comprensione di queste dinamiche e lo fa con successo tanto da essere apprezzato e guadagnarsi la stima di un esperto dell’Istituto di ricerca di Taiwan dell’Università di Xiamen come il prof Li Peng che lo invita addirittura nella sua Università per confrontarsi con gli studiosi cinesi della maggiore e più nota istituzione accademica di ricerca su Taiwan tra le università cinesi.
Giacomo Gabellini (1985) è saggista e ricercatore specializzato in questioni economiche e geopolitiche, con all’attivo collaborazioni con diverse testate sia italiane che straniere, tra cui il centro studi Osservatorio Globalizzazione e il quotidiano cinese «Global Times». È autore dei volumi Ucraina. Una guerra per procura (Arianna, 2016), Israele. Geopolitica di una piccola grande potenza (Arianna, 2017), Weltpolitik. La continuità politica, economica e strategica della Germania (goWare, 2019), Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense (Mimesis, 2021) e Dottrina Monroe. Il predominio statunitense sull’emisfero occidentale (Diarkos, 2022). Vive a Terre Roveresche (PU).
Sebbene di stretta attualità, e ogni storico sa la difficoltà di analizzare fenomeni storici e geopolitici ancora in corso, è possibile comprendere le origini, gli sviluppi e le cosiddette “responsabilità”, per non parlare delle future prospettive, della “Questione Ucraina”? Ci prova Giacomo Gabellini, saggista e ricercatore indipendente, nel suo saggio 1991-2022. Ucraina. Il mondo al bivio edito da Arianna Editrice. Volume che è l’ampliamento, anzi la revisione e riscrittura di un testo precedente, Ucraina: Una guerra per procura che se vogliamo analizzava i fatti prima dell’ “operazione speciale” russa del febbraio 2022. Dopo il 24 febbraio 2022 tutto è cambiato, ma non le premesse di questa crisi, di cui questa data ha definito più che un inizio, un’evoluzione in uno scontro armato ancora più violento e “caldo” dalle ripercussioni e conseguenze imprevedibili. Ma per capire come si è potuto arrivare a questo punto, con tutti i rischi, economici, politici, strategici e geopolitici di un opposizione sempre più diretta Occidente – Russia, è bene partire dal breve excursus storico che Gabellini pone nell’introduzione del volume, che trova i suoi punti nodali sicuramente in alcuni fatti storici insindacabili: il febbraio del 1919, quando durante la conferenza di Versailles si richiese il riconoscimento formale della Repubblica Ucraina; il 1922 quando l’Ucraina entrò ufficialmente a far parte dell’URSS come Repubblica socialista sovietica ucraina; l’Holodmor di cui l’Ucraina era rimasta vittima, assieme al Kazakistan, durante i piani di collettivizzazione agraria forzata programmati da Mosca tra il 1932 e il 1933, che causarono milioni di morti per fame, episodio non marginale per comprendere il riacuirsi dei nazionalismi e l’allergia sempre più marcata verso il “controllo” di Mosca, e in tempi più recenti, l’indipendenza dal 1991 e la rivoluzione di Majdan Nezalznosti, che ha dato l’avvio nel 2014 al conflitto interno, proseguito dal 2022 a tutt’oggi, con la conseguente politica delle annessioni dopo referendum non convalidati dal consesso internazionale. Questi fatti più che punti fermi di un’indagine storiografica servono all’autore per delineare le premesse di un fenomeno geopolitico che, come cita il titolo stesso del volume, pone il mondo a un bivio e sposta, forse irreversibilmente, il baricentro dei futuri equilibri e assetti geostrategici. I pilastri del Nuovo Ordine Mondiale come attestati, forse troppo trionfalisticamente, dal presidente statunitense George H.W. Bush dopo la fine dell’Unione Sovietica, mai come in questi ultimi accadimenti hanno vacillato ponendo definitivamente fine a un assetto unipolare in favore di un assetto multipolare che vede inserirsi nel “grande gioco” mondiale potenze emergenti sempre più agguerrite e consapevoli delle proprie ricchezze e potenzialità tra cui la Cina, più consolidata, e l’India, ancora in nuce. La crisi ucraina, con la sua chiamata a schierarsi, ha posto sicuramente una frattura e uno spartiacque nella storia contemporanea, sempre augurandoci che non degeneri in una guerra atomica che come tutti sanno non prevederebbe nessun vincitore e la fine definitiva della storia, non sicuramente nel senso ottimistico che gli attribuiva Fukuyama. La NATO invece di sciogliersi, dopo la caduta del Muro di Berlino, avendo perso il suo ruolo di contraltare del Patto di Varsavia, mai ebbe un ruolo così attivo dalle guerre balcaniche a oggi, e a questo attivismo è imputato il senso di accerchiamento e il gioco in difesa della Russia che vedendo in pericolo i suoi spazi vitali ha senz’altro reagito, forse in modo scomposto, facendo più parlare le armi che la diplomazia, sebbene canali di colloquio sono continuati forse sottotraccia. Certo l’irrigidimento in posizioni di principio, potrebbero aumentare le difficoltà oggettive nel trovare un compromesso accettabile per entrambi gli schieramenti e soprattutto la sospensione di uno scontro armato (lo scontro strutturale ormai, date le premesse, sembra insanabile) mai così pericoloso e destabilizzante per le vite non solo dei partecipanti diretti al conflitto ma di tutti i popoli, che essendo a rischio gli approvvigionamenti energetici, rischiano anche loro in prima persona. Lo spostamento a est della NATO, avversato sia dal segretario alla difesa William Perry, sia da uno specialista del calibro di George F. Kennan, con le sue analisi dolorosamente profetiche (p.75), sembra dunque uno dei punti nodali che hanno portato all’esacerbarsi di conflittualità mai sopite dalla caduta dell’URSS in avanti, ricollegandosi anche alla visione, teorizzata da Zbigniew Brzezinski, dell’Alleanza Atlantica come veicolo dell’egemonia statunitense sul continente europeo, con l’obiettivo, poi forse mai ammesso apertamente, di balcanizzazione della Russia nel tentativo di minare le basi di una potenza, forse ancora percepita come regionale, ma sicuramente valutata come ostile. L’Ucraina resta il focus del libro e le analisi dell’autore vertono a evidenziare tutti i passi succedutisi per giungere al cosiddetto “tintinnio di sciabole”. L’autore si sofferma anche su analisi culturali, economiche e sociologiche tese a sottolinea da un lato l’importanza per la Russia di mantenere rapporti culturali stabili con le comunità russe fuori confine nell’ottica di un proprio soft power vitale per la coesione sociale. Un altro principio cardine anch’esso poco noto è legato al criterio della “disomogeneizzazione etnica” principio che ha creato enormi problemi nel periodo post-bipolare segnato dalla disintegrazione dell’URSS, tra cui la derussificazione forzata, fenomeno già evidenziato da pensatori e intellettuali imparziale e autorevoli come Solzenicyn.
In fine, non tralasciando il fenomeno delle sanzioni e gli ingenti danni strutturali alle economie non solo del paese colpito dalle suddette, ma anche da chi fattivamente le ha applicate, l’autore giunge alla conclusione che la Federazione russa, ovvero Putin e i suoi collaboratori, erano perfettamente consci delle conseguenze che avrebbe innescato l’aggressione dell’Ucraina, e l’alto prezzo da pagare, perlomeno nel breve periodo, ma si evince che nell’ottica di Mosca la posta in gioco fosse ben maggiore e trascendesse ampiamente la semplice “questione ucraina”. Anzi l’obbiettivo principale fosse il riorientamento e il riposizionamento strategico in un’ottica ascrivibile più al lungo periodo. Infatti il deteriorarsi delle relazioni con un Occidente in vistosa decadenza, come conseguenza principale portò la Russia a rinunciare alla sua vocazione europea, (anche Putin coma Gorbachev ci hanno sinceramente provato), vedendo come unica alternativa il protendersi sempre più verso Oriente, allacciando assetti strategici sempre più saldi con la Repubblica Popolare Cinese, e di conseguenza sbilanciando definitivamente i rapporti di forza nettamente a scapito degli USA. Kissinger inascoltata Cassandra. Triste il destino dell’Europa, stritolata tra questi scontri di assestamento tra titani. Queste almeno sono le conclusioni a cui perviene l’autore in questo saggio denso di informazioni, nozioni e correlazioni, forse solo troppo orientato a comprendere le ragioni della Russia, senza analizzare le ragioni dell’Ucraina, vista quasi solo come pedina utilizzata forse anche surrettiziamente nei giochi di potere dello scacchiere internazionale.
La guerra in Ucraina necessita di essere compresa mettendo a fuoco la verità di ciò che accade non troppo lontano dalle nostre case, ove viviamo più o meno tranquillamente.
Occorre capire, superando il racconto virtuale, spesso artefatto, che gli accadimenti di questi ultimi tempi racchiudono nella loro concretezza la verità di una guerra fatta e subita. Occorre ripristinare quel legame necessario tra la realtà e la verità, fonte e origine di ogni libertà. Per fare ciò non è sufficiente prestare attenzione solo alle notizie filtrate dai mass-media che inondano di immagini e parole il nostro quotidiano, ma occorre comprendere quali siano state le cause remote e recenti di questo conflitto, i motivi storici, culturali, politici e militari. Occorre comprendere chi sono gli ucraini e i russi e come abbiamo interagito durante il corso della storia; che cosa è accaduto in Russia dopo la fine dell’Impero sovietico; chi è Putin e quali siano gli aspetti positivi e negativi del suo mandato presidenziale; quale sia stato il ruolo della NATO, dell’Europa e degli Stati Uniti. Occorre avere chiaro, per quanto è possibile, il quadro generale, per evitare di banalizzare o male interpretare un evento che grava sulla vita di milioni di persone, soprattutto della povera gente che combatte o subisce questa guerra decisa da altri.
Il generale Marco Bertolini e il professor Giuseppe Ghini, ripercorrendo la storia degli ultimi trent’anni, dalla fine dell’Impero sovietico a oggi, spiegano, dal punto di vista geopolitico/militare e storico/culturale, quali sono le cause che hanno condotto al conflitto ucraino: il ruolo dell’Occidente, della Nato e degli altri principali attori internazionali; il grande cambiamento che ha subito la Russia con l’avvento negli anni ’90 del capitalismo selvaggio; l’ascesa di Putin; lo scontro ideologico tra Ucraina e Russia che ha assunto negli ultimi anni toni provocatori e aggressivi. Un quadro esaustivo e oggettivo, al di sopra degli schieramenti, che restituisce al lettore una visione chiara quanto è accaduto e sta accadendo.
Questo saggio, di estremo interesse per le informazioni contenute, si compone di due saggi separati (anzi quasi tre, comprendendo la breve postfazione del professore Leonardo Allodi pp. 239-267 ): il primo scritto dal Generale di Corpo d’Armata Marco Bertolini, e il secondo dal professore ordinario di Slavistica all’Università di Urbino Giuseppe Ghini. Due stili di scrittura diversi, che trattano temi che completano un quadro a dire il vero piuttosto magmatico, per cercare di capire come siamo potuti arrivare a questo drammatico punto. Il professore Ghini senza mezzi termini, come premessa, pone il fatto che la decisione di Putin di invadere l’Ucraina, nel febbraio del 2022, sia da biasimare (non si può in alcun modo giustificare p.131), il generale Bertolini più pragmaticamente (pur definendola tragedia e questo 2022 terribile) parla di conseguenze forse inevitabili in un’ottica prettamente militare. Ma si sa le guerre le combattono i soldati, e le subiscono i civili, e quando si arriva anche solo a un abborracciato trattato di pace abbiamo sempre alle spalle scenari di macerie, perdite umane insostituibili, distruzione di infrastrutture, fabbriche, abitazioni, ospedali, miliardi e miliardi bruciati in armi ormai distrutte. Senza contare le ripercussioni politiche, sociali, e perfino culturali, identitarie, linguistiche, le crisi economiche e le recessioni innescate, i soldi che devono essere stanziati per la ricostruzione, le scorte distrutte, e gli equilibri anche geopolitici da ricostruire. Specie una guerra come questa nel cuore slavo dell’Europa, in un punto geopolitico delicatissimo, come vedremo più avanti. Certo parlando di guerra convenzionale ed esulando dallo scenario apocalittico atomico. Scenario tuttavia drammaticamente sullo sfondo come remota possibilità. Nessuno è sicuro al 100% che Putin, pur professandosi credente, non faccia partire un’atomica.
Detto questo come premessa analizziamo il saggio di Bertolini, conoscitore di uomini e armi. I segnali del fatto che stavamo scivolando verso questa china erano evidenti, pur tuttavia non furono colti nè dall’opinione pubblica, nè dalle classi politiche di più o meno tutti i paesi ora coinvolti. Gli 8 anni di guerra nel Donbas (definita a bassa intensità, e perciò sottostimata improvvidamente soprattutto in riferimento ai rischi e alle incognite che comportava) era sicuramente un campanello d’allarme che avrebbe dovuto far passare notti insonni a parecchi resposnabili di varie cancellerie, ma tutti erano più o meno sicuri che Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina con un esercito regolare (pur nell’autodefinita operazione speciale), almeno fino agli allarmistici comunicati di Biden, giusto poco prima del tragico febbraio del 2022. Insomma non ci siamo svegliati un mattino ed è tutto precipitato, ma le origini, e la concause scatenanti, sono da ricercare lontano, almeno 30 anni fa (come sostiene anche Ghini e spiega bene nel suo saggio) con la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione sovietica e il ruolo della NATO, organizzazione che invece di sciogliersi ha solo cambiato ruolo e missione, da difensore dell’Europa contro la temuta invasione sovietica del passato ora impiegata come strumento di un mondo in via di globalizzazione per sostenere la bontà del modello occidentale. Proprio l’invasione russa dell’Ucraina, sostiene il Gen. Bertolini, ha fatto tornare l’Alleanza alla sua funzione primigenia, sebbene si sia persa per strada la connotazione “comunista”. Non da meno il ruolo delle religioni, e la percezione del nemico, con il passaggio dalla dicotomia tra sfera cristiana occidentale e mondo musulmano con quella di una dicotomia cattolico-protestante e ortodossa. Insomma secoli di progresso e siamo tornati alle guerre di religione dei secoli bui! Ma naturalmente il Gen Bertolini non fa solo riflessioni sociologiche, morali ed etiche si concentra su questioni militari, difficilmente così ben esplicitate nei dibattiti televisivi. Dalla crisi dei Balcani, all’arrivo di Putin al potere il passo è breve, e così si giunge all’evidenza che la Guerra Fredda non è mai davvero finita e gli USA continuano a vedere nella Russia, e soprattutto in questo nuovo politico decisionista al potere, una reale minaccia. Naturalmente l’analisi è focalizzata sull’Ucraina, e su cosa scatenò davvero la crisi del Majdan (per quanto pilotata, i sospetti sono tanti) che dopo scontri di piazza portò a un cambio di regime. Il Gen. Bartolini sottolinea l’importanza di considerare poi cosa successe nel Caucaso per poi passare alle Primavere arabe e alla Siria, in cui il ruolo proattivo della Russia, in difesa di Assad, ha senz’altro esacerbato gli animi di un Occidente sempre più convinto nell’attribuire a Putin tutte le colpe di quasi ogni conflitto sul globo. Dopo la parentesi Trump, e il ritorno al potere negli Stati Uniti dei democratici, si è ripreso il discorso iniziato da Obama (p.75). Da qui in poi il focus è la crisi in Ucraina anche da un punto di vista militare, capitoli molto interessanti che illustrano cosa sia successo in questi tempi inquieti.
Passando al saggio di Ghini si ha un’altra prospettiva che completa la prima, e integra se vogliamo il discorso fatto dal Gen. Bertolini, e che parte dalla frattura tra Russia e Occidente venutasi a creare negli ultimi 30 anni. Prima analizza la Russia (con una piccola premessa sull’Unione sovietica) e poi si arriva finalmente (p.171) all’Ucraina, dall’uscita dall’URSS in avanti. Capitoli illuminanti e densi di riflessioni e giudizi, anche critici, fino allo scontro (p.189) che è comprensibile solo analizzando le due ideologie contrapposte che sono alla base, ideologie che armano le guerre e che nessuno (colpevolmente) ha badato a disinnescare, anzi le hanno alimentate. Ghini ha una concezione molto nefasta dell’ideologie contrapposte alla storia, che invece analizza la realtà e lo ribadisce in diversi punti del saggio con molta convinzione. Gravi omissioni e responsabilità sono indubbie ed è bene che ognuno si prenda le sue colpe (sia da una parte che dall’altra) perchè dove tace la ragione e risuonano le armi ci sono sempre passi da intraprendere che non sono stati intrapresi. Le ragioni che aiutano a comprendere infine, secondo Ghini, non devono assolutamente giustificare una guerra di per sè irragionevole (p.220). Una neppur troppo velata critica all’uso strumentale dei mass media, col tacere alcuni fatti come la strage di Odessa, o l’uccisione del giornalista italiano freelance Andy Rocchelli (24 maggio 2014), per non parlare delle sofferenze e dei morti tragico bilancio della guerra nel Donbas, ed enfatizzarne altri, rientra anch’esso nelle omissioni e nelle responsabilità e dei passi commessi verso la guerra e non la pace. Passi che, pur nella sua stringatezza, Ghini elenca (pp. 213-116). Pregevole la solidità e la competenza di questo studioso che con pacatezza e molto buon senso (raccontandoci anche episodi di vita vissuta) tenta una disanima scevra da pregiudizi e partiti presi, e ottiene il vantaggio di farsi ascoltare. Merita un commento più approfondito la postfazione del professore Leonardo Allodi che avrebbe meritato un ruolo di coautore del testo. Ma è possibile che escano nuove riedizioni aggiornate di questo testo con un suo intervento più articolato. Anche da leggere la nota introduttiva dell’editore, singolarmente appassionata, e mossa dall’esigenza di far emergere e svelare la verità su questo conflitto, a cui siamo giunti a tappe forzate, su un sentiero incanalato da errori di prospettiva, omissioni, e responsabilità più o meno palesi. Puntuale la bibliografia (pp. 229-237).
Giuseppe Ghini
Professore ordinario di Slavistica all’Università di Urbino. Ha scritto diversi libri e oltre cento articoli scientifici sulla letteratura e cultura russa; di recente ha tradotto per Mondadori il capolavoro di Puškin, Evgenij Onegin. Ha ricevuto borse di studio e di ricerca in Russia, Cecoslovacchia, Finlandia, Stati Uniti, tenuto seminari e conferenze in università russe e statunitensi. Da oltre vent’anni svolge attività giornalistica e ha scritto più di 900 articoli su cultura e società non solo russa. Membro del Nucleo di Valutazione dell’Università di Urbino dal 2007 al 2019, Presidente degli Incontri Internazionali Diego Fabbri dal 1996 al 2003, Consigliere e dal 2017 Presidente della Fondazione Rui.
Marco Bertolini
Generale di Corpo d’Armata, ha comandato il 9° reggimento d’assalto “Col Moschin”, il Centro addestramento di paracadutismo, la Brigata Paracadutisti “Folgore”, il Comando Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali e il Comando Operativo di Vertice Interforze dal quale dipendono i contingenti “fuori area” nazionali. Ha partecipato a Operazioni in Libano, Somalia, Balcani e Afghanistan. È Grande Ufficiale al Merito della Repubblica, Ufficiale dell’Ordine Militare d’Italia ed è decorato di Croce al Valor Militare, nonché di Croci d’Oro e d’Argento al Merito dell’Esercito.
Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo l’Ufficio stampa.
Il volume, in un costante rimando tra dinamiche storiche e attualità geopolitica, si rivela uno strumento utile per l’analisi dei complessi fenomeni che hanno condotto, nei secoli, all’odierno conflitto in Ucraina, ad oggi la più importante crisi politico-militare su suolo europeo del XXI secolo. Una lunga traiettoria che dai tempi di Erodoto giunge sino ad Euromajdan, dove l’attenta ricostruzione storica si interseca con efficaci chiavi interpretative. L’autore fa inoltre emergere un mosaico culturale di grande interesse, spaziando in modo erudito lungo i secoli, gli eventi e i popoli di questo crocevia di religioni, imperi e identità: dalla Rus’ di Kiev ai cosacchi ucraini, dalle contese tra russi, polacchi e turchi sino all’era postsovietica e al processo di allargamento ad est della NATO. Un testo che costituisce un unicum negli studi di storia delle relazioni internazionali, cruciale per addentrarsi non solo nelle vicende dell’Ucraina e della sua crisi con Mosca, ma anche per una più generale comprensione degli avvenimenti di quella periferia centro-orientale d’Europa che, come Giorgio Cella sottolinea, è stata nel corso della storia del Vecchio Continente troppe volte gravemente trascurata.
Partendo dall’assunto che per conoscere il presente bisogna conoscere la Storia è indispensabile informarsi e avvalersi di strumenti validi, scientifici, obiettivi e scevri da mere influenze propagandistiche. L’attualità è di difficilissima analisi, ma il progresso ci ha dotati di strumenti che ci rendono sempre più possibile farlo, anzi ci consentono proiezioni (forse ancora parziali, ma tuttavia attendibili) per analizzare anche il futuro. Serve però conoscere la Storia, conoscere le premesse per cui si è giunti in determinate circostanze, per cui mi sento in piena coscienza di consigliarvi la lettura e lo “studio” (lo studio reale, con carta, matita e righello) di Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi di Giorgio Cella, forse uno dei testi più completi e documentati (ottima la ricca bibliografia) attualmente disponibili. Nasce come una tesi di laurea, e sicuramente la parte storica è il fulcro e cuore dell’opera, non comprende i recentissimi sviluppi della crisi russo-ucraina ma è tuttavia un testo indispensabile per chiunque voglia cercare di farsi un’idea il più possibile informata dei fatti. Ricco di rimandi, osservazioni, valutazioni e comparazioni è un testo non noioso che si legge con curiosità e interesse. Chi ha una formazione storica lo troverà di più agevole lettura, ma anche il lettore meno specialistico avrà modo di approfondire temi e dinamiche che sono essenziali per capire il presente, da un punto di vista culturale, sociale, non solo politico (o geopolitico) ed economico. C’è tanta confusione, questo testo aiuta a fare chiarezza e mette a disposizione fatti storici reali e documentati, frutto di una ricerca scientifica storica piuttosto estesa. Dalle origini, all’Ucraina sovietica, al post Guerra fredda, molti nodi si dirimono, molti lati oscuri sono giustamente illuminati, molte questioni anche complesse e articolate trovano una più semplice analisi. Importante il capitolo “Il Mar Nero conteso nell’era postbipolare” che se vogliamo racchiude il fulcro di tutta la contesa russo-ucraina in atto. Capire questo può aiutare anche a capire il presente. Come da leggere attentamente il capitolo finale e le conclusioni. Come punto di partenza, per approfondire lo studio anche su altri testi, mantenendolo come linea guida, è sicuramente importante, come il paragrafo 5. del Capitolo 9. che tratta la cessione della Crimea da parte di Chruscev (rex in regno suo est imperatur).
Prof. Giorgio Cella È dottore di ricerca in Istituzioni e Politiche all’Università Cattolica di Milano, dove svolge attività di docenza nell’ambito del corso Storia e politiche: Russia ed Europa orientale. Come analista geopolitico ha all’attivo decine di articoli, saggi e pubblicazioni scientifiche di politica internazionale, ed è stato osservatore elettorale per l’OSCE nelle elezioni in Ucraina del 2019.
Benvenuto Tiziano e grazie di aver accettato questa nuova intervista. Bando ai preamboli data la grave situazione internazionale, mai così fluida e degli sviluppi imprevedibili. Siamo al 219° giorno di guerra “aperta” da quando l’esercito russo è entrato militarmente in Ucraina, tenendo presente la guerra “ibrida” che si trascina dalla fine del 2013 o per meglio dire dal “presunto” colpo di stato di piazza Maidan, la rivoluzione della piazza dell’Indipendenza. Putin annette territori, dalla Crimea in avanti, senza badare al riconoscimento da parte degli altri stati, delegittimando in parole povere sia il Diritto internazionale, che i dettami dell’ONU, che la prudenza. Perché secondo te usa questa strategia apparentemente senza criterio?
Putin vuole rompere l’Ordine Mondiale in essere dalla fine della Guerra Fredda, ovvero l’egemonia statunitense nel Mondo. La necessità di annettere territori che separino la Federazione Russa, dai paesi aderenti, alla NATO è dettata dalla storica paura dell’accerchiamento e quindi dalla necessità di creare profondità strategica. Per quanto riguarda il Diritto Internazionale, per Mosca è solo una costruzione occidentale, regolarmente violato quando fa comodo anche dagli USA (vedi Iraq e altre invasioni di stati sovrani compiuti da Washington).
Tra poche ore, probabilmente quando uscirà questa intervista sarà già avvenuto, a Mosca Putin si appresta a ufficializzare l’annessione di quattro regioni amministrative dell’Ucraina: Donetsk, Louhansk, Zaporijia e Kherson. Che conseguenze avrà un passo simile, di tale gravità sul corso della guerra? Se quelle regioni diventeranno territorio russo, oltre a violare l’integrità territoriale dell’Ucraina, già messa in criticità con l’annessione della Crimea, Putin sarà legittimato a difendere il territorio “russo” anche con l’atomica. Tutto ciò implica sia conseguenze giuridiche che politiche che economiche. E Biden e NATO non staranno certo a guardare come spettatori inerti. Forse neanche Pechino sarà d’accordo, riferendoci a Taiwan e alla sua sensibilità verso l’integrità territoriale delle nazioni.
Cambierà l’impegno russo nella guerra. Putin invierà sempre più uomini e mezzi, inoltre ci sarà meno riguardo per le installazioni civili. In merito alle armi nucleari, non credo che il Cremlino le utilizzerà, in quanto scatenerebbe una escalation nucleare di proporzioni immani. Pechino è d’accordo solo con ciò che gli fa comodo, oscilla da una posizione all’altra con molta disinvoltura.
Quali sono i piani di Putin? Sono mutati nel corso di questi ultimi mesi? Chi lo consiglia? Quali sono i suoi più stretti collaboratori?
Sicuramente il ministro della difesa Šojgu, l’unico che abbia realmente cognizione della situazione sul terreno. I piani sono sempre gli stessi: portare l’Ucraina fuori dall’orbita NATO e occidentale.
Puoi delinearci un bilancio di questi mesi di guerra da un punto di vista strategico e militare?
Lo scopo principale dell’analista non è quello di fare la “cronaca della guerra” come fanno i giornalisti ma di cogliere la differenza tra le tendenze di lungo periodo e le oscillazioni momentanee. A lungo infatti sia gli analisti che il pubblico si sono chiesti nel corso di questi oltre 7 mesi di guerra se le varie sconfitte alle quali sono state sottoposte le armate di Mosca siano stata delle semplici battute d’arresto (ascrivibili a momentanee oscillazioni) oppure, prese complessivamente, rappresentino il segnale che “la marea ha cambiato il suo corso e la guerra avrà ora un esito favorevole all’Ucraina”.
Anticipo già la risposta dicendo che: no, nonostante tutto non è condivisibile l’affermazione che l’esito della guerra stia cambiando in favore di Kiev, cerchiamo nondimeno di analizzare il tutto in maniera asettica per capire come siamo arrivati a questo punto e come le cose potrebbero evolvere nel prossimo futuro.
È indubbio che l’Ucraina non sta resistendo da sola. È già uno scontro USA NATO Russia, si può secondo te tornare indietro? che passi consiglieresti di fare, che compromessi sarebbero necessari perché davvero non diventi una Guerra Mondiale a tutti gli effetti?
Gli USA e la NATO sono coinvolti fin dall’inizio, direi da molti anni, e non credo si possa tornare indietro. La guerra ucraina è uno scontro tra Russia e USA, l’Europa si trova nel mezzo e sta subendo danni seri.
Il vertice di Samarcanda tra Russia, Cina ha secondo te consolidato l’asse strategico Russia – Cina? O pensi la Cina (insieme all’India) sia pronta a defilarsi magari in extremis se la situazione sfugge di mano?
La Cina guarda solo al proprio interesse, gli assi si possono rompere. Ovviamente Pechino necessita di un alleato forte per contrastare gli Stati Uniti. L’India sta continuando nella sua tradizione di paese non allineato, ma osserva la Cina e le mosse che farà.
Grazie delle risposte, spero siano utili per fare chiarezza.
Grazie professore di questa nuova intervistadopo219 giorni di guerra, dalla cosidetta “Operazione speciale” in Ucraina della Russia. Le domande che le farò non verteranno unicamente sulla “Questione ucraina” nello specifico ma anche soprattutto sulle ripercussioni di questo scontro armato “aperto” sulle più ampie Relazioni internazionali. Volendo essere ottimisti, o perlomeno ragionevoli, il conflitto atomico non scoppierà e si raggiungerà un compromesso che ricomponga le divergenze per quanto insanabili. Posta la premessa dunque, che tutti ci auguriamo non sia smentita dai fatti, che forse, anche tra alcuni mesi, la pace tra Russia e Ucraina sarà siglata, le relazioni tra Russia e Occidente non saranno più le stesse. Come valuta lo spostamento a Oriente della Russia, già solo alcuni anni fa impensabile, e la sua prevedibile conseguente asiatizzazione?
Accolte le cautele, condivise le speranze, si tratta di accettare che le cose del mondo d’oggi sono molto diverse da quelle di qualche anno fa. Per dirla alla buona, il mondo (intendo quello nel quale si muovono gli stati) è andato incontro a una specie di disfacimento complessivo, allo sgretolamento di tutto quello che se ne pensava, e anche di quel che se ne scrisse – e di quel che dicono gli studiosi! Fino a pochissimi anni fa, si parlava di “New American Century”, di un nuovo mondo liberale, di nuovo ordine democratico: ebbene, le cose stavano all’esatto contrario. Mi sono sforzato, un’infinità di volte, di spiegare che il nostro tempo è quello in cui siamo fuoriusciti da un’età ordinata e solida, con qualcuno che comandava il mondo, e tanti altri che obbedivano. Ma poi il giocattolo si è rotto, e il mondo non è più pacifico e ordinato, ma è al contrario caduto in un vortice di disgregazione e di ottusità. Un solo esempio: tutti sapevamo che l’avventura afghana non poteva che finir male (e per tutti! afghani e americani), ma fino all’agosto del 2021 nessuno se ne era preoccupato. Tutti (o almeno chi aveva il compito di essere informato) sapevano che nel 2014 Putin aveva già occupato la Crimea e che una “piccola” guerra era dunque iniziata – ma nessuno se preoccupò.
Dico ciò perché il vero e grande (nonché sottaciuto) problema delle relazioni internazionali oggi è proprio l’ignoranza, condita di superficialità e banalizzazione. Le (ridicole) chiacchere di molti quotidiani o di star di talk show, o i diari di guerra che molti quotidiani ci ammanniscono giorno per giorno sull’andamento delle operazioni militari in Ukraina ci dicono che non sanno guardare più in là del loro naso. L’idea era che si trattasse di episodi che avrebbero esaurito la loro portata nello spazio di qualche settimana e con qualche centinaio di morti… Non è la prima volta che uno stato decide di annettersene un altro. Un secolo e mezzo fa il Messico rifiutò di cedere la “sua” California, che tale era sotto ogni qualsiasi ipotizzabile principio, e gli Stati Uniti non fecero altro che dichiarare guerra al Messico (regolare e normale stato secondo il diritto internazionale del tempo) e conquistare quella California che, se oggi non fosse degli Usa avrebbe avuto ben diverso destino.
Detto meno polemicamente (ma senza torcere un capello alla verità storica), la storia dell’ultimo mezzo secolo può essere così riassunta: caduta del Muro di Berlino e fine del bipolarismo; apparente vittoria dell’Occidente; declino (drammatico) dell’URSS che addirittura scompare dalle carte geografiche, creazione di un nuovo stato che pretendeva conservare il suo vecchio ruolo di seconda più grande potenza del mondo, ma era in realtà un paese di dimensioni medio-piccole, con una popolazione limitata, un PIL penoso (esclusi petrolio e gas che non sono “prodotti” ma pure e semplici risorse naturale), un sistema industriale arretrato, una cultura declinante (né Dostojevski né Tolstoi abitano più là) – una popolazione triste povera e sovente affamata. Da parte sua, l’Occidente era soddisfatto dei suoi successi e dei suoi privilegi e considerava ognuna delle crisi locali (Iraq, Siria, Libia, Yemen, e via discorrendo) puri e semplici casi della vita che, prima o poi si risolvono da soli…
A fronte dell’ignavia di una società politico-internazionale ottusa stanno però alcune migliaia di persone uccise invano: quella che si sta scrivendo è una delle più brutte pagine della storia del mondo – e non solo occidentale, come se tutta una tradizione storica si stesse destrutturando senza aver ancora (per fortuna?) capito come si potrebbe costituire una nuova società internazionale.
Le parole sono importanti, specie quando si parla di Relazioni internazionali, e Scienze diplomatiche, l’utilizzo di alcuni termini a discapito di altri può essere essenziale anche quando si sta cercando di comporre una pace mai così difficile dal termine della Seconda Guerra mondiale ad oggi in Europa. Che parole utilizzerebbe per delineare una pace possibile? La Russia accetterà mai il concetto di integrità territoriale, vero punto di divergenza con la Cina, penso a Taiwan. Se no ci si incanalizzerebbe nel “due pesi e due misure”.
Posso così passare al secondo punto: come potrebbe essere la pace? La domanda è troppo complessa per una risposta bruciante, ma posso dire che sto finendo di scrivere un libro che parla dell’esatto contrario, e cioè di che cosa sia la guerra, non in termini di vittoria e sconfitte, di armi e di conquiste, ma del suo significato: mentre la pace ha un significato profondo – regolamentare i rapporti tra decine e decine di stati che agiscono in nome dei propri cittadini e non perseguendo un interesse nazionale che proprio non si sa che cosa sia –e utilissimo perché è la condizione materiale per la vita degli esseri umani, la guerra non è altro che la condizione materiale per la loro morte.
E allora, che senso ha il concetto di “integrità nazionale”? Essa non è altro che una parentesi, più o meno lunga, della storia materiale (riferita ai territori e non ai confini, che non esistono) di determinate porzioni del pianeta, delimitata tra un assetto politico-istituzionale e un altro. Né la Russia né la Cina possono immaginare che cosa sarà del futuro, ma si può immaginare che la prima continuerà a declinare a lungo, e la Cina resterà alla finestra per altrettanto tempo. La prima è povera e lo sarà di più, la Cina si limiterà, per ora, a curare la propria crescita “controllata” e non più disordinata. L’una e l’altra hanno condizioni esistenziali grandi e opposte: la Russia è più grande della Cina, ma la sua popolazione è la decima parte di quella cinese. In termini di pura forza potenziale non c’è partita perché la prima è circondata, a est e a ovest; la Cina ha invece l’immenso spazio dell’oceano pacifico…
Può esplicitarci il concetto di dottrina del contenimento della Cina?
La Cina non può più essere materialmente contenuta perché è l’unico stato che dispone di tutte le risorse, umane e materiali, per resistere in qualsiasi condizione. Ma essa ha una specie di “palla al piede”, la sua popolosità. Dovesse mai richiedere alla sua popolazione uno sforzo comune e unitario, difficilmente riuscirebbe nello scopo e, anzi, rischierebbe di provocare sommosse o addirittura assalti al potere centrale. Ma la Cina ha anche un passo lungo e lento: il caso di Hong Kong lo dimostra. E’ nelle mani dalla Cina da ormai un quarto di secolo e i costi politici dell’”invasione” sono stati minori dei vantaggi economici conseguiti. Un’ipotesi-Taiwan sarebbe ovviamente molto più complessa e sanguinosa, più per motivi storici che attuali, e forse la Cina potrebbe accontentarsi di rivendicare una sua vaga proprietà sull’isola, e aspettare che le cada tra le braccia, anche tra molti anni.
Se poi si immagina un contenimento fatto di postazioni missilistiche occidentali collocate tutt’intorno alla terra e all’oceano, si farebbe null’altro che, per un verso, provocare inutilmente la Cina e, per un altro, cercare di realizzare un compito “impossibile”, perché la Cina ha confini troppo grandi e lunghi per poterli controllare.
Insomma, l’Asia continentale è ancora lontana, e nell’Asia c’è la Cina. Dunque, non è vero non lo è ancora, che “la Cina è vicina”.
La progettazione della nuova governance mondiale rientra tra gli obiettivi strategici ritenuti più rilevanti dalgoverno di Pechino?
Non credo che la Cina abbia, oggi come oggi, interessi strategici in riferimento all’ordine mondiale. Per dirlo con un paradosso, la Cina è sufficientemente grande per bastare a se stessa: che interesse potrebbe avere a mettere le mani sull’ordine mondiale? Direi che non rientra neppure tra le ipotesi di più lungo respiro. Governare la Cina è già come governare mezzo mondo… e poi sembra più interessata all’Africa e alle sue risorse che non all’Europa e ai suoi capricci.
E’ più che evidente che Cina e India a Samarcanda abbiano consigliato, se non intimato, alla Russia di terminare al più presto questa controversia politica e territoriale. Il progresso economico ha bisogno di pace e stabilità. Ritiene corretta questa mia analisi?
Corretta, ma inevitabilmente astratta, perché tutti vivrebbero meglio se… Che la Cina non voglia essere “disturbata” nel suo cammino è chiaro, ma lo stesso non si può dell’India, popolosa come la Cina, ma territorialmente un terzo. La sua storia recente e il regime nel quale si arrotola attualmente (ivi comprendendo un bassissimo rispetto dei diritti umani) ne fanno uno stato marginale e quasi irrilevante – benché abbia tutte le possibilità di assumere ruoli ben diversi in futuro. Ma non dimentichiamo – e vale per tutti – che non essendoci ancora stato, il futuro potrà essere qualsiasi cosa, che lo vogliamo oppure no.
L’America viene accusata di “unilateralism, exclusionism”, soprattutto riguardo all’irresponsabile e “sconsiderato” abbandono dell’Afghanistan, che segna un duro colpo nella lotta contro l’emergenza terroristica. Come gli Stati Uniti giustificano questa scelta?
In un mondo orfano dell’Impero, il multipolarismo è la sola alternativa non bellicosa allo scivoloso disordine incombente che minaccia da vicino vitali interessi europei. Lo pensa anche lei?
Queste ultime domande, che riportano al centro USA, equilibri, alleanze, ordinamenti, ricostruzione di assetti o invenzione di altri nuovi mi appaiono assolutamente insondabili: si direbbe che tutto si sia invecchiato. Gli USA hanno avuto un rendimento pessimo in Afghanistan, dal 2001 in poi, e in Iraq, in Siria, nei rapporti con la Turchia, E poi in tutto il Medio Oriente allargato, e nella questione palestinese, in Africa non sono riusciti né ad aiutare la Francia né a sostituirla nello sfruttamento ancora possibile.
Per sintetizzare, direi che gli Stati Uniti stanno dando la peggiore loro possibile immagine nel mondo e sul mondo. La politica estera americana (e cerchiamo di dimenticare casi come quello cileno del 1973, e in diverse altre parti dell’America latina, il “giardino di casa”) appare assolutamente incapace di affrontare la realtà, di consigliare ai governanti delle linee-guida ragionevoli e di farsi un’idea del mondo che abbia una certa compattezza e consequenzialità, di consigliare gli alleati proteggendoli o guidandoli nei tortuosi sentieri della politica internazionale.
Più in generale, il mondo ha da tempo perduto una sua coerenza e una progettualità pacifica. Ho giò detto, molte volte, che l’idea che mi faccio del mondo attuale è quella di una società non soltanto in crisi, ma in gravissimo declino, e che soltanto qualche immenso evento traumatico potrebbe incidere su esso in modo radicale: peccato, però, che questo modo abbia un nome ben preciso: guerra!
Terminerei l’intervista chiedendole a che opera sta lavorando adesso, e se può anticiparci i temi centrali. Grazie.
Sono vecchio, e questo sarà verosimilmente il mio ultimo lavoro. E poi ho già fatto cenno all’inizio al mio attuale lavoro: il tentativo di dimostrare che la guerra non è un evento casuale o involontario, né il frutto del delirio di menti malate, né di una perversa fascinazione. Essa è, purtroppo, la più immane e devastante forma di “razionalità” che possa esistere. Nessuno – fuor che i pazzi – ama la guerra e chi la fa è perché ha delle ragioni (buone o cattive: ma questo è un altro paio di maniche) per ricorrervi. Questo è il vero dramma della guerra.
Il 28 febbraio 1815 la vedetta di Notre-Dame-de-la-Garde segnalò il tre alberi Pharaon, proveniente da Smirne, Trieste e Napoli.
Come al solito, subito un pilota si mosse dal porto, costeggiò il castello d’If, e andò ad abbordarlo tra capo Morgiou e l’isola di Riou.
E come al solito, subito lo spiazzo del forte Saint-Jean si riempí di curiosi. Perché a Marsiglia l’arrivo di una nave è sempre un grande avvenimento, soprattutto quando quella nave è stata costruita, armata e stivata, come il Pharaon, nei cantieri dell’antica Focea, e appartiene a un armatore della città.