Archive for the ‘Visioni di cinema’ Category

:: FILM SU BERLINGUER: AGIOGRAFIA PIU’ CHE BIOGRAFIA, a cura di Antonio Catalfamo

19 novembre 2024

Ho visto il film di Andrea Segre su Enrico Berlinguer. La mia curiosità è stata stimolata dalla grande propaganda che intorno ad esso è stata sapientemente orchestrata attraverso i mass-media. Confesso di essere rimasto deluso. Sia chiaro: il regista ha dimostrato tutta la sua competenza tecnica e l’attore protagonista ha dato ampio saggio della sua professionalità.

Ma, al di là dell’aspetto prettamente tecnico, si pone inevitabilmente la questione dei contenuti, del modo in cui sono stati presentati al pubblico gli avvenimenti oggetto della rappresentazione cinematografica. Ho trovato il film marcatamente agiografico. A mio avviso, la «strategia comunicativa» perseguita abilmente dal regista è stata quella di coniugare due esigenze fondamentali.

Da un lato, assecondare la nostalgia intorno alla figura di Berlinguer che anima una fascia di pubblico che ha condiviso, per motivi generazionali, la sua esperienza politica di segretario nazionale del Partito comunista italiano. Si tratta di un’ampia area di persone che, nei decenni a seguire, hanno perlopiù seguito un percorso comune, che è quello dell’adesione ai vari partiti (Pds, Ds, Pd) che sono nati per effetto dello scioglimento del Pci e che trovano conforto nella politica del «compromesso storico» portata avanti da Berlinguer per giustificare la scelta di un processo politico che si è concluso con la nascita di un soggetto, il Partito democratico, che ha unito in sé una parte degli ex comunisti e una componente dell’ex Democrazia cristiana.

Dall’altro lato, il regista ha voluto consolidare una certa immagine di Berlinguer e del Pci a beneficio delle nuove generazioni, presenti e future. Un progetto ambizioso, che sicuramente è destinato ad incidere e ad ottenere risultati tangibili.

Un film agiografico, dicevamo, e, per ciò stesso, poco problematico, conseguentemente esaltatorio e tutto volto ad agire sulla sfera emotiva del pubblico, piuttosto che sulla riflessione critica e, per quanto riguarda i più anziani, anche autocritica.

E’ vero: la personalità di Berlinguer viene ricostruita come tormentata, angosciata dal susseguirsi di avvenimenti drammatici, che hanno un epilogo disastroso, seppur improntata ad alcune scelte di fondo che il politico intende perseguire in maniera intransigente. La «grande ambizione», di cui parla il titolo del film, è quella di dar vita, attraverso il «compromesso storico», ad una collaborazione tra le maggiori forze politiche di estrazione popolare, la Dc e il Pci, per realizzare nel Paese un sistema di riforme tale da assicurare un cambiamento in senso democratico e progressista.

La ricostruzione storica degli avvenimenti è, però, tendenziosa, tutta incentrata sulle passioni del protagonista, sulle sue idee, perseguite con coerenza, sul suo spessore umano e politico-culturale. La prima vittima sacrificale è rappresentata dal dibattito interno al Pci suscitato dal «compromesso storico». Un dibattito che fu aspro, vide posizioni fortemente contrapposte, anche se, in buona parte, fu soffocato dal segretario e dal gruppo dirigente raccolto intorno a lui con la defenestrazione dei suoi antagonisti o con la loro emarginazione attraverso metodi molto discutibili e tutt’altro che democratici.

Nel film questi antagonisti vengono ridotti al rango di semplici comparse, alle quali viene affidata la pronuncia di qualche frase. E’ questa una rappresentazione molto riduttiva di personaggi come Umberto Terracini, fondatore del partito nel 1921, assieme a Gramsci e a Togliatti, condannato dal regime fascista a 22 anni di reclusione, presidente, nell’immediato secondo dopoguerra, dell’Assemblea Costituente, a cui fu affidato il compito di redigere la nuova Costituzione, che porta in calce la sua firma, capogruppo del partito al Senato per lunghi anni e figura di primo piano della lotta politica; come Pietro Ingrao, al quale viene affidata nel film una frase isolata, seppur significativa (laddove egli contesta il progetto di realizzare il cambiamento della società italiana collaborando con la Dc e con uomini come Andreotti che hanno malgovernato per decenni il Paese e sulle cui spalle si addensano pesanti responsabilità); come Luigi Longo, segretario del partito prima di Berlinguer e poi presidente, che manifestò tutta la sua contrarietà al «compromesso storico», a partire dalla stessa definizione adottata, ma che nel film non fa neanche capolino.

Armando Cossutta compare di sfuggita nel momento in cui viene destituito da Berlinguer dal suo compito di tenere i rapporti con il Pcus, sostituito da Gianni Cervetti, e affidato al settore degli Enti locali, e pronuncia brevi frasi che racchiudono la sua preoccupazione per una rottura con l’Unione Sovietica nel momento in cui il Pci è esposto a gravi pericoli che provengono da tutt’altra direzione, come lo sviluppo degli avvenimenti dimostrerà ampiamente. L’immagine di Cossutta come semplice uomo di Mosca è anch’essa molto riduttiva. Si tratta di un dirigente che viene dalla Resistenza ed è stato chiamato a far parte della segreteria nazionale dal segretario che ha preceduto Berlinguer, Luigi Longo, per l’appunto. In linea con le posizioni di quest’ultimo, è stato pubblicamente contrario all’intervento delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia, e, successivamente, sotto la segreteria Berlinguer, all’intervento sovietico in Afghanistan, nel 1979. E’ la persona a cui Longo ha affidato il compito di occuparsi dei rapporti con l’Urss per conto del Pci, del quale ha rappresentato gli interessi nelle relazioni bilaterali.

Nel film non compare Ambrogio Donini, storico delle religioni, docente universitario, uno dei capi del Centro esteri del Pci durante il fascismo, esule in vari Paesi nel ventennio della dittatura mussoliniana, autore di un tentativo di liberare Gramsci dalla prigionia attraverso una trattativa mediata dal Vaticano, primo lettore dei Quaderni del carcere, assieme a Togliatti, pervenuti avventurosamente in copia. Donini è il vero punto di riferimento del Pcus in Italia. Sarebbe un’offesa alla sua cultura accademica considerarlo un grigio e dogmatico uomo d’apparato. E’ uno di quelli con i quali Berlinguer ha usato la mano pesante, escludendolo nel 1979 dalla Commissione Centrale di Controllo senza neanche preavvisarlo, come emerge dalla corrispondenza epistolare intrattenuta da Donini con Nino Pino Balotta, già deputato comunista nelle prime tre legislature della Repubblica e anch’egli amico dell’Urss, come uomo di cultura e scienziato di fama internazionale.

L’elenco di coloro che sono stati estromessi ad opera di Berlinguer e dagli uomini che lo attorniano è abbastanza lungo. Si tratta di dirigenti di vecchia data che hanno servito la causa in circostanze difficili, pagando di persona. Un patrimonio di esperienze di cui Berlinguer ha ritenuto di dover privare il partito, mettendo al loro posto persone che poi l’hanno sciolto, come Achille Occhetto, Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Piero Fassino (solo per fare alcuni nomi).

Il film rappresenta il dramma personale di Berlinguer di fronte al rapimento del segretario della Dc, Aldo Moro, e al fallimento del «compromesso storico». Ma non dà conto di quello di migliaia di militanti e di ex dirigenti, defenestrati ai vari livelli, che hanno subito enormi discriminazioni nell’ambito del nuovo sistema creato da Berlinguer assieme alla Dc e al quale è stato dato il nome di «consociativismo».

Non mostra gli effetti nefasti della politica della «concertazione» nei confronti della massa dei lavoratori. Qui basta ricordare che, lungo la scia del «compromesso storico», Luciano Lama, segretario della Cgil, con la «svolta» dell’Eur, nel 1978, accettò la politica di riduzione dei salari, in nome della partecipazione dei lavoratori ai sacrifici imposti dalla crisi economica, in cambio di un promesso aumento dell’occupazione che non si ebbe.

Non rappresenta l’effetto politico principale del «compromesso storico» nell’ambito della sinistra italiana: l’indebolimento del Psi (di fronte ad un accordo tra i due maggiori partiti non poteva che risultare soccombente), la conseguente emarginazione interna del segretario pro tempore Francesco De Martino, l’ascesa al potere di Craxi, in nome dell’autonomismo socialista, che portò da lì a poco alla sua investitura a segretario del partito. I rapporti tra comunisti e socialisti ne risultarono compromessi per sempre e le prospettive di un’alternativa della sinistra alla Dc svanì.

Il film di Andrea Segre ritiene opportuno concludere con il rapimento Moro, tralasciando tutti gli aspetti che ho segnalato e la loro proiezione distruttiva sulla vicenda politica futura.

E’ un film che fa leva sull’emozione acritica e sulla nostalgia, presunta e ingiustificata, piuttosto che sulla ragione critica e sulla riflessione storica, molto più complessa ed articolata.

:: Dal libro al cinema: Le Chat di Georges Simenon

27 ottobre 2024

Banlieue parigina, primi anni ’70, un’anziana coppia di coniugi vive il capolinea di un amore iniziato in gioventù con le migliori intenzioni. Se poi nella parte di Julien e Clémence troviamo Jean Gabin e Simone Signoret non possiamo che assistere a uno scontro tra titani. Tratto dal romanzo Le Chat di Georges Simenon Le chat – L’implacabile uomo di Saint Germain diretto da Pierre Granier-Deferre è un gioiellino da riscoprire o da rivedere per chi lo conoscesse già. La storia narra le dinamiche di coppia di due anziani pensionati: Julien Bouin, ex tipografo, e Clémence, ex artista circense, rimasta invalida dopo una caduta. Pur apparentemente non amandosi più, dopo 25 anni di matrimonio, senza figli, non riescono a lasciare la casa che un tempo li ha visti felici, casa che sta per essere abbattuta per i nuovi piani urbanistici del quartiere. La loro quotidianità si trascina monotona anche se in realtà nasconde tensioni e rancori profondi che esplodono quando Julien porta a casa un gatto a cui riserva tutte le sue attenzioni e il suo affetto.

Clémence gelosa lo uccide e da quel momento Julien, per ripicca, interrompe ogni forma di comunicazione con lei provocandole grande sofferenza. Il film esplora temi come la solitudine urbana, l’amore in tarda età e la complessità delle relazioni umane, mostrando come, nonostante le tensioni, i due coniugi non possano fare davvero a meno l’uno dell’altra. Tanto che quando Clémence morirà di dolore, Julien la seguirà subito dopo non potendo più vivere senza di lei. La regia sobria e discreta di Pierre Granier-Deferre lascia campo libero a Gabin e Signoret di rivaleggiare in bravura mettendo in gioco tutte le loro doti attoriali per esprimere la complessità di un amore le cui braci non sono del tutto spente sebbene la dinamica del conflitto abbia prevalso e avvelenato sentimenti come la tenerezza e la complicità. Storia di per sé semplice, sono le sfumature espressive dei due attori che la rendono coinvolgente e toccante, come tra l’altro accade con la penna di Simenon, lasciando nello spettatore un retrogusto amaro e malinconico.

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Ben accolto dalla critica all’uscita del film, fu considerato da Gabin la sua migliore intepretazione del dopo guerra. Il ruolo del vecchio brontolone ben gli si addice e lascia trasparire la sua capacità di immergersi in personaggi conflittuali, e incapaci di risolvere disaccordi passati. Sebbene il personaggio che interpreta di per sè non dovrebbe ispirare simpatia, la sua calda umanità lo riesce a rendere umano e commovente. Stessa cosa riesce a fare Simone Signoret, riuscendo a trasmettere al suo personaggio forza e determinazione, ma anche una sofferta vulnerabilità che ne rivela l’umanità e la grande infelicità. Essere trascurata, non desiderata, non compresa la isola in una profonda solitudine che la porterà alla morte senza che il marito abbia alzato un solo dito su di lei, a evidenziare quanto le dinamiche psicologiche siano altrettanto devastanti che la violenza fisica. Tutto è comunque sfumato, evocato più che descritto, con garbo e lievità. Interessante.

:: Visioni di cinema: L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci

25 ottobre 2024

Film di culto, vincitore di 9 premi Oscar, tra cui miglior film, e migliore regia, L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci è un film che ha fatto la storia della cinematografia mondiale, valorizzando le eccellenze italiane dell’artigianato cinematografico, dal montaggio, alla scenografia, ai costumi, al truccco. Molto si è detto del film, e molto se ne parla ancora oggi, considerato che fu girato nel 1987, e la tecnologia digitale era ancora agli albori, e per le scene di massa vennero utilizzate comparse in carne ed ossa, che lavorarono per mesi accanto allo staff della produzione. Nel 2013 è stato restaurato utilizzando il digitale ma in tutta sincerità l’opera era perfetta già in originale. Che dire ancora di un film così iconico che ha se vogliamo cambiato la percezione che abbiamo del momento storico preciso in cui l’antica società cinese feudale diventava una repubblica ed entrava nella modernità? Bertolucci presentò la sceneggiatura alle autorità cinesi che l’approvarono dandogli l’autorizzazione, forse per la prima volta concessa a un regista occidentale, di girare molte scene all’interno della Città Proibita, dando veridicità alla storia perlopiù incentrata sul personaggio di Pu Yi, l’ultimo imperatore cinese, interpratato dall’allora emergente John Lone, in un ruolo significativo per gli attori di origine asiatica (anche se non vinse piuttosto inspiegabilmente nessun premio per questa parte). A impreziosire il cast Peter O’Toole, nella parte di Sir Reginald Fleming Johnston, diplomatico, docente universitario, e precettore personale dell’imperatore cinese Pu Yi, autore di “Il crepuscolo della città proibita” (Twilight in the Forbidden City), con prefazione dello stesso Pu Yi. Bertolucci optò per una visione non lineare della storia, costruendo il montaggio alternando flashback e momenti presenti, con il pretesto che nel campo di prigionia dove Pu Yi venne internato come criminale di guerra gli fu chiesto di riscrivere la sua storia, dall’infanzia, alla Seconda Guerra Mondiale. Immagini d’epoca sul bombardamento di Shanghai, e gli effetti della guerra batteriologica sono fatti vedere come un cinegiornale ai prigionieri riuniti in una sala comune e il valore documentaristico si intreccia con la ricostruzione storica accurata fino all’ultimo dettaglio, con scrupolo quasi maniacale. Tra le critiche, perchè non mancarono neanche quelle, l’appropriazione culturale non mancò soprattutto rivolta a un regista europeo che decise di ricostruire con la sua sensibilità e il suo talento artistico un periodo piuttosto controverso della storia cinese. Al netto di questo c’è da dire che il film fu accolto più o meno da tutti come un capolavoro, grazie anche a una colonna sonora strepitosa composta da David Byrne, Ryūichi Sakamoto e dal cinese Cong Su. Esiste una director’s cut, ricca di scene tagliate nella versione definitiva, di cui consiglio sicuramente la visione, soprattutto perchè permette un approfondimento del personaggio di Pu Yi non così remissivo durante il periodo di dentenzione nel carcere maioista. Alcune scene danno la dimensione del fatto che non abbia mai abbandonato l’idea di essere imperatore, e anche dopo i dieci anni di detenzione e di rieducazione, che lo trasformarono in un semplice giardiniere, ha sempre conservato questo sogno che si esprime nelle scene finali quando passa il testimone al figlio del custode del Palazzo Imperiale.

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:: Visioni di cinema: Memorie di una Geisha di Rob Marshall

20 ottobre 2024

Il mondo delle geishe è un mondo piuttosto misterioso, fatto di segretezza ed evanescenza, anche di fragilità se vogliamo, per cui aveva fatto un certo scalpore prima il libro di Arthur Golden, Memorie di una Geisha, e poi l’omonimo film di Rob Marshall del 2005, ispirato al libro. Sembra che il libro avesse travisato molto dei racconti e delle testimonianze della vera geisha, Mineko Iwasaki, da cui fu in parte tratta la storia, rendendo pubblico il suo nome (violando le clausole di riservatezza) e costringendo la donna a scrivere una contro-memoria per chiarire i malintesi (“Geisha: A Life” di Mineko Iwasaki, per chi fosse interessato). Credo che ne seguì pure una causa in tribunale, per dire quanto la questione divenne seria. Ho visto comunque il film di Marshall e da occidentale che viene ammessa in una cultura altra, e soprattutto considera l’opera, un’opera d’arte dove molto gioca la fantasia e quindi non un documentario, mi è piaciuto molto, tutto ricreato in studio certamente ma l’effetto è molto artistico e sontuoso.

Due attrici cinesi recitano due delle parti principali, certo per un richiamo anche internazionale che la produzione voleva, poi c’è Michelle Yeoh che anche lei giapponese non è, credo sia malese di origine cinese, ma insomma dato che in Occidente non si capisce la differenza, orientali sono e va bene così sebbene la questione dell’appropriazione culturale sia seria e dibattuta e ci ritorneremo. Nel film c’è anche una storia d’amore, che forse in realtà è la cosa più proibita di tutta la storia, ma le attrici sono bravissime soprattutto Zhang Ziyi di straordinaria lievità ed eleganza, ma anche Gong Li, cattivissima nella parte di Hatsumomo, e Michelle Yeoh, materna e protettiva nella parte di Mameha. Pensato per il mercato internazionale il film di Marshall c’è da dire ha alcuni grandi meriti, a prescindere dal valore artistico intrinseco del film o dagli errori culturali eventualmente commessi: avvicinare Occidente e Oriente, presentando un lato della cultura giapponese che ha sempre affascinato noi occidentali, e sfatare una volta per tutte il preconcetto, tutto occidentale, che le geishe fossero prostitute, erano artiste e intrattenitrici, che si dedicavano a varie forme di arte, come la musica, la danza e la conversazione, dotate di doti e capacità non comuni e molto considerate e rispettate a livello sociale, che acquisivano il titolo onorifico di geishe dopo un apprendistato che durava anni. Tradizionalmente il loro ruolo principale era dunque quello di intrattenere gli ospiti nelle teahouse e durante eventi sociali, piuttosto che offrire servizi sessuali.

Le prostitute naturalmente esistevano e il termine per definirle era oiran e avevano legali licenze per esercitare la propria professione. E in una società rigidamente strutturata come era quella giapponese questa distinzione era molto importante e denota mancanza di sensibilità e rispetto il fraintendimento. Un’altra cosa che ha creato un certo sconcerto e scalpore è la pratica denominata “mizuage” assimilabile al nostro cosiddetto ius primae noctis pratica a quanto pare sulla cui storicità ci sono molti dubbi e perplessità. Fatta la precedente distinzione tra geisha e oiran, era illegale per una geisha vendere la propria verginità, e la casa a cui apparteneva poteva perdere la licenza se scoperta a praticare questo, non che non succedesse date soprattutto le alte spese sostenute per gli studi e l’apprendistato o anche solo l’acquisto dei kimono, i cui costi potevano essere esorbitanti. E una geisha a inizio carriera, non ancora affermata, poteva averne necessità, per cui questo rito di passaggio poteva essere mercificato ma non era una pratica comune, come invece sembra trasparire dal film, nè onorevole.

La bellezza del film oltre allo splendore e la ricercatezza dei costumi, all’eleganza che traspare da gesti e movenze, al ripetere riti millenari come la crerimonia del tè, sta sicuramente nel descrivere un mondo rarefatto di donne tra cui le rivalità, l’invidia, le piccole vendette si alternano a gesti di grande generosità, di complicità, d’affetto. Un mondo lontano, forse scomparso per sempre, che racchiude in sè tutto il fascino che l’Antico Giappone ancora possiede. Certo un film girato da un occidentale, pensato per un pubblico globale, che apprezza però immergersi in un mondo altro con rispetto e curiosità.

Il film, pur essendo dunque una storia di finzione, ha il merito di offrire uno sguardo rispettoso e onesto sulla vita delle geishe mostrando le loro capacità e la loro importanza nel mantenere vive tradizioni secolari di estrema importanza per preservare la cultura giapponese. C’è anche da fare un’altra riflessione, il mondo delle geishe si ammanta di segretezza, ci sono codici morali e di comportamento custoditi da generazione in generazione che determinano anche parte del loro fascino, esporli senza reticenze può essere stato un motivo valido per suscitare critiche e scontento, o spingere anche solo Mineko Iwasaki a riscrivere la sua storia. Consola il fatto di sapere che ancora molto resta nascosto e celato allo sguardo non solo di noi occidentali, ma anche degli stessi giapponesi, tra cui la sofferenza, la severità, le piccole e grandi crudeltà che queste artiste dell’effimero sapevano trasformare e sublimare in pura bellezza. Fatte queste premesse è un film da vedere, grandioso nella messa in scena, e interessante nel seguire l’evoluzione di una bambina, che diventa ragazza e poi donna affrontando le mille difficoltà della vita sorretta da un unico grande amore per il Direttore Generale Iwamura. Perchè oltre la maschera, dietro il trucco perfetto, la bellezza algida e remota le geishe erano (e sono) donne con una propria individualità e sensibilità, capaci di amare e di perseguire con determinazione le proprie aspirazioni e la propria felicità.

:: Visioni di cinema: “M. Butterfly” di David Cronenberg

16 ottobre 2024

“M. Butterfly”, diretto nel 1993 dal regista canadese David Cronenberg, suo primo film internazionale girato in parte a Pechino, e in parte a Budapest e Toronto (per gli interni) con alcune scene a Parigi, si presenta come un’opera singolare nella filmografia di questo geniale cineasta e si colloca tra la spystory e il dramma, esplorando e ridefinendo il concetto di identità come proiezione e materializzazione di illusioni. Questo film offre inoltre una riflessione profonda e seria sul colonialismo e sulla dialettica tra Occidente e Oriente, evidenziando le dinamiche di potere e sfruttamento insite in queste relazioni sempre imperialiste, anche se a volte reciproche, come dice un personaggio. Basato sull’omonima pièce teatrale di David Henry Hwang, liberamente ispirata alla vera storia di Bernard Boursicot e Shi Pei Pu, “M. Butterfly” di Cronenberg si discosta dalle radici politiche del materiale originale per focalizzarsi sulla complessa relazione tra il diplomatico René Gallimard, interpretato da Jeremy Irons, che riesce a trasmettere magistralmente la vulnerabilità e la curiosità per una cultura altra del suo personaggio e la cantante d’opera cinese Song Liling, interpretata da un convincente e affascinante John Lone. La narrazione si snoda attorno a un legame che si sviluppa per oltre vent’anni, rivelando le fragilità e le illusioni di un uomo che, immerso nella sua visione del mondo, ignora totalmente o decide razionalmente di ignorare, nel senso etimologico del termine, le verità più evidenti su sè stesso, la sua sessualità, la sua identità. La figura di Gallimard infatti rappresenta l’archetipo del burocrate occidentale, la cui ignoranza e incompetenza geopolitica lo portano a non riconoscere le reali dinamiche di potere in gioco, emblematica la scena in cui fa le sue scorrette valutazioni e previsioni (influenzate da Song Liling) sulla presenza statunitense nel sud est asiatico a uno sconcertato ambasciatore Tuolon, interpretato in modo impeccabile da un elegantissimo Ian Richardson, perdendo così ogni credibilità all’interno dell’ambasciata che successivamente lo reimpatrierà in Francia. Se avesse anche solo compreso che nel teatro classico cinese le parti femminili erano recitate da attori maschi,- perchè solo gli uomini decidono come una donna debba comportarsi spiega Song Liling alla compagna Chin-, avrebbe potuto intuire la vera identità di Song Liling, – identità sessuale a tutti nota nel suo entourage (come a noi spettatori, data la grande fama dell’attore che lo interpreta), tranne che a lui,- una spia che sfrutta la loro relazione per raccogliere informazioni per il governo comunista cinese. Se anche aveva sospettato, perlomeno inconsciamente, che Song Liling fosse un uomo, la forza del sogno e dell’illusione, e la proiezione del suo desiderio sono troppo forti, come l’deale di bellezza che Song Liling incarna troppo perfetto, per permettergli di accettare che ama un uomo sotto l’involucro puramente esteriore di una donna, per quanto idealizzata. La rivelazione della verità avviene per lui in modo drammatico durante il processo, quando Gallimard si trova di fronte alla realtà della sua illusione, circondato dagli sghignazzi e dal ludibrio della corte, che non riesce a credere alla sua ingenuità e soprattutto al fatto che non abbia mai capito che Song Liling fosse un uomo dopo anni di convivenza. Quando il giudice chiede a Song se sapesse che lui era un uomo, accrescendo così la gravita delle accuse che gli vengono mosse, Song risponde che non lo sa, non gliel’ha mai chiesto, non tradendo infine l’architettura di fili di seta tra illusione e realtà che li ha legati.

Gallimard rappresenta un esempio emblematico della figura borghese, un contabile abile nel maneggiare cifre e numeri, ma intrappolato in una visione del mondo che riflette le contraddizioni del capitalismo. La sua capacità di individuare le incongruenze nelle spese di agenti diplomatici corrotti è solo un aspetto della sua professione, mentre la sua arroganza e ignoranza rivelano una supposta superiorità culturale radicata, tipica dell’uomo occidentale nei confronti dell’Oriente e delle sue tradizioni, seppur subisca il fascino di una cultura altra che affonda le sue ferme radici in millenni di civiltà, come afferma Song Liling quando gli spiega che i cinesi non sono certo diventati occidentali perchè vivono in case con la luce elettrica. La sua incapacità di riconoscere l’assurdità di far interpretare il ruolo di una ragazza giapponese a una donna cinese durante una rappresentazione di alcune arie della “Madama Butterfly” di Puccini, durante una soirée all’ambasciata svedese, dove Gallimard e Song Liling si incontrano per la prima volta, mette in luce la sua mancanza di consapevolezza storica e culturale. Ignora, ad esempio, il tragico passato in cui i giapponesi utilizzarono prigionieri cinesi per esperimenti di guerra batteriologica. Questo episodio non è solo un errore di interpretazione, ma un sintomo della sua preparazione inadeguata e della superficialità con cui affronta questioni complesse. La sua conversazione con Frau Baden, la moglie dell’ambasciatore tedesco, rivela ulteriormente la sua fragilità intellettuale. Gallimard, consapevole della sua ignoranza riguardo all’opera, teme che la verità possa compromettere l’immagine di un uomo dotato di una profonda cultura, un’illusione che il sistema capitalistico e le sue dinamiche sociali alimentano. In questo modo, la sua figura diventa un simbolo delle contraddizioni e delle ingiustizie insite in una società che privilegia l’apparenza rispetto alla sostanza.

Tra le riflessioni di genere, interessante lo scambio di battute, alle spalle della Grande Muraglia cinese, quando Song Liling narra un antichissimo proverbio cinese: “Dare insegnamenti a una ragazza è utile come gettare riso al vento“, riportando che sia la società antica cinese che quella contemporanea alla narrazione (siamo negli anni ’60 del Novecento poco prima dell’avvento delle Guardie Rosse), opprimono le donne e le tengono nell’ignoranza, cosa che teoricamente non dovrebbe avvenire nell’evoluto Occidente, per spiegare come sia possibile l’attrazione di una donna cinese verso un occidentale, e lusingando l’ego di Gallimard in un gioco di seduzione e attrattiva reciproca sia intellettuale che fisico.

La relazione tra Gallimard e Song Liling, pur basata su dinamiche di potere e reinterpretazione della realtà, evolve in un sentimento che, sebbene inizialmente costruito su menzogne in un contesto di seduzione e manipolazione, dove Song Liling, incarnando un ideale di donna costruito da Gallimard, diventa un oggetto di desiderio e di controllo, si trasforma in qualcosa di autentico. Questo processo di oggettivazione riflette le disuguaglianze di classe e di genere, in cui l’identità e la soggettività di Song Liling vengono sacrificate per soddisfare le fantasie coloniali e patriarcali di Gallimard. Quando Gallimard si confronta con la realtà della sua illusione e decide di porre fine alla sua vita attraverso il seppuku, si manifesta una crisi profonda non solo del suo individuo, ma anche delle strutture sociali che hanno alimentato la sua visione distorta dell’amore. La tragica conclusione segna un punto di non ritorno, mentre Song Liling, in un momento di vulnerabilità, piange sull’aereo che lo riporta in patria, rivelando la complessità e l’ambiguità dei sentimenti umani.

David Cronenberg esplorando i temi di identità e genere, inganno e disillusione si distingue per la sua visione del reale complessa e provocatoria. Gallimard è attratto dall’immagine romantica e idealizzata della Cina e della femminilità, della sottomessa donna orientale, schiava del diavolo straniero, ma la sua relazione con Song si rivela essere un intricato gioco di inganni, in cui le identità di genere e le aspettative culturali vengono sovvertite. L’atmosfera di tensione e ambiguità accresce questo divario culturale ed esistenziale in cui questioni come il colonialismo, la sessualità, le costruzioni sociali di genere, si fanno materia viva della narrazione. Le performance di Irons e Lone sono straordinarie nel creare l’illusione e l’ambiguità che fino all’ultimo accelera stemperandosi nel drammatico e catartico finale quando è l’Occidente a soccombere rispetto all’Oriente, sovvertendo la dinamica pucciniana dove è la ragazza giapponese a suicidarsi per amore di un occidentale. Gallimard metabolizza in un’opera di metamorfosi (già la libellula donata dal pescatore preludeva simbolicamente a questo) questa dinamica diventando lui stesso la proiezione dell’Oriente che ha sempre avuto e con il disvelamento, nel cellulare che li porta in prigione, del corpo nudo di Song Liling ha perso per sempre. Resta un’opera magistrale nell’esplorazione delle complessità dell’amore e dell’identità, temi da sempre al centro delle riflessioni del regista canadese.

Cronenberg, pur affrontando un flop commerciale, ha considerato questo film un successo personale, poiché sintetizza molte delle sue riflessioni estetiche e poetiche, rivelando le contraddizioni e le tensioni insite nelle relazioni tra culture e identità. In questo contesto, lo spettatore è invitato a riflettere non solo sull’incredibile ingenuità di Gallimard riguardo all’identità sessuale di Song Liling, ma anche, e soprattutto, sul mistero stesso dell’amore, un sentimento che sfida le categorizzazioni e le interpretazioni, fondendo reale e ideale. Cronenberg, con la sua visione unica, ci offre un’opera che trascende il tempo, ponendo interrogativi che risuonano ancora oggi. Una curiosità: gli hutong, i tradizionali vicoli di Pechino, dove furono girate alcune scene, ora non ci sono più buttati giù per i piani di ristrutturazione e sostituiti con palazzi e grattacieli.

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:: Dal libro al cinema: Shanghai Surprise di Tony Kenrick a cura di Giulietta Iannone

1 ottobre 2024

Film di culto per alcuni, immane boiata per altri, Shanghai Surprise fu sicuramente accolto da una ridda di recensioni pessime da una critica inferocita che per essere precisi lo polverizzò, non concedendogli nessun lato positivo, sebbene rivedendolo oggi, fu girato da Jim Goddard nel 1986 e coprodotto da George Harrison, ci presenta una deliziosa Madonna, incantevole davvero nella parte della giovane e ingenua missionaria laica Gloria Tatlok alle prese con un carico d’oppio scomparso e con un avventuriero un po’ sbruffone, interpretato dall’allora marito Sean Penn, abbastanza credibile nell’improbabile e quantomai bizzarra parte del commerciante di cravatte fosforescenti, Glendon Wasey. C’è da dire che tutto parte da un divertente romanzo, un tantino scollacciato, di Tony Kenrick del 1983 Faraday’s Flowers, impossibile da portare sullo schermo in versione integrale date alcune scene, e uno spirito goliardico di fondo, consigliabile solo a un pubblico adulto. Ne hanno invece fatto un film di avventura accessibile a tutti, epurandolo, quasi del tutto, dalla parte più sovversiva della storia, densa di un umorismo anche rozzo e poco addomesticato. Della funambolica e visionaria scrittura di Tony Kenrick poco rimane, ma è la storia di per sè non priva di gag ad effetto e colpi di scena, che lo rendono un film per certi versi da rivalutare nella filmografia di Madonna. Insomma non era un’attrice così pessima, la sua parte, per quanto limitata in una sceneggiatura attenta a non urtare troppo la sensibilità del pubblico (il libro è tutta altra storia pensiamo solo alla scena di seduzione tra China Doll e Glendon Wasey) è fresca e briosa, trasmette anche una dolcezza espressiva riscontrabile non solo dai suoi più accaniti fan. Allora abbiamo un carico d’oppio, appartenuto a un avventuriero occidentale, Walter Faraday, che diventa ambito da diversi personaggi uno più strampalato dell’altro, e ricercato dalla signorina Tatlock e dalla sua Associazione per scopi trapeutici (per farne morfina per i soldati). La signorina Tatlock sulle prime non è convinta che Glendon Wasey sia l’uomo giusto da impiegare nella ricerca, ma poi si ricrede date le mille risorse che sembra avere. Naturalmente Glendon Wasey si accorge subito che la situazione si fa pericolosa, e vorrebbe svicolare, ma la signorina Tatlock ha metodi convincenti per non farlo scappare via a gambe levate. Divertente il colpo di scena finale che non anticipo, anzi ce ne sono due, entrambi ben assestati. Non dico che sia un capolavoro, ma per una serata senza pensieri, è un’apprezzabile visione.

:: Visioni di cinema: Shanghai di Mikael Håfström

29 settembre 2024

Dicembre 1941, vigilia di Pearl Harbor, con l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, il Giappone è alleato con la Germania nazista. Arriva in città un agente americano della Naval Intelligence Office e scopre che il suo migliore amico Conner è stato ucciso, così inizia a indagare. Con il nome di Paul Soames (John Cusack), nome di copertura che aveva usato a Berlino fingendosi un simpatizzante nazista, inizia a lavorare come giornalista dell’Herald, e durante le sue indagini incontra Anthony Lan-Ting (Yun-Fat Chow) un boss locale e sua moglie Anna Lan-Ting (Li Gong) di cui subito si innamora. Ma niente è come appare in questa città di spie. Anna è segretamente a capo della Resistenza in città e organizza diversi attentati contro i giapponesi. E non è tutto Conner aveva iniziato una relazione con una giapponese, Sumiko, che pensava di utilizzarla come spia, ma Sumiko era anche l’amante di un ufficiale giapponese di alto rango il terribile capitano Tanaka (Ken Watanabe). Davvero non dirò oltre della trama per non togliervi il piacere della visione di questo intricato thriller spionistico ambientato in un periodo abbastanza oscuro della storia della Seconda Guerra Mondiale. Pregio del film infatti, oltre all’ottimo cast di star internazionali, è quello di indagare sui retroscena che portarono gli Stati Uniti a entrare in guerra per il controllo del Pacifico. Accolto da recensioni tiepide, se non appertamente negative, il film si rivela invece dotato di un certo fascino, per l’eleganza dei protagonisti, su tutti la bellissima Li Gong, ma anche Franka Potente nella parte della tedesca Leni Mueller ha il suo fascino, e lo stesso John Cusack, capace di portare uno smoking bianco e non sembrare un cameriere e per l’atmosfera che riesce a catturare di una città portuale con i suoi casinò, i suoi club, le sue fumerie d’oppio. In una piccola parte anche Hugh Bonneville che diventerà famoso per Downton Abbey. Ken Watanabe su tutti il più credibile e in parte. Da rivalutare.

:: Dal libro al cinema: L’amante di Marguerite Duras a cura di Giulietta Iannone

24 settembre 2024
THE LOVER, (aka L’AMANT), Jane March, Tony Leung, 1992, (c) MGM

Fedele trasposizione in immagini del bellissimo romanzo di Marguerite Duras, L’amante diretto nel 1992 da Jean Jacques Annuad e interpretato da Jane March e Tony Leung Ka Fai è una sorta di tributo al genio letterario della Duras (sebbene la scrittrice l’abbia sempre contestato) che nel suo breve romanzo semi autobiografico ci descrive il suo primo amore nell’Indocina francese della fine degli anni ’20. Che si tratti d’amore, anche da parte della ragazza, sia nel libro, che soprattutto nel film, si scoprirà alla fine quando la vita li separa, lei torna in Francia e lui per mancanza di coraggio, (è un debole non può vivere senza i soldi di suo padre) sposa come tradizione una donna ricca come lui. A incombere su questo amore, che per il cinese è autentico e manifesto, (non ha mai sofferto tanto per una donna), è il denaro, più che la differenza etnica, o la differenza di età (lei è minorenne se denunciato dalla famiglia di lei rischierebbe un processo e il carcere). Ma la ragazza che pur essendo in miseria, dopo la morte del padre e gli investimenti sbagliati della madre che insegna nella scuola rurale di Sadec, è sempre una bianca, (i cinesi per quanto ricchi, secondo le rigide convenzioni sociali del tempo, non possono avere relazioni con donne bianche a parte le prostitute francesi), non comprende subito che ciò che prova per il cinese è amore, crede che il suo interesse per lui sia legato solo al suo denaro, che la gretta famiglia di lei ricava dalla relazione, sfruttando la ragazza. Nel film il personaggio della madre, molto amato dalla ragazza, diventa quasi epico nel suo crescere tre figli da sola ed ergersi contro forze che la sovrastano, e solo alla fine la donna rivaluta l’amante della figlia apprezzandone la generosità e la discrezione. L’erotismo patinato, meno incisivo che nel libro molto più graffiante, ne fa un incontro di corpi sì, perchè è resta un amore carnale, che tende però a una spiritualità impalpabile e remota. E’ un incontro anche di anime, specie nelle confessioni reciproche che si fanno o di quando lei gli dice che vuole diventare scrittrice contro la volontà della madre che la sogna professoressa di matematica per guadagnare. Mai il cinese (di cui nè nel libro, nè nel romanzo sapremo mai il nome, nè tra l’altro quello della ragazza), tratta la ragazza da prostituta, anche nelle scene più violente, o quando glielo dice; la sua estrema miseria è per lui solo una leva per farsi amare da una bianca se no irraggiungibile, da cui pensa tra l’altro non sarà mai amato se non per i suoi soldi. Ma la ragazza si accorge di amarlo veramente quando lo perde. Il dolore che prova le rivela l’intensità di questo sentimento così profondo da sopravvivere alla guerra, ai matrimoni, ai figli, ai divorzi, al successo letterario, alla morte. Jeanne Moreau legge, nella versione originale recitata in inglese, stralci del libro e molto spesso i personaggi dicono le identiche parole scritte nel romanzo a sottolineare l’opera di ricalco e fedeltà al testo. Stupendi gli scenari, la foce del fiume Mekong, le vie trafficate di Saigon, gli scorci della scuola rurale. La pioggia, il sudore, la polvere, il senso di decomposizione e rovina, che sporca la perfezione della fotografia di Robert Fraisse, cadenzata dalle musiche di Gabriel Yared, rendono il film un’ottima prova autoriale nella filmografia di Jean Jacques Annuad. Forse diverso da come l’avrebbe immaginato la Duras ma non per questo meno significativo.

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:: Casablanca di Michael Curtiz a cura di Giulietta Iannone

9 settembre 2024
LOS ANGELES – 1942: A movie still of Humphrey Bogart and Dooley Wilson on the set of the Warner Bros classic film ‘Casablanca’ in 1942 in Los Angeles, California. (Photo by Michael Ochs Archives/Getty Images)

Rivedendo vecchi film noir per le mie ricerche ho trovato nella mia collezione di DVD Casablanca di Michael Curtiz film iconico del 1942 tratto dall’opera teatrale Everybody Comes to Rick’s di Murray Burnett e Joan Alison e interpretato da Humphrey Bogart, Ingrid Bergman e Paul Henreid. Rick Blaine, avventuriero ed ex contrabbandiere d’armi dalla Spagna alla Cina, che non può tornare negli Stati Uniti per imprecisati motivi, gestisce a Casablanca un locale notturno, il Rick’s Café Américain, meta di ogni genere di individuo, soprattutto profughi in cerca di una lettera di trasito per lasciare Casablanca e andare nella “libera” America. Una sera entra fortuitamente in possesso di due lettere di transito che valgono una fortuna, e subito pensa di usarle per sè, poi il destino fa entrare nel locale una coppia alla ricerca anch’essa di lettere di transito: Ilsa Lund, un antico amore di Rick, e Victor Laszlo, eroe della resistenza antinazista sfuggito rocambolescamente da un campo di concentramento. Si scoprirà ben presto che Ilsa e Laszlo sono marito e moglie e che Ilsa abbandonandolo a Parigi all’arrivo in città dei nazisti, spezzandogli il cuore, lo fece non per un capriccio, ma per avere scoperto che il marito che credeva morto era in realtà vivo. A questo punto Rick deve decidere se salvare se stesso e la sua felicità, o sacrificarsi per il bene di una causa e di milioni di persone. Il cinico e disilluso Rick, la cui scorza è solo una maschera nata da una delusione d’amore, farà la scelta giusta e inaugurerà un’ improbabile amicizia con il capitano Louis Renault, il funzionario francese corrotto della Repubblica collaborazionista e filo nazista di Vichy con cui batticecca per tutto il film. In breve la trama di un film complesso ed emozionante, emoziona ancora dopo tutti questi anni, e fa credere in una storia d’amore tanto improbabile quanto commovente, presentandoci un ampio ventaglio di comprimari tutti all’altezza del ruolo. Il neanche tanto velato patriottismo che avrebbe potuto farlo scadere in un film di mera propaganda bellica, qui funziona come motore di una storia in cui l’amore, il sacrificio di sè, il coraggio, la generosità d’animo, fanno da contraltare a un mondo spietato dove l’unica cosa che conta sono i soldi. Di ispirazione per tanti altri film e opere letterarie vive di battute che hanno fatto la storia del cinema, celeberrima poi la canzone As Time Goes By, cantata da Sam, Dooley Wilson. Da vedere e rivedere.

:: Dal 7 al 12 novembre a Roma IL FASCISMO, UN VENTENNIO DI IMMAGINI

3 novembre 2022

Sesta edizione per il Progetto e le forme di un cinema politico, la manifestazione ideata e organizzata dalla Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e dalla Fondazione Gramsci, che quest’anno volge il suo sguardo sul centenario della marcia su Roma attraverso una serie di appuntamenti culturali che mirano ad approfondire l’eco e gli effetti di un segmento della storia italiana del Novecento – la presa di potere da parte di Mussolini e il delinearsi della categoria politica di fascismo – sul resto dell’Europa e del mondo. In particolare, ad essere investigata sarà la sfera cinematografica nella sua dimensione politica di un uso propagandistico in cui il regime fascista si distinse, alimentando un’industria che pose alcune premesse per la successiva affermazione del cinema italiano e che generò un immaginario collettivo che investì non solo il cinema ma tutte le arti.

Oggetto della manifestazione Il Fascismo: un ventennio di immagini, in programma dal 7 al 12 novembre a Roma in diversi luoghi – Casa del Cinema, Università Roma Tre (Dams), Sapienza Università di Roma e Libreria Spazio Sette –  non sarà solo la documentazione audiovisiva della marcia su Roma e il cinema, di propaganda e non, prodotto sotto il regime fascista, ma anche il cinema, non necessariamente italiano, che si è interrogato sui caratteri del fascismo o ha proposto, fino ai nostri giorni, riusi originali delle immagini del periodo fascista, alimentando la rielaborazione della sua memoria storica e del suo immaginario.

Il programma vuole prendere altresì in considerazione le teorie del cinema e le estetiche dell’immagine che hanno trovato nell’ideologia fascista un referente ideale o polemico, ma anche quelle teorie ed estetiche che hanno incrociato l’emergere di un’industria cinematografica italiana negli anni del regime (esempio ne sono gli scritti di Rudolf Arnheim nel suo soggiorno in Italia) e quelle che invece hanno tentato un’interpretazione del posto occupato dal fascismo nell’immaginario novecentesco e contemporaneo.

Ad integrazione della classica formula espressa nelle precedenti edizioni – una cospicua rassegna cinematografica introdotta da esperti e una giornata di studi, con la presentazione di un nuovo volume sull’argomento, saranno organizzati, in sedi universitarie, lezioni seminariali di approfondimento, con proiezioni di documenti dell’epoca, tratti sia dal cinema documentario che da quello di finzione. Un’occasione, dunque, per offrire a un pubblico multigenerazionale – ed in particolar modo ai giovani – una conoscenza trasversale tra storia, ideologia e arte cinematografica, del Fascismo sotto la duplice macchina da presa realistica e di finzione. L’ingresso ai film e agli incontri è libero a tutti.

L’iniziativa, realizzata grazie al sostegno del MIC Divisione Cinema e Audiovisivo, è in collaborazione con il CSC – Cineteca Nazionale, Istituto Luce Cinecittà, la Casa del Cinema, l’Università degli Studi Roma Tre, Sapienza Università di Roma e Libreria Spazio Sette. Media partner: “Il Manifesto” e Radio Radicale.

Il gruppo di studio e lavoro del progetto è composto da: Dario Cecchi, Damiano Garofalo, Maria Chiara Giorgi, Marco Maria Gazzano (in memoria), Alma Mileto, Pietro Montani, Claudio Olivieri, Ivelise Perniola, Giacomo Ravesi, Paola Scarnati (coordinamento), Giovanni Spagnoletti, Ermanno Taviani, Vincenzo Vita (presidente AAMOD), Maurizio Zinni. 

Scarica il programma completo qui.

:: Dal libro al cinema: La Marie del porto di Georges Simenon a cura di Giulietta Iannone

29 ottobre 2022

“Acqua cheta scardina i ponti” è un detto popolare che ben definisce il personaggio enigmatico e sfuggente di Marie, protagonista del romanzo La Marie del porto di Georges Simenon, romanzo del 1938, che nel 1950 Marcel Carnè trasformò in un’opera cinematografica con al centro una star di prima grandezza come Jean Gabin (bisognerà aspettare il 1958 per vederlo nella sua prima interpretazione di Maigret ne “Maigret tend un piege” di Jean Dellanoy) e una giovanissima (e forse troppo bella) Nicol Courcel, forse al primo impegno importante, nel ruolo di Marie. Del cast facevano anche parte Blanchette Brunoy, Claude Romain, Louis Seigner, René Blancard, Charles Mahieu, Robert Vattier, Louise Fouquet, e Olivier Hussenot più comparse assortite che animavano il piccolo villaggio portuale (Port-en-Bessin) dove vive Marie e la cittadina più grande a pochi chilometri di Cherbourg. Avendo da poco letto il libro e visto in francese su Youtube il film (libero da diritti) ho colto l’occasione per parlarne nella mia rubrica Dal libro al cinema. Premesso che il mio francese non è così buono, e che dunque qualcosa forse ho perso dei dialoghi, tuttavia le immagini sono così espressive, che mi hanno concesso di fare le mie valutazioni. Innanzitutto è un film in bianco e nero, uscito in Italia con il titolo La vergine scaltra, Gabin ruba la scena e prima che ve lo chiediate aveva superato il visto della censura, Marie ha 18 anni, è maggiorenne, (sebbene ne dimostri meno) e sebbene il lui della storia, almeno nel film, (nel libro ha poco più che trent’anni), sia di mezza età e quindi la differenza di età alla sensibilità moderna possa fare un po’ storcere il naso, è una storia che può rientrare nei canoni del lecito.

Insomma Marie non è una bambina, e non ne ha la psicologia, è una giovane donna piuttosto scaltra se vogliamo, consapevole delle sue scelte, emancipata, e tipicamente francese oltre che proveniente da una classe sociale (è la figlia di un pescatore della zona) che sebbene goda di una certa agiatezza (ha una casa, una barca di proprietà etc…) conosce il significato della fatica, e del lavoro. Rimasta orfana ha due strade: finire sul marciapiede, o trovarsi un lavoro, sceglie di farsi assumere come cameriera nell’unico Caffè del porto. Nè Simenon né Carnè si fanno illusioni, questa è la realtà, la vita è un gioco duro sia nella Francia del 1938 che in quella del 1950 (la prostituta “sfortunata” seduta al tavolo del locale di Chatelard a cui offre dei soldi è un buon memento). Premesso che bisognerebbe scrivere un saggio per questo film comparato al libro e questo breve mio testo non ha nessuna pretesa di essere esaustivo, devo dire che anche se diverso per alcune sfumature (Marie si reca nel film a Cherbourg, nella tana di Henri Chatelard, perchè preoccupata per Marcel e non per la trappola, come nel libro, un po’ “vigliaccamente” ordita da Chatelard, con la complicità di Odile) anche il film è un piccolo capolavoro della svolta naturalista di Carnè. Il tono del film è più leggero che nel libro, Marie è più bella della ragazzina smunta e pallida descritta da Simenon, Odile nel film ha il bellissimo sorriso e l’eleganza di Blanchette Brunoy, ed è meno “oca” dell’ Odile simenoniana, insomma a volerci vedere differenze ce ne sono, e sostanziali, anche se lo spirito del libro è stato rispettato. L’uomo di affari (a Cherbourg ha un’elegante brasserie, e un cinema che gli rendono sicuramente bene) un po’ sbruffone e la povera cameriera di un caffè del porto insomma non potrebbero essere più diversi.

Nulla li lega, lui conosce le regole del mondo e le adatta ai suoi comodi, ha un’amante, sorride a ogni donna che si trova sulla sua strada, ha un’attività legale ma insomma permette alle prostitute di adescare clienti nel suo locale, insomma il clima di corruzione e disonestà poteva essere reso più sordidamente ma un po’ sfumato c’è. Chatelard per quanto simpatico non è uno stinco di santo, almeno per la morale dell’epoca, ma ha un cuore, come quando investe Marcel e lo porta da lui e lo fa visitare da un medico o dà i soldi alla prostituta che non riesce ad adescare nessuno, o già nella scena iniziale accompagna anche solo Odile al funerale del padre, o porta a Odile la colazione a letto (molto joyciana come scena) e soprattutto non usa la violenza per costringere Marie a subire le sue avance (nella scena clou del romanzo, come del film) e a sottomettersi al suo capriccio, capriccio che per lui non è, se ne accorge quando credendola in pericolo corre dietro alla corriera. Lei è modesta, povera, una cameriera senza futuro, fidanzata a Marcel, un giovane garzone di un barbiere che indubbiamente non ama, tutta la parte del tribunale per l’emancipazione è stata saltata, e dell’importanza data ai fratellini non se ne fa cenno, vanno via coi parenti senza drammi, ma nonostante questo è indipendente, si mantiene da sé, porta una piccola croce al collo, è una ragazza seria, di una purezza antica, che non è tentata di seguire le orme della sorella sognando Parigi, sorride poco, e solo quando pensa o vede Chatelard. Più che fare la sostenuta per calcolo mantiene la sua individualità senza compromessi. E la sua scaltrezza sta, pur anche nella sua giovane età, nel capire il fondo di bontà che c’è in Chatelard, molto migliore da come appare. Marie è un bel personaggio, forse il migliore personaggio femminile di Simenon, che Carnè valorizza in un film decisamente solare e luminoso ricco di pathos, e dolcezza. Ai dialoghi partecipò (non accreditato) Jacques Prévert.

:: SOLARIS, UN PIANETA DAI TRE VOLTI – Gli adattamenti cinematografici del più famoso romanzo di Stanislaw Lem a cura di Michele Tetro

12 novembre 2021

Il primissimo adattamento del romanzo di Stanislaw Lem Solaris si ebbe nel 1968, l’anno di uscita di 2001: odissea nello spazio, a firma dei registi Boris Nirenburg e Lydya Ishimbayeva, un film per la televisione in due parti realizzato dalla Central Television Production sovietica, in bianco e nero. Questa versione è del tutto fedelissima al libro originale (quindi rimandiamo al capitolo 6 per la trama), non offre varianti alla materia trattata né rilevanti cambiamenti di trama. E’ Solaris esattamente come concepito da Lem, che si mostrò poco convinto, quando non addirittura polemico, sia della versione successiva di Tarkovskij sia di quella americana. La messa in scena è di tipo teatrale, con totale mancanza di effetti speciali, virtuosismi scenografici, decorazioni tecnologiche o futuristiche. Gli ambienti della stazione orbitante sull’oceano pensante di Solaris sembrano le quinte di un moderno teatro, con corridoi curvilinei immersi nell’ombra, stanze che ricordano le camere di alberghi d’infima categoria, scale di metallo su alte e vuote pareti. L’unica concessione alla tecnologia è data da una postazione di controllo sull’astronave Prometheus con due tecnici, simile a un’antiquata redazione televisiva, un quadro di comando presso l’hangar di ricezione, due televisori a circuito chiuso visibili durante gli incontri video dei tre scienziati, qualche apparato di scena non meglio identificabile. I costumi sono anonimi, lo scafandro di Kelvin assomiglia a tutto tranne che una tuta spaziale, il casco più simile a un collare ortopedico d’ospedale. Il massimo della spettacolarità è dato da immagini di repertorio di pochi secondi, con missili e capsule spaziali americane sgranate in video degli anni Sessanta, che ricostruiscono l’invio di Kelvin dalla Prometheus alla stazione e la liberazione dalla prima copia di Harey. Come nei remakes seguenti, anche qui (data l’impossibilità produttiva di ottenere determinati effetti) sono assolutamente mancanti le colossali “creazioni” plastiche sulla superficie di Solaris, che rappresentavano la parte più visionaria del romanzo, e il pianeta stesso risulta sempre fuori scena, anche se la sua “azione” immobile si percepisce costantemente (basta un’occhiata sbigottita di Kelvin verso una delle finestre sempre semi-chiuse della stazione, particolare ripreso poi nel successivo film di Tarkovskij, che invece ci concede diversi campi lunghi sul fluido oceano colloidale).

Le riprese sono incentrate prevalentemente sui primi piani degli attori, tutti calati nei loro ruoli e credibili, la storia è raccontata più a parole che a immagini, come nella miglior tradizione teatrale. Tutt’altro che noiosa, la produzione coinvolge e tiene desta l’attenzione dello spettatore, assorbito profondamente in questo dramma scientifico dalle implicazioni sconvolgenti.

Le cose cambiano invece nella versione del regista Andrej Tarkovskij del 1972, che per altro ottenne gran riscontro di critica e pubblico nel mondo occidentale. Pur rispettando ed evidenziando i punti cardine del romanzo di Lem (soprattutto il tema del contatto con l’entità aliena di Solaris), mantenendosi perciò fedele al testo scritto nelle parti estrapolate da esso per l’adattamento, il cineasta russo siringa in apertura, svolgimento e finale della pellicola elementi profondamente peculiari del proprio spirito e del tutto assenti in Lem. Facendo ovviamente riferimento alla pellicola originale sottotitolata e non allo scempio vergognoso che il film subì nel doppiaggio e nella riduzione italiana (in cui addirittura nel personaggio di Kris Kelvin si fondono due atteggiamenti del tutto contrastanti tra loro, il suo e quello dell’astronauta Berton, figura completamente eliminata dal film con un incomprensibile taglio di montaggio), Tarkovskij rende perno centrale della vicenda il problema del mancato equilibrio, nell’animo umano, tra la linea di sviluppo materiale esterna (il progresso, la tecnologia, la scienza) e quella spirituale interna (la coscienza, l’etica e la morale), con la seconda non in grado di bilanciarsi con la prima, poiché ancora “immatura” e quindi pericolosamente incline a innescare la crisi esistenziale.

Nell’inizio ambientato sulla Terra (mancante nel romanzo e pesantemente tagliato nella versione italiana del film) Kelvin, che pure è sensibile, come ogni anima russa, all’abbandono della propria patria per il viaggio di 16 mesi su Solaris e cerca un’ultima e intima comunione con la natura attorno alla dacia paterna, è però del tutto refrattario ad ascoltare i consigli di un ex astronauta che ha vissuto un’esperienza terribile sull’oceano pensante e si prodiga per avvisarlo di non intraprendere azioni distruttive nei confronti dell’ignoto, solo perché tale al cospetto umano. Kelvin sconterà amaramente la sua leggerezza, dovendo affrontare il penoso e doloroso rimosso della sua coscienza (la moglie suicida) incarnato dall’oceano, così come i suoi dogmatici e razionali colleghi scienziati, di classe tecnocratica, propensi ad attaccare ciò che non comprendono (la diversa intelligenza del pianeta), devono fronteggiare la loro statura morale quantificatasi in ospiti mostruosi, ripugnanti e insopportabili, il riflesso del loro volto interiore, reso reale dal magma oceanico. E solo la vergogna, qui sentimento nobile, è la chiave della salvezza per l’uomo, la pulsione che gli consente di uscire da un punto morto, prendendo coscienza dell’imperfezione del proprio apparato cognitivo, del non sapere ancora nulla di se stessi. Tarkovskij, lirico e malinconicamente elegiaco, evita intenzionalmente ogni lusinga tecnologica tipica dei film di fantascienza spaziale americani (la risposta sovietica a 2001: odissea nello spazio pubblicizzata dai cartelloni cinematografici è tale solo se considerata antipodicamente), riducendo al minimo l’impatto scenografico della sua pellicola (ed eliminando virtualmente ogni effetto speciale): la stazione orbitale è piena di oggetti del tutto inammissibili in un contesto del genere e di forte valenza simbolica (statue greche classiche, busti di Platone e di Beethoven, icone religiose russe, dipinti di Brueghel il Vecchio, fotografie di cavalli, corni da caccia ottocenteschi, vetrate policrome di una chiesa, immagini di cavalli, servizi da te in ceramica, candelabri e lampadari di cristallo), che rimandano prepotentemente alla Terra, all’anima contadina russa (Kelvin si porta con sé in volo una scatoletta di alluminio con una piantina della sua dacia), al legame col passato, la memoria, gli affetti familiari. Il regista sembra rispecchiare una sorta di adesione ai precetti del Cosmismo russo (le apparizioni della moglie defunta di Kelvin in qualche modo alludono alla resurrezione degli antenati defunti della fase fedoroviana cosmista, una promessa d’immortalità, l’integrità morale che si dovrebbe coltivare adeguatamente per assorbire il gap tecnologico-coscienziale era conditio sine qua non per l’emigrazione cosmica della perfezionata razza umana prevista da Fedorov e Ciolkovskij).

Praticamente, pur a fronte della forte spinta verso la conquista dello spazio, l’uomo sembra incapace di lasciare indietro la Terra e tende a portarsela con sé. Parafrasando il suo omologo letterario, il malinconico personaggio di Snaut del film, figura molto umana, esclama:

In questa situazione la mediocrità e il genio sono ugualmente inutili! Noi non vogliamo affatto conquistare il cosmo. Noi vogliamo allargare la terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio. Ci affanniamo per ottenere un contatto e non lo troveremo mai. Ci troviamo nella sciocca posizione di chi anela una meta di cui ha paura e di cui non ha bisogno. L’uomo ha bisogno solo dell’uomo!”

La figura del padre, che intuisce le problematiche che dovrà affrontare Kelvin nello spazio, conscio della sua “impreparazione” morale, rimanda a un trascorso tarkovskiano che non avrebbe modo di essere nel testo di Lem, la sua è un’odissea nella coscienza più che nello spazio, che attraverso il pianeta Solaris si pone come “territorio proibito” all’uomo. Se Lem è del tutto pessimista sulla possibilità di un reale contatto con l’oceano, Tarkowskij crede invece nei miracoli e conclude il film in modo splendidamente ambiguo: Kelvin, figliol prodigo dell’era spaziale, torna alla dacia del padre, che lo abbraccia riaccogliendolo nell’alveo del solo universo alla sua portata, quello del trascorso esistenziale, ma il piccolo villino è in realtà posto su un’isola circondata dall’immenso oceano di Solaris. Forse l’imperscrutabile entità aliena ha saputo leggere nella mente dell’uomo, individuando il più riposto dei suoi desideri, più forte del senso di colpa relativo al rimorso per la perdita della moglie, e cioè la sua struggente ansia del ritorno alla terra rimpianta, ai veri valori della vita? O forse si tratta solo di un’immagine simbolica di quanto piccola sia l’isoletta di placida ignoranza in cui è confinato il genere umano, circondata dai mari dell’infinito, dalla quale non è previsto che ci possa allontanare troppo, come rimarcato da Lovecraft in un celebre incipit del racconto Il richiamo di Cthulhu? Ad ogni modo, l’approccio del regista al romanzo di Lem, con la messa a fuoco sul problema morale e le leggi del progredire della ragione umana, impreziosisce un dramma scientifico di nuove valenze, creando le premesse di ulteriori riflessioni e approfondimenti.

Il terzo adattamento di Solaris, realizzato nel 2002 da Steven Soderbergh, sceglie un via del tutto differente: non è più il tema del contatto al cuore del film, né tantomeno la riflessione coscienziale tarkovskiana, bensì l’approfondimento del rapporto di coppia tra i due protagonisti, il recupero del loro passato traumatico in virtù della “seconda occasione” offerta per riparare gli errori commessi, la redenzione dei peccati da parte di un’entità superiore, che però concede tale dono non ai veri Kris e Rheyna, bensì alle loro repliche, che sopravvivono a entrambi (questa è la novità concettuale del rifacimento, gli “ospiti” sono così umani da volersi sostituire ai loro originali). In realtà il pianeta Solaris è del tutto marginale al film, una presenza tenuta sullo sfondo, non indagata, e l’intera l’attenzione è rivolta alla vicenda emotiva che s’instaura tra marito e moglie, al punto da indurre Stanislaw Lem a rimarcare: “Ci sarà stato un motivo per cui ho intitolato il libro Solaris e non Love Story!” Obiettivamente, la pellicola, che pure offre alcune sequenze spaziali degne di nota e un’intrigante colonna sonora, non sfugge a quella tipica monotonia di un film americano che cerca di scimmiottare stilemi europei, risultando il più delle volte irrisolto, se non addirittura irritante.

Tratto dal volume “Spazio – Il vuoto davanti”, di Michele Tetro, Odoya 2021, per gentile concessione dell’autore.