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Intervista a Aldo Setaioli curatore de“Canti e leggende dei Ch’uan Miao” (Graphe.it). A cura di Viviana Filippini

17 luglio 2024

“Canti e leggende dei Ch’uan Miao” raccoglie gli affascinanti racconti e le particolari leggende di un popolo senza letteratura scritta. La popolazione è una delle minoranze riconosciute dal governo cinese (i Ch’uan Miao), diventate note al grande pubblico come gli Hmong del film “Gran Torino” di Clint Eastwood. In questa raccolta, curata da Aldo Setaioli per Graphe.it, ci sono alcune leggende del folclore popolare dove, a tratti, è possibile trovare qualcosa di familiare, anche se lontano da noi nello spazio e nel tempo. Ne abbiamo parlato con il curatore Aldo Setaioli.

In base a cosa o come ha scelto le storie inserite in “Canti e leggende dei Ch’uan Miao”? Innanzi tutto vorrei spiegare come sono venuto a conoscenza della popolazione dei Ch’uan Miao. Nel 2000 compii una crociera sul fiume Yang zi, il maggiore della Cina, e all’altezza della piu’ grande delle tre celebri gole del fiume, risalii lo Shennong, un piccolo affluente di sinistra del grande fiume in un sampan tirato a mano dalla riva. Giunsi cosi’ a un villaggio di un’altra minoranza, i Tujia, affine ai Ch’uan Miao, che abitano in prevalenza sulla riva opposta del grande fiume. Li’ per la prima volta sentii parlare di quest’altra minoranza affine. Solo più tardi, nel 2008, mi resi conto che si trattava della stessa popolazione di emigrati negli Stati Uniti del film di Clint Eastwood, Gran Torino: gli Hmong, che è il nome che quella popolazione si da’ nella propria lingua (Ch’uan Miao è il nome dato loro dai Cinesi). Venni in contatto diretto col folklore dei Ch’uan Miao ancora piu’ tardi, in rapporto alla mia attività di filologo classico, che pero’ ha sempre nutrito grande interesse per le culture e letterature orientali. Durante la stesura di un lavoro, presentato nel 2019 a Seoul, la capitale della Corea del Sud, che confrontava le versioni occidentali e orientali della leggenda di Androclo e il leone, dovetti prendere in considerazione, insieme con vari paralleli nella letteratura cinese, alcuni canti dei Ch’uan Miao di argomento simile (anche se, come sempre in Cina, il posto del leone viene preso da una tigre). Consultai perciò l’intera raccolta dei “Canti e Leggende dei Ch’uan Miao” messa insieme negli anni ’30 del secolo scorso dal missionario David Crockett Graham, pubblicata in uno dei volumi della Smithsonian. Incontrai così molti altri canti che mi sembrò utile e interessante far conoscere ai lettori italiani. La raccolta è molto vasta, ma siccome è fondata esclusivamente sulla tradizione orale, esistono numerose versioni della stessa leggenda, e in molti casi si incontrano incongruenze e contraddizioni, che hanno forzatamente ridotto la scelta dei canti da raccogliere nel volume. Ho scelto molti dei canti che presentano affinità col folklore nostro e di tanti altri paesi, sul piano cosmologico e religioso (creazione, diluvio, peccato originale) e favolistico, oltre che con leggende simili ad alcune delle nostre (per esempio quella di San Cristoforo) e anche con l’idea che fa derivare gli uomini da esseri scimmieschi. 

Che idea si è fatto di questa comunità? E’ una comunità rimasta isolata. Fino a verso la metà del secolo scorso non ha avuto alcuna tradizione scritta, ma ha conservato la sua lingua e le sue caratteristiche originali, pur in mezzo alla preponderanza territoriale e politica dei Cinesi, che li ha costretti a ritirarsi in zone sempre più ristrette e periferiche e, nel corso dei secoli, anche a emigrare in altri paesi, come il Laos, il Myanmar e il Viet Nam (da lì provengono gli Hmong del film Gran Torino). Ha inoltre sempre conservato il suo rapporto intimo con la terra (l’agricoltura e’ quasi l’unico mezzo per la sua sopravvivenza) e con la propria religione, che oltre a dei e demoni attribuisce vita e potenza o ogni oggetto, materiale e immateriale (come il tuono, l’eco, l’arcobaleno). Tramanda con musica e canti il suo ricco patrimonio culturale. Un ultimo frammento di umanita’ rimasto in uno stato di autentica originalità.

Quale è il filo conduttore delle leggende e canti presenti nel volume? In parte ho già risposto a questa domanda. Ho voluto che il lettore scoprisse da sè i tanti elementi comuni tra noi e questa popolazione così diversa e lontana. Ma un altro filone importante èil rapporto tra cielo e terra (un tempo uniti da una scala, interrotta per colpa degli uomini), come pure tra le generazioni presenti e quelle passate. E ho anche voluto mettere in evidenza certe idee morali, prima fra tutte l’avversione per il furto, tipica delle societa’ povere piu’ che di quelle ricche.

Ha trovato qualche somiglianza tra la cultura Miao e il nostro folclore? Moltissime: i fratelli ciascuno dotato di capacità straordinarie, il bel giovane nascosto sotto la pelle di un brutto animale, il demone racchiuso in una brocca, l’avidita’ punita, il ragazzo abbandonato nel bosco, i piccoli uomini che vivono sotto terra, il mantello che rende invisibili, sono motivi di tante storie che da bambino mi venivano raccontate da mia nonna, che certamente non aveva mai sentito parlare dei Ch’uan Miao.

Nelle storie tornano spesso elementi naturali, animali, ma anche demoni e figure buone in aiuto dei personaggi principali. Che ruolo avevano nella vita dei Ch’uan Miao questi racconti? Il mondo dei Ch’uan Miao è profondamente unitario. Dei e demoni interagiscono con gli uomini, cielo e terra sono tutt’uno, ed entrambi hanno bisogno di essere tenuti insieme da solidi legami – altrimenti si disgregherebbero. Le forze malefiche sono tenute a fremo dello sciamano, il tuan kung, e gli antenati proteggono se vengono onorati, possono punire se trascurati. Tutti questi elementi fanno parte di un mondo coerente e unitario, dove gli opposti non solo si equilibrano, ma hanno tutti la loro ragione e importanza. Questi canti sono il patrimonio culturale che da’ senso al bene e al male che l’uomo incontra nel mondo.

In alcune storie i Ch’uan Miao si confrontano con i Cinesi, ci racconta qualcosa su loro rapporto? I Ch’uan Miao si consideravano fratelli dei Cinesi. La loro origine, secondo le loro leggende, è comune. Ma i Cinesi hanno approfittato del loro numero e del loro potere per emarginare sempre piu’ i Ch’uan Miao, e a volte per cacciarli in altri paesi. Tracce evidenti di questo risentimento si incontrano nelle loro leggende.

Come è stato svolgere il lavoro di traduzione, che emozioni le ha lasciato il contatto con questa popolazione che sta in Cina, ma è diversa dai Cinesi? Prima della traduzione è stato necessario un vasto e difficile lavoro di scelta, anche a causa della condizione in cui la trasmissione orale ci ha trasmesso questi racconti. Ma una volta operata la scelta, tradurre questi racconti è stato come penetrare in un mondo meraviglioso, in cui l’insolito e il familiare s’incontrano ad ogni passo e mostrano la sostanziale unità del genere umano.

Se dovesse individuare 4 parole rappresentative dei “Canti e leggende dei Ch’una Miao” quali userebbe e perché? La prima: Unità del cosmo. La seconda: Unità fra le generazioni. La terza: Sapienza dei popoli tramandata dal folklore. La quarta: Lavoro e onestà fondamento della vita.

:: Un’intervista con Lisa See su “Lady Tan’s Circle of Women” a cura di Giulietta Iannone

10 luglio 2024

Benvenuta Lisa e grazie per aver accettato questa nuova intervista sul blog Liberi di Scrivere. Sei conosciuta in Italia soprattutto per il romanzo Fiore di Neve e il ventaglio segreto ma anche per altri tuoi bellissimi romanzi che raccontano le esperienze soprattutto delle donne cinesi e i loro rapporti familiari. Come è nato il tuo interesse per la condizione della donna sia nell’antica Cina che nelle nuove generazioni di cinesi americani?

Il mio interesse è nato in due modi. Innanzitutto, sono cresciuta in una grande famiglia cinese americana. Quando ero ragazza, nella sola Los Angeles c’erano circa 400 persone della mia famiglia. Un piccolo numero di miei parenti mi somigliava – ho i capelli rossi e le lentiggini – ma la stragrande maggioranza erano completamente cinesi. Poi c’erano le diverse gradazioni nel mezzo. Quando mi guardavo intorno, tutto quello che vedevo erano volti cinesi. Ho così avuto a che fare con le tradizioni cinesi, la cultura cinese, la lingua cinese e il cibo cinese. Ma ancora una volta, non assomigliavo a tutti gli altri. Quindi all’inizio ero in viaggio per capire cosa sapevo, chi ero e dove e come stavo. In secondo luogo, sono sempre stata incuriosita dalle storie di donne che sono state perse, dimenticate o deliberatamente nascoste. Sono davvero orgogliosa e onorata di scoprire e condividere con voi le storie straordinarie di queste donne in Cina. Le donne in passato dovevano sopravvivere e sopportare così tante difficoltà. Tutti i successi che abbiamo oggi come donne sono dovuti a tutte le donne valorose, coraggiose e creative che ci hanno preceduto. Cavalchiamo sulle loro spalle e dovremmo conoscere le loro storie.

Lady Tan’s Circle of Women è il tuo nuovo romanzo, è una storia interessante su una donna dell’alta società che diventa medico nonostante le restrizioni sociali durante la dinastia cinese dei Ming. Vuoi parlarcene?

C’è stato un giorno durante il lockdown in cui stavo camminando accanto agli scaffali del mio ufficio e il dorso di uno dei libri mi è caduto addosso. Non so perché, il dorso era grigio con scritte grigie leggermente più scure. Ma era come se il libro fosse volato via dal mio scaffale e mi fosse finito tra le mani. Riguardava la gravidanza e il parto durante la dinastia Ming. Ho letto fino a pagina diciannove e ho trovato una citazione di Tan Yunxian, una dottoressa della dinastia Ming, che, quando compì cinquant’anni nel 1511, pubblicò un libro sui suoi casi medici. Pensiamoci per un minuto. Una dottoressa che praticava la medicina 500 anni fa. A quel tempo non c’erano molti medici professionisti – uomini o donne – nel mondo. Mi è piaciuto il fatto che Tan Yunxian avesse cinquant’anni quando pubblicò il suo libro. E infine, che è stato pubblicato nel 1511. Quanti libri ti vengono in mente che sono stati pubblicati prima del 1511 e sono ancora in stampa? La Bibbia, ovviamente. L’Iliade e l’Odissea. Alcune tragedie e commedie greche. Possiamo andare oltre il canone occidentale e includere il Mahabarata dall’India e l’I Ching e il Libro delle Odi dalla Cina. Tutto questo mi ha incuriosito e sono andata nella tana del coniglio.

Che ricerche hai fatto? È basato su una storia vera?

Ho scritto Lady Tan’s Circle of Women durante i primi due anni della pandemia, quando tutte le biblioteche, i centri di ricerca e gli archivi erano chiusi. Anche la Cina è stata chiusa, ed è rimasta effettivamente chiusa fino a circa 18 mesi fa. Quindi ho dovuto svolgere la mia ricerca in modi completamente nuovi. Ho contattato direttamente medici, studiosi, accademici e altri ricercatori di medicina tradizionale cinese che hanno studiato la vita e i tempi di Tan Yunxian. Hanno avuto tempo e voglia di parlare con me, perché anche loro erano in isolamento. E, naturalmente, ho letto, letto, letto tutto ciò che potevo trovare sulla storia della medicina cinese, sulle proprietà medicinali delle diverse erbe e sulle teorie dietro questa pratica che risale a più di due mila anni fa.

La struttura sociale nell’antica Cina confuciana era piuttosto complessa ma è vero che anche formalmente le donne erano sempre considerate, se non negativamente, almeno in una posizione di netta inferiorità?

Il confucianesimo dettava le regole della società e della cultura di quel tempo. Penso che possiamo essere d’accordo sul fatto che Confucio fosse un grande filosofo e pensatore. Detto questo, non aveva molto amore o rispetto per le donne. Aveva tutti questi detti: Quando sei ragazza, obbedisci a tuo padre; quando sei moglie, obbedisci a tuo marito; quando sei vedova, obbedisci a tuo figlio. Una donna istruita è una donna senza valore. E una brava donna non dovrebbe mai fare più di tre passi oltre il cancello principale. Quindi sì, le donne erano chiaramente viste come inferiori. Tan Yunxian, a detta di tutti, era una vera donna confuciana: contrasse un matrimonio combinato, ebbe quattro figli e gestì la casa di suo marito. Allo stesso tempo, ha davvero aggirato le regole confuciane riguardo alle donne. Era un medico che si prendeva cura di donne e ragazze. Ha scritto il suo libro. Cinquecento anni fa, stava lottando per trovare quello che oggi chiamiamo equilibrio tra lavoro e vita privata. Era straordinaria per il suo tempo e la trovo straordinaria anche oggi.

Nella Cina più antica esisteva una struttura matriarcale legata al culto delle Grandi Antenate e delle Regine Madri. È possibile che questi legami ancestrali siano sopravvissuti segretamente anche nella Cina di stampo confuciano?

Non che io sappia, ma non so tutto…

Tan Yunxian, la protagonista del tuo romanzo, è una donna medico che visse nella Cina imperiale durante la dinastia Ming. Secondo l’etica confuciana, a una donna era formalmente vietato esercitare la professione di medico? Come fa Yunxian ad aggirare questi divieti?

La Cina ha una storia di donne che operavano in medicina che risale a duemila anni fa. Tuttavia, le donne medico erano rare. Dei 12.000 testi medici conosciuti rinvenuti in Cina, solo tre sono stati scritti da donne e quello di Tan Yunxian è il primo. Questo non è stato solo sorprendente per me, è stato anche fonte di ispirazione. Ciò che mi ha particolarmente incuriosito di Tan Yunxian è che tutti i suoi pazienti erano donne e ragazze. Alcune delle sue pazienti soffrivano di disturbi comuni a entrambi i sessi: mal di gola, disturbi di stomaco e simili. Ma ciò che rende il suo lavoro davvero straordinario sono quei casi che riguardano solo donne e ragazze: mestruazioni, gravidanza, parto, allattamento e menopausa. Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che non importa se una donna sia vissuta durante la dinastia Ming o oggi, sia ricca o povera, in Cina o in Italia, o sia di qualsiasi colore dell’arcobaleno, perché siamo unite dalla nostra identità biologica e dalle funzioni fisiologiche, che ci legano insieme attraverso il tempo e lo spazio. Questo, e il fatto che gli uomini cercano di acquisire il controllo sul corpo delle donne da… da sempre. Penso che possiamo ringraziare il nonno di Tan Yunxian per averle permesso di diventare medico. Quando aveva otto anni andò a vivere con i suoi nonni. Suo nonno, che era uno studioso imperiale di alto rango, amava bere vino la sera e farsi recitare poesie classiche. Nel suo libro, Tan Yunxian cita suo nonno che una notte disse: “Questa ragazza è troppo intelligente per limitarla a imparare a ricamare. Dovremmo insegnarle la mia medicina”. In realtà, continua ad imparare da sua nonna, che era anche lei un medico, ma ciò non sarebbe mai accaduto senza l’approvazione del nonno.

Da chi venivano curate le donne se ai medici uomini era vietato ogni contatto fisico? Soprattutto per quanto riguarda il parto, c’erano delle ostetriche, magari le stesse che si occupavano di fasciare i piedini alle bambine?

I medici uomini dovevano sedersi dietro una tenda o uno schermo o meglio ancora essere fuori nel corridoio quando curavano ragazze e donne. Il padre di una ragazza o il marito di una donna fungevano da intermediario tra la paziente e il medico. Pensa quanto sarebbe stato imbarazzante! Anche adesso, anche se amo moltissimo mio marito e i miei figli, non vorrei che facessero da intermediari tra me e nessuno dei miei medici, in particolare il mio ginecologo. Ma era anche vietato a tutti i medici, uomini o donne, di entrare in contatto fisico con il sangue. Ciò è dovuto a Confucio, che aveva creato una gerarchia di tutte le professioni. Ai livelli più bassi della società c’erano le persone che entravano in contatto fisico con il sangue: coroner, macellai e ostetriche. Quindi, le ostetriche facevano nascere i bambini. Poiché le ostetriche si sporcavano letteralmente di sangue le mani, erano considerate contaminate, le più infime. Mi sembra interessante, perché le ostetriche sono quelle che mettono al mondo la vita. (Va detto che le ostetriche hanno fatto nascere i bambini in tutto il mondo fino in tempi relativamente recenti.) Le madri fasciavano i piedi delle loro figlie.

Grazie per la tua disponibilità E come ultima domanda vorrei sapere se stai scrivendo un nuovo romanzo e se puoi raccontarci qualcosa a riguardo?

Sto lavorando al nuovo romanzo, basato sulla storia vera di tre donne che lasciarono la Cina nel 1870 per venire a Los Angeles. A quel tempo, Los Angeles contava solo 5.000 persone. (Al contrario, San Francisco aveva già una popolazione di 150.000 persone.) Los Angeles era considerata la più selvaggia di tutte le città del selvaggio West, con più pistoleri, omicidi, risse di strada e impiccagioni che in qualsiasi altra parte del paese. Qui c’erano solo 180 cinesi, di cui 34 donne. Immagina come deve essere stato per loro vivere in questa città violenta, sporca e molto arretrata. Sto scrivendo la storia di tre di quelle donne vere. La prima, una ragazza di appena 15 anni, fu portata a Los Angeles in un matrimonio combinato con un uomo molto più anziano. Non era qui da molto tempo prima che venisse rapita e tenuta prigioniera per sei mesi. La seconda era la moglie del medico cinese. Era una donna di grande coraggio e ingegnosità, che prese il controllo del suo destino. La terza è basata su una donna che è stata venduta dalla sua famiglia in Cina, portata in California e avviata alla prostituzione. La storia si svolge subito dopo la guerra civile. La schiavitù era stata bandita e vietata nella nostra Costituzione. C’era un’eccezione, tuttavia, e cioè nello stato della California, dove era legale per le donne cinesi essere acquistate, vendute e possedute contro la loro volontà. Dal momento in cui la donna di cui sto scrivendo è sbarcata in California, ha fatto tutto il possibile per fuggire e trovare la libertà. Ancora una volta, queste erano tutte donne vere. Hanno vissuto momenti molto difficili ma, come Tan Yunxian, sono fonte di ispirazione fino ad oggi.


Martina Tonoli e i “Benefici dell’educazione ambientale”. Intervista a cura di Viviana Filippini

4 luglio 2024

Fa davvero bene vivere a diretto contatto con la natura? Quali sono i suoi effetti sull’essere umano? Quanto è importante conoscere la dimensione naturale che ci circonda? A dare risposta a queste e altre domande ci pensa la giovane psicologa Martina Tonoli nel libro “I benefici dell’educazione ambientale” edito da Angolazioni. Per saperne di più abbiamo parlato del libro con l’autrice.

Come è nata l’idea del libro? L’idea del libro nasce dall’esigenza di divulgare e rendere accessibili a tutti le informazioni e i risultati raccolti durante lo svolgimento della mia tesi magistrale in Psicologia per il Benessere. In quanto, durante la sua stesura mi sono resa conto nell’importanza delle informazioni raccolte e di quanto queste rese accessibili a tutti, possano aprire la mente a molte persone. Infatti, il libro parla dei benefici del contatto della natura che ogni singolo individuo può sperimentare su di sé. La natura ha straordinari effetti benefici a livello psico-fisico. Rigenera continuamente l’attenzione periferica e per questo migliora e prolunga la qualità dell’attenzione su di un compito. Perché non unire questi benefici con l’educazione? Se si inizia ad educare sin dai primi anni di vita i più piccoli alla cura della natura, a restare in contatto con essa, a preservarla, automaticamente ognuno di loro andrà a beneficiare di tutti questi straordinari effetti positivi. Inoltre, l’interazione con la natura sin dai primi anni di vita e l’introduzione dell’educazione al suo rispetto all’interno del programma scolastico predispone i soggetti alla salvaguardia e tutela di essa. Rousseau, Gandhi, Montessori e Dewey sostenevano che l’insegnamento attraverso l’esperienza diretta e il contatto possa collegare gli individui alla natura e plasmare la loro prospettiva morale nei confronti di essa.

Perché scrivere un libro dedicato all’educazione ambientale in un periodo storico dove la crisi climatica è sempre più presente? Il mio libro nasce proprio dal bisogno di sensibilizzare la popolazione sulla tematica della crisi climatica e rendere le persone consapevoli di quanto sia necessaria per noi la natura e il suo benessere per poi, di conseguenza, poterne godere anche noi. È forse proprio partendo dall’inserire i concetti di tutela e cura della natura all’interno dei contesti educativi che si può arginare questa problematica. In quanto, è dimostrato che durante i primi anni di scuola i bambini si plasmano in base a ciò che viene trasmesso loro, i valori che acquisiscono durante la prima infanzia rimarranno con loro per sempre. Dove più che nelle scuole è possibile inserire un’educazione traversale e comune a tutti? Io ho scelto di approfondire ed indagare gli effetti che l’educazione ambientale potrebbe apportare se inserita sin da subito nel contesto scolastico. Con un programma adeguato. Le scuole sono ritenute dei luoghi ideali per la realizzazione dei programmi che possano fornire un contatto continuo con l’ambiente naturale lungo tutto l’arco di crescita degli individui.


In che modo hai svolto le tue ricerche per dimostrare i benefici dell’educazione ambientale? La mia ricerca è una ricerca esplorativa qualitativa, innanzitutto ho raccolto più materiale possibile a livello bibliografico che andasse ad avvallare tutti i benefici della natura sull’uomo, oltre che verificare e raccogliere tutte le ricerche che già erano state realizzate, in precedenza, sul campo in merito a questa tematica. Successivamente, ho indagato in tre classi di prima elementare, in tre istituti statali differenti, anche per attività in relazione alla natura e spazi verdi esterni, i sentimenti, le percezioni e le nozioni dei bambini in relazione ad essa. Dai differenti programmi scolastici, alla differente sensibilità sulla tutela dell’ambiente naturale e del contesto scolastico, sono emersi risultati che sono andati a confermare le mie ipotesi. I bambini i quali hanno avuto la possibilità di avere maggior contatto con la natura si sentivano più vicini ad essa e più in dovere di proteggerla e tutelarla.

Cosa hai notato dal rapporto tra uomo e natura, quali sono i benefici, gli aspetti derivanti dal vivere un percorso di educazione in rapporto al mondo naturale? Vivere in contatto con la natura porta numerosi vantaggi psico-fisici. Abbassa il livello di cortisolo, ormone dello stress ed innalza il livello di ossitocina, ormone della felicità. Rallenta il battito cardiaco. La natura è un rigeneratore continuo dell’attenzione, migliora la concentrazione e le capacità cognitive, oltre che a sviluppare e sprigionare maggiore creatività. Le persone che vivono a contatto con la natura dimostrano livelli d’umore mediamente più alti, e minore possibilità di avere problemi cardiaci, ad esempio. Essendo la natura un elemento che dona ai soggetti benessere,automaticamente le persone si sentono innatamente spinte a tutelarla, a preservarla ed a mantenere questo contatto così benefico con essa.

Chi è il lettore ideale del tuo libro? Questo libro è volto a tutte le persone che lavorano e vivono in contesti educativi, può essere rivolto ad un insegnante come ad un genitore. Ma non solo, è per tutti quelli che si sentono vicini al mondo della natura, oppure che vogliono approfondire la sua tematica e il potere benefico che ha sul corpo e sulla mente dell’uomo.


Perché è importante recuperare il rapporto uomo natura nel percorso di educazione e farlo fin dalla scuola? Se non ci fosse la natura non ci saremmo nemmeno noi. Al giorno d’oggi siamo troppo concentrati sulle nostre attività, sui mille impegni e i mille problemi che ci si presentano ogni giorno. Ma non ci stiamo accorgendo di come stia soffrendo il mondo intorno a noi, ci stiamo dimenticando di cosa si prova a stare bene, a fermarsi e a godersi delle piccole cose della vita. Del calore del sole sulla nostra pelle, del rumore delle foglie che si muovono con il vento, della sensazione di distensione dei muscoli, immediati, nel vedere una distesa di prato verde. È importante ritornare a connetterci con la nostra linfa vitale, la natura, per poter ritornare a star bene. Ma per poterlo fare è necessario educare le nuove vite e rieducarci alla tutela della natura. Se si inizia a farlo sin dalla tenera età dei bambini, saranno essi stessi a continuare a mantenere e ricercare questo contatto benefico con tutto l’ambiente naturale e a preoccuparsi della sua tutela.

:: Un’intervista con Qiu Xiaolong, su “Il Dossier Wuhan” (Love and Murder in the Time of Covid, 2023) a cura di Giulietta Iannone

2 luglio 2024

Benvenuto Xiaolong e grazie per aver accettato questa nuova intervista. Il dossier Wuhan è il tuo ultimo romanzo di Chen Cao. Vuoi parlarcene? Come è stato affrontato il Covid in Cina?

R: Grazie. In Il dossier Wuhan, puoi vedere l’enorme disastro che il Covid ha portato in Cina, ma più specificamente, è un quadro realistico di come la disastrosa politica “zero Covid” sia stata portata avanti con brutale forza dal governo del PCC, causando migliaia di vittime. E migliaia di morti come danni collaterali di questa politica disumana. Ad esempio, come descritto nel romanzo, una donna incinta in travaglio non poteva essere ricoverata in ospedale poiché non aveva quel giorno il certificato di aver effettuato un test Covid con risultato negativo, ed è morta dissanguata durante lo sforzo disperato di spostarla da un ospedale all’altro. Ed è una storia vera.

Il tuo romanzo è un’aperta denuncia dei metodi repressivi utilizzati per contenere l’emergenza epidemica. Non hai paura di eventuali ritorsioni da parte del governo cinese nei tuoi confronti?

R: Naturalmente sono più che nervoso per le eventuali ritorsioni. Ma un libro del genere deve essere scritto. La storia non può essere dimenticata o perdonata. Mi è capitato di essere quello capace di scriverlo, ma anche quello capace di presentarlo ai lettori in diverse lingue. I miei colleghi scrittori cinesi sono stati imbavagliati e non possono scrivere alcuna cosa sul Covid, a quanto mi risulta. Quindi continuavo a ricordare a me stesso una citazione di Confucio: “Ci sono cose che un uomo farà e cose che un uomo non farà“. Scrivere Il dossier Wuhan è una cosa che ho fatto e dovevo fare.

Il personaggio di Chen Cao invecchia insieme a te e diventa sempre più amareggiato per i mali che affliggono la Cina, un paese meraviglioso, dalla cultura millenaria. Il personaggio di Chen Cao rispecchia le tue emozioni? L’amore sarà per lui una consolazione?

R: Sì, sta invecchiando e diventando sempre più rattristato dai mali che affliggono la Cina, come dici tu. Per questo spero che l’amore possa essere per lui una delle poche consolazioni. Anche perché traduco sempre più poesie classiche (via Chen) da una cultura millenaria. È un tentativo di tenere me e Chen al sicuro dalle implacabili delusioni e disillusioni. Ovviamente io non sono Chen Cao.

Chen Cao ama la poesia, il buon cibo, è un ottimo traduttore, ha un forte senso etico e grande umanità, cosa ti somiglia e cosa ti differenzia da lui?

R: Questa è una domanda correlata. Sì, amo la poesia, il buon cibo (così sono diventato lo chef della mia famiglia), e recentemente ho anche scritto una prefazione a una nuova raccolta di poesie di T. S. Eliot pubblicata da un editore americano mentre presto sta per uscire la mia traduzione riveduta delle poesie di T. S. Eliot. Per quanto riguarda “un forte senso etico e una grande umanità“, non spetta a me dire se possiedo o meno queste qualità. Basti dire che condivido alcune qualità con Chen.

Tornando al Covid, tutto è partito da Wuhan, capoluogo della provincia di Hubei. Si parlava di un virus fuggito da un laboratorio a causa di un incidente e anche di trasmissione dagli animali all’uomo di un virus che, a causa di modificazioni genetiche, è diventato mortale per l’uomo. Forse non scopriremo mai le origini di questa epidemia, che idee ti sei fatto?

R: Ho letto parecchio sulla possibilità che il virus fosse fuoriuscito da un laboratorio di Wuhan come origine della pandemia di Covid. Ho fatto i compiti per la stesura del romanzo. Personalmente mi sento propenso allo scenario, anche se non sono mai stato uno specialista del settore. Quindi non posso dirlo con certezza. Grazie alla trasparenza intorno al laboratorio di Wuhan attuata dal governo del PCC, potremmo essere in grado di scoprire l’origine dell’epidemia di Covid nel mondo.

Vorrei davvero iniziare a studiare la lingua cinese, che consigli daresti ad un italiano che vuole intraprendere questo arduo percorso? Ho iniziato ma non sto facendo alcun progresso. Come hai imparato l’inglese? Iniziando a leggere libri in lingua inglese?

R: La mia risposta è semplice. Inizia a studiare senza preoccuparti troppo. La lingua cinese è contestuale. Una volta acquisito un certo numero di vocaboli cinese, potresti essere in grado di comprendere il testo cinese leggendolo contestualmente. Per quanto riguarda il mio modo di imparare l’inglese, ovviamente l’ho fatto attraverso i libri di testo. Come probabilmente saprai, ho studiato inglese principalmente da solo al Bund Park. Anche altri libri in lingua inglese, come narrativa e poesia, mi aiutarono molto, specialmente in quei giorni in cui tutte le opere letterarie erano state vietate tranne le “otto opere rivoluzionarie moderne”. Anche questo mi ha dato uno stimolo in più per imparare l’inglese.

E infine, nel salutarti e nel ringraziarti per la tua disponibilità, come ultima domanda ti chiedo se puoi dirci qualcosa sulla trama del tuo prossimo romanzo.

R: Sto lavorando al prossimo romanzo dell’ispettore Chen. Come forse vi ho detto, a volte è difficile scrivere un libro sulla Cina. Ciò che è accaduto alla Cina in passato e ciò che sta accadendo nel presente potrebbero essere strettamente interconnessi. Quindi il presente romanzo, pur concentrandosi su qualcuno che “è scomparso” nella Cina odierna, abbraccia più di trent’anni, esplorando le complicate interrelazioni nella storia cinese. Nel frattempo, tra un paio di mesi uscirà il mio secondo libro sul Giudice Dee (in francese e inglese).

:: Un’intervista con Ben Pastor a cura di Giulietta Iannone

19 giugno 2024

Benvenuta Ben su Liberi di scrivere, è sempre un piacere parlare con te di libri e letteratura. Per una volta non parleremo di Martin Bora, e della tua serie ambientata nella Germania nazista, ma di un romanzo appena uscito per Mondadori dal titolo La fossa dei Lupi. Per molti tuoi lettori del tutto inaspettato. Ce ne vuoi parlare? Come ti è nata l’idea di scriverlo?

Di solito rispondo dicendo, come lo scalatore Edmund Hillary quando gli fu chiesto perché avesse voluto scalare l’Everest: “Perché è lì.” E lì, nelle scuole italiane come nelle nostre vite, I Promessi Sposi si trova dal 1870, tre anni prima che l’autore morisse. Un testo obbligatorio, dunque, seminale come Moby Dick per gli statunitensi, Guerra e Pace per i russi, o I Miserabili per i francesi. E se Manzoni condivide il podio con Alighieri, è perché ha “inventato” l’italiano moderno così come la Divina Commedia ci ha fornito una lingua nazionale. Proprio perché imprescindibile, e perché al contrario di molti l’ho amato fin dalla prima lettura, ho in mente e forse anche nel cuore I Promessi Sposi da tempo. Una storia di amore contrastato, fughe oltre i confini, guerre e pandemie, un abietto rapimento a fine di stupro, disordini di piazza… Il romanzo ci parla oggi forse più di ieri! Cresciuta fra libri di grande letteratura, con una carriera accademica alle spalle, e prestata da oltre trent’anni alla detection, mi è parso finalmente il momento di ringraziare Don Lisànder a dovere, abbinando alla mia consueta analisi storica e filologica un pizzico di ironia postmoderna. Che occasione per giocare con lo stile bonario di Manzoni mantenendo una tensione da thriller, ed elaborare i personaggi parlando in modo più esplicito di violenza e sensualità dove l’originale necessariamente doveva tacere! Un’esca troppo ghiotta per ignorarla.

Non avevi paura prima di cimentarti coi personaggi del Manzoni?

I monumenti, si sa, sono eretti per ricordare, ammonire, stupire. Ciò non toglie che nel corso dei secoli rivoluzioni e guerre li abbiano abbattuti fino alle fondamenta spesso e volentieri. Ho un vivido ricordo delle statue atterrate di Marx e Lenin nei giardini pubblici di Sofia poco dopo la caduta del Muro. Se, diciottenne nel 1968, posso essere ascritta a una generazione al contempo idealista e iconoclasta, da amante dell’archeologia detesto la perdita di qualsiasi testimonianza monumentale. Ammiro i capolavori, ma non ne sono intimidita. Manzoni scrisse per tutti noi, amabilmente e in modo comprensibile, conscio di dover “risciacquare i panni in Arno” prima di rendere il suo capolavoro fruibile dalle generazioni. Nessun timore, dunque. La coscienza di avere davanti una sfida notevole, sì. Dalla mia avevo stima per il testo, buona conoscenza della sintassi e delle metafore manzoniane, capacità di investigare il periodo storico nei suoi dettagli: società, religione, sistema economico, relazioni di genere e di classe, musica e arti grafiche… e naturalmente anche i soggetti che prediligo da sempre: armi e uniformologia. Confrontarsi con personaggi letterari già esistenti presenta vantaggi (sono già disegnati in modo più o meno particolareggiato, hanno un loro modus operandi) e svantaggi (gli stessi, come sopra). In altre parole, chi scrive deve accortamente cogliere tutti gli accenni anche sottintesi dell’originale: Lucia è bella o no? Fino a che punto Renzo ha un carattere aggressivo? Sono tutti d’accordo nel perdonare l’Innominato dopo il pentimento? Da queste domande nascono possibilità di elaborazione, nel rispetto del personaggio senza abbandonare la libertà creativa.

Dunque hai proseguito i Promessi sposi. Tornano Renzo e Lucia in una storia inaspettata di indagine, ce ne vuoi parlare?

Sui banchi di scuola abbiamo lasciato Renzo e Lucia novelli sposi, avviati oltre l’Adda. Seguono cenni sulla numerosa prole che avranno, e sulle lezioni di vita che hanno imparato (o no) dalle loro disavventure. La Fossa dei Lupi li porta avanti di qualche mese, durante la gravidanza di Lucia che è tornata dalla Bergamasca per far nascere il primo figlio nel paese natio. Identifico quest’ultimo, sulla scia di vari studi, con Olate, ora parte della città di Lecco. Baffi e barba identificano Renzo come adulto maturo, oltre che futuro padre e piccolo imprenditore. Agnese, madre di Lucia, presenza un po’ ingombrante, li segue ovunque. Agli inizi del romanzo, l’omicidio dell’Innominato sui monti sopra Lecco li sconvolge… o forse no. È quel che vuole scoprire Olivares, che da buon investigatore sospetta di tutti. Come lui, i due Tramaglino sono sopravvissuti al contagio e possono muoversi liberamente. Farli crescere dalla quasi adolescenza alla vita matrimoniale è stato interessante, così come scoprire una certa caparbietà nel comportamento di Lucia (ricordiamo la “Madonnina infilzata” del Manzoni), e inattesa temerarietà in Renzo sotto un interrogatorio che oggi definiremmo di garanzia. Dopo quasi due anni di peste, che richiamano alla mente la nostra recente esperienza con il Covid, tutti i lombardi stanno cercando di ricostruire le loro vite fra i lutti e il disastro economico seguìto alla peste.

Il bel luogotenente di giustizia Diego Antonio Olivares è il vero protagonista del libro? Come hai costruito il suo personaggio?

Devo ammettere che Diego Antonio de Olivares, energico eppure ingenuo venticinquenne, è il mio favorito. Impegnato nella lotta al crimine, la sua fervida religiosità gli fa vagheggiare un futuro non solo nella dotta Compagnia di Gesù ma anche il martirio in terre lontane; si interroga e spesso interroga il suo padre spirituale su questioni morali, ricerca verità e giustizia. Ma è anche un ragazzo pronto ad infiammarsi per una vedova come Donna Polissena Gallarati, tanto affascinante quanto “scienziata” noncurante delle regole che pure formalmente osserva con atti di carità. Mi è piaciuto molto dosare i passi della sua seduzione, secondo i costumi garbati dell’epoca, fino alla delizia di scoprire cosa si nasconde sotto le vesti sontuosamente severe di lei. Costruire Olivares, cosa amabilissima, ha significato studiarne l’aspetto italo-spagnolo (i capelli biondo-rossi del padre galiziano e gli occhi neri della bisbetica madre milanese Donna Sebastiana, “incarognita con Nostro Signore per avere lasciato morire quattro dei suoi sei figli”), il vestiario più vicino al rigore protestante d’Oltralpe che al fasto italiano, e soprattutto la sua verosimile adesione al complicato sistema secondo cui un’indole generosa e priva di pretese può e deve convivere con l’esasperato senso dell’onore spagnolesco. Olivares è il protagonista del romanzo perché indaga sull’omicidio eccellente dell’“Innominato” Bernardino Visconti, perché si confronta con i ricchi eredi del morto e di Don Rodrigo come con i miserabili ex bravi che mendicano un ingaggio, con informatori, prostitute e banchieri, girando per il lazzaretto milanese in via di chiusura, il Lecchese e la Brianza… Ma lui stesso riconosce in Renzo e Lucia il nucleo di una costellazione di personalità ed eventi. Intorno a loro ruotano sospetti, crimini, vendette, senza dimenticare laboriosità premiata, donazioni in denaro, curati truffaldini come Don Abbondio, figli di lanzichenecchi, falsi spagnoli e falsi italiani. E la feroce Guerra dei Trent’Anni fa da sfondo tempestoso al tutto, come nella indimenticabile Resa di Breda dipinta da Velázquez.

Come hai gestito tutta la parte relativa alle concezioni cristiane del Manzoni: la Provvidenza, il libero arbitrio, la giustizia, la fede?

Sulla religiosità del Manzoni si sono scritti non fiumi ma oceani di inchiostro. Convertito al cattolicesimo, moderato nel senso che appoggia almeno formalmente la separazione fra il potere ecclesiastico e quello civile, lo scrittore crede profondamente nell’istituzione del Papato e nel soccorso della Provvidenza divina nelle vicende umane. I suoi personaggi positivi, a partire dai Promessi e da Fra Cristoforo, sono mossi dalla fede; hanno fiducia che Dio provvederà anche contro le infamie umane. In Manzoni la facoltà di scegliere fra il Bene e il Male, o libero arbitrio, è aperta a tutti; quanto alla giustizia, si può solo aspirare ad essa, in un mondo imperfetto dove essa è augurabile solo grazie all’aderenza a principi morali universali. Questo però non equivale a passività: Lucia cerca di sottrarsi alla violenza, Renzo sfugge alla persecuzione emigrando, e Fra Cristoforo affronta a testa alta il prepotente Rodrigo. Aiutati, ché Dio t’aiuta sembra essere il motto per tutti loro. Per quel che mi riguarda, credo nella responsabilità individuale, nel dubbio come strumento del libero arbitrio, e in tempi post olocaustici non so se mi affiderei ciecamente alla Provvidenza. Ho quindi inserito il dubbio in diversi passi del romanzo, da quello etico-giuridico di Olivares a quello materno di Agnese Mondella, fino all’incertezza e alle scelte codarde ma pragmatiche di Don Abbondio, a cui regalo il cognome Romanò.

Hai appena venduto i diritti cine-televisivi per La fossa dei Lupi. Come è andata? Si sa già qualcosa di più dettagliato?

Be’, la notizia è di pochi giorni fa, quindi è ancora tutto piuttosto prematuro; ci sono ancora moltissimi passi da fare, e non è detto che il progetto vada necessariamente in porto. A ogni modo, sarà interessante vedere ricostruire una Milano e una Lombardia scomparse da tempo, magari con ambientazioni in borghi e angoli cittadini ancora conservati, o con l’ausilio della tecnologia informatica. La trama del romanzo include scontri armati, agguati, inseguimenti, risse, cerimonie solenni e momenti ironici, scene d’amore, duelli e cavalcate – tutti i componenti che ci aspetteremmo da una continuazione in chiave di mystery del capolavoro manzoniano. La Fossa dei Lupi potrebbe diventare un racconto visivo entusiasmante e sensuale.

Grazie della tua disponibilità, come ultima domanda ti chiederei di parlarci dei tuoi progetti per il futuro.

Be’, finito un progetto, ne comincia un altro. Da un po’, infatti, sto considerando di riportare Martin Bora, ufficiale tedesco con una coscienza, agli inizi della sua avventura militare e investigativa sul fronte orientale. Lo specchio del pellegrino (working title) si svolge nel 1941 in un ambiente inedito e assai poco corrispondente alla nostra idea di campagna di Russia. Le sponde del Mar Nero, come ci insegnano i magistrali racconti di Isaak Babel’ e lo splendido film di Nikita Michalkov Colpo di sole, hanno un aspetto quasi mediterraneo. Sarà un’occasione per vedere cosa succede quando Bora, ancora capitano di cavalleria, viene inviato laggiù a risolvere un caso apparentemente facile. Gli appassionati di Martin Bora non saranno sorpresi di riconoscere le descrizioni di regioni e città che oggi sono nuovamente nei notiziari di guerra. Mi affido io per prima al buonsenso e alla tenacia indagatrice del mio protagonista, certa che nonostante gli ostacoli sulla sua strada proseguirà fino a trovare il bandolo della matassa.

Valerio Vitantoni ci racconta “L’imperatrice Sissi a Madeira” (Mursia 2024) A cura di Viviana Filippini

11 giugno 2024

“L’imperatrice Sissi a Madeira” è il libro di Valerio Vitantoni, edito da Ugo Mursia Editore, nel quale l’autore affronta la figura della giovane imperatrice Sissi, dalla giovinezza introversa, alla vita alla Corte asburgica non proprio facile, fino alla malattia che la colpì verso il 1860 e che la mise a dura prova. Da lì, il viaggio, o forse più una fuga, a Madeira, in Portogallo, dove ci fu una vera e propria rinascita per la donna. A raccontarci qualche dettaglio in più sull’imperatrice l’autore Vitantoni.

Dove nasce la passione per la casa reale austrica e per la figura di Sissi? La mia passione per la figura storica dell’imperatrice Elisabetta d’Austria – il cui vero nomignolo era in realtà Sisi – nasce nel lontano 1998. Avevo appena dieci anni e ricorreva il centenario della sua tragica morte. I giornali erano pieni di articoli sulla leggendaria “principessa Sissi” e in televisione se ne parlava spesso, riproponendo i famosi film con Romy Schneider tanto leggendari come la vera sovrana austriaca. Al tempo uscì anche un cartone animato che stimolò ulteriormente la mia infantile curiosità. Inserendosi in un sempre crescente interesse, iniziai ad acquistare i primi libri sull’imperatrice scoprendo che il personaggio interpretato da Romy era molto diverso da quello reale, ma ancor più affascinante ed incredibilmente seducente. L’interesse crebbe negli anni e mi portò ad approfondire figure correlate con biografie sull’imperatore Francesco Giuseppe, sulla sorella di Elisabetta (la regina Maria Sofia del Regno delle Due Sicilie), sull’affascinante Ludwig II di Baviera… Potrei proseguire ad oltranza. La mia biblioteca “asburgica” conterà ormai più di duecento volumi tra biografie, romanzi, libri fotografici, saggi in lingua francese, inglese e tedesca riguardanti Elisabetta d’Austria e la sua famiglia. Con lo storico e giornalista Enrico Ercole, uno dei massimi esperti di storia asburgica e di Sisi che ci sono in Italia, ormai più di dieci anni fa aprimmo un forum online che ci portò a conoscere nuove persone che sono rimaste fra i nostri amici e con i quali si discuteva, anche animatamente, su tanti aspetti della vita di Sisi e della sua famiglia, suggerendoci vicendevolmente letture, film e quant’altro. Seguì poi un blog personale nel quale iniziai a scrivere delle mie passioni: non solo Sisi ma anche usi, costumi e tradizioni dell’Ottocento pure dell’arco alpino che sono un altro mio grande interesse. Seguì poi la creazione di un gruppo Facebook correlato al forum, con l’unico intento di far conoscere la vera “principessa Sissi”. Col tempo maturai l’idea di scrivere qualcosa di mio laddove l’editoria italiana risulta assai povera di approfondimenti aggiornati sulla figura di Sisi. Così ecco che nel 2018 ho pubblicato con Ugo Mursia Editore il mio primo saggio storico dedicato ai viaggi dell’imperatrice Elisabetta in Trentino Alto Adige. E la saga continua senza sosta.

Lei definisce Sissi un’imperatrice controcorrente, perché? Quando dico che Elisabetta fosse una donna affascinante e seducente, lo dico perché era una donna moderna, che aveva anticipato i tempi sotto moltissimi aspetti. La frase dello scrittore francese Paul Morand descrive assai bene questa modernità: “Elisabetta d’Austria è una donna di oggi, con tutte le sue qualità e i suoi difetti, entrata nel XIX secolo come chi sbaglia di porta”. Provò ad assolvere al ruolo di sovrana, di madre premurosa e di moglie affettuosa, come del resto doveva fare seguendo le regole dell’etichetta della Corte di Vienna che lei definirà più avanti come una “gabbia dorata”; purtroppo, lei che non aveva sicuramente la preparazione e l’indole per esser tutto ciò, non ebbe aiuto da nessuno. Si ammalò di depressione dopo la morte della prima figlia, dopo aver scoperto i tradimenti del marito e il contagio con una malattia venerea. Fuggì dall’Impero austriaco e quando tornò era un’altra donna: iniziò a pensare a se stessa prima d’ogni altra cosa, a coltivare il proprio benessere psico-fisico facendo attività fisiche d’ogni genere – dalla scherma alla palestra, passando per l’equitazione e il trekking. Si pensi che in tutte le sue residenze si era fatta installare una palestra con parallele ed anelli. Addirittura, dopo le sessioni di ginnastica, Elisabetta si faceva massaggiare da una propria cameriera, oppure dai massoterapisti più famosi del suo tempo. Curava molto la propria alimentazione e spesso alternava periodi in cui mangiava di più a periodi in cui mangiava molto meno, facendo diete anche bizzarre (in linea col suo secolo!) che purtroppo hanno portato alla creazione del mito d’una imperatrice anoressica (cosa che non è mai stata, altrimenti non sarebbe neppure arrivata a sessant’anni!). Nelle sue residenze aveva fatto collocare un water-closet all’inglese, primo di questa concezione nella conservatrice Corte di Vienna; addirittura fece mettere una vasca nella quale faceva il bagno ogni giorno, spesso si dice perfino nell’olio d’oliva o nel latte per mantenere la pelle idratata. Allo stesso modo si prendeva cura del viso con maschere e creme grasse assai idratanti, mentre di notte si dice che dormisse con dei panni umidi ai fianchi per mantenere il suo girovita sottilissimo, invidiato da tutte le donne del suo tempo. Aveva un vero e proprio culto per i capelli: si dice che li avesse lunghi sino al pavimento ed erano il suo vanto, ma anche il suo cruccio più grande. Li acconciava con mirabolanti pettinature che divennero molto di moda fra le dame dell’alta società.Fu una donna che viaggiò moltissimo in tutta Europa, soprattutto dopo la morte del figlio Rodolfo, visitando le località più à la mode dell’Ottocento. Frequentava la Riviera francese, le località termali dell’Impero austriaco e viaggiava per una sua sete di cultura attraverso la Grecia e le città dell’Egitto, della Turchia, del Marocco, della Spagna ecc… Non c’è forse un luogo in Europa dove l’imperatrice Sisi non abbia messo piede! Fu dunque un’icona sotto molti aspetti e se fosse vissuta nel nostro secolo sarebbe divenuta indubbiamente una influencer molto famosa.

Come fu per Sissi conciliare il suo carattere (vitale, aperto) con le esigenze della vita di corte austriaca? Innegabilmente fu molto difficile e anzi si dovette scontrare con le rigide regole che governavano ogni ambito della vita di una sovrana. Lei provò a fare di tutto, cercando di assolvere pienamente al ruolo che dovette ricoprire suo malgrado e almeno fino al 1860 (si era sposata nel 1854) fece del suo meglio per conciliare il suo essere vitale con l’aria compassata e vetusta della Corte. Almeno inizialmente portò una ventata di freschezza – per il cruccio di sua zia e suocera Sofia, assai tradizionalista – poiché aveva dei comportamenti non proprio consoni per una imperatrice: andava a fare spese in centro da sola, senza scorta, con una sola dama di compagnia; per le feste di Natale era lei stessa che preparava gli addobbi, gli alberi e i regali, ed era prodiga di doni e di affetto verso tutta la sua famiglia. Cercò di portare il suo spirito democratico anche nella politica del marito. Quest’ultimo è un aspetto del quale si parla molto poco, ma nei primi anni di matrimonio Elisabetta tentò di far attuare a Francesco Giuseppe una politica molto più liberale, poiché aveva compreso quanto l’assolutismo fosse la causa del malcontento dei sudditi (specialmente del Lombaro-Veneto). Per sua intercessione il marito concesse, ad esempio, l’amnistia a molti prigionieri politici durante i viaggi a Venezia e Milano; in seguito invece fu grazie a Sisi che si formò la duplice monarchia austro-ungarica.Tutto questo però fece storcere il naso alla Corte e agli aristocratici viennesi. Le critiche si sprecarono, sicché lei poi preferì mandare tutto al diavolo, favorendo la fuga agli eventi di rappresentanza per poter vivere pienamente la vita come voleva, senza sentire i giudizi di nessuno.

Come ha ricostruito questi viaggi, quali documenti ha utilizzato? Come detto, ho collezionato moltissimi libri su questo personaggio e sulle figure correlate che fecero parte della vita dell’imperatrice Elisabetta d’Austria. Al di là delle biografie in italiano, nel vasto panorama dell’editoria tedesca esistono tantissimi volumi su Sisi. Ne esistono di diversi editi moltissimi anni fa, spesso introvabili, con le lettere che il marito Francesco Giuseppe scrisse alla moglie. Sono state pubblicate ad esempio le missive del sovrano all’amica Katharina Schratt che sono fonte preziosa per scoprire gli spostamenti dell’imperatrice e conoscere i retroscena del rapporto tra Sisi e Franz. Si ritrova pure una edizione del diario della dama di compagnia Maria Festics, assai interessante e ricca di dettagli. In italiano, fortunatamente, sono stati pubblicati i memoriali della sua ultima dama di compagnia Irma Sztáray o della nipote Maria Larisch, ma anche il diario del suo lettore di greco Constantin Christomanos o quello della figlia prediletta, Maria Valeria.
Ecco, di solito la base per ricostruire i viaggi di Sisi è sempre questa, ma quello che non riportano questi libri si deve cercare nei giornali dell’epoca che sono una miniera d’oro di aneddoti, storielle e notizie curiose, che raramente vengono riportati nelle biografie. Grazie ai quotidiani digitalizzati dalla Biblioteca Nazionale Austriaca è dunque possibile ricostruire (quasi giorno per giorno) gli spostamenti dell’imperatrice d’Austria. Nel caso delle sue peregrinazioni sull’arcipelago di Madeira mi sono avvalso dell’aiuto della biblioteca locale che virtualmente mi ha inviato gli articoli dei giornali del XIX secolo riferiti al passaggio della sovrana austriaca a Funchal e dintorni.Ed è in questa maniera che, pian piano, ho avuto modo di riscoprire eventi mai narrati e di stilare un resoconto assai dettagliato sui viaggi di Sisi a Madeira – la stessa cosa la feci per i soggiorni dell’imperatrice in Trentino Alto Adige.

Qui si occupa dei ripetuti soggiorni di Sissi a Madeira, in Portogallo, per ragioni di salute, cosa rappresentò per lei quella località? Inizialmente Elisabetta raggiunse quest’arcipelago sperduto nell’Atlantico, così tanto lontano dall’Impero austriaco che pure aveva località di cura ben più alla moda e ben più attrezzate, per curare una presunta affezione polmonare. Si dice soffrì di tubercolosi, si temette addirittura la sua morte; tuttavia la ragione era ben diversa e assai meno nota. Seppur tormentata da una malattia, vera o presunta che fosse, a Madeira l’imperatrice scoprì per la prima volta cosa volessero dire i lussuosi viaggi per mare e ne rimase incantata; apprezzò la natura aspra e selvaggia dell’isola che suo cognato Massimiliano d’Asburgo (fratello dell’imperatore) le aveva descritto con tanto trasporto; gradì le sistemazioni modeste, i paeselli pittoreschi e i curiosi mezzi di trasporto dell’isola, con i carri trainati dai buoi o con le amache, e scoprì quanto le passeggiate sui monti o le cavalcate forsennate sulla spiaggia, così lontana da Vienna, la facessero sentire viva, felice e libera. Così, rasserenata nello spirito, Elisabetta guarì e conservò sempre un bellissimo ricordo dell’isola tanto da ritornavi dopo oltre trent’anni quando, affranta per la tragica scomparsa del figlio, ripercorrerà come Mater Dolorosa tutti quei luoghi nei quali era stata bene e che, come nel caso di Funchal, l’avevano curata nell’anima e nel corpo.

Che effetto ebbero i soggiorni a Madeira sul carattere di Sissi? Oltre all’effetto benefico sulla sua malattia, Elisabetta cambiò e comprese ben presto quanto ella valesse. A Vienna tutti la ossequiavano perché imperatrice, altrove tutti la apprezzavano non solo per il suo ruolo ma anche per la sua spontaneità, la freschezza e la cortesia che metteva sempre quando conversava con gli altri. A Vienna si sentiva giudicata da tutti: ogni suo gesto veniva criticato, malvisto, e la stessa Elisabetta era considerata solamente come una duchessina bavarese (del resto questo era effettivamente il suo titolo nobiliare, mai fu principessa). In altro luogo Sisi veniva invece apprezzata per i suoi modi ma anche per il suo fascino tanto leggendario. Lontana dalla capitale dell’Impero ella diveniva quasi un’altra persona. Celata dietro uno pseudonimo, sicura di non esser riconosciuta, si intratteneva addirittura a parlare amabilmente con i contadini, entrava nientemeno che in casa d’estranei che pure la trattavano con ogni riguardo pensandola una comune nobildonna in viaggio. La sua identità veniva scoperta solamente con la sua partenza, quando magari donava ingenti somme ai suoi ospiti. Così fu a Funchal. E quando capì quanto poteva fare da sola, con il suo carattere e la sua bellezza, tornò a Vienna sicura di sé, convinta di ciò che non voleva e di ciò che invece apprezzava, decisa di cambiare le carte in tavola alla Corte di Vienna. Forse non ci riuscì, ma da quel 1860 iniziò a far tutto di testa sua a scapito di suo marito, di sua suocera e dei suoi due figli.Il viaggio a Funchal fu dunque tappa fondamentale nella vita di Sisi e mi sono sempre chiesto del perché nessuno abbia mai deciso di scriverne un libro. Così ho pensato di farlo io.

Quanto c’è vero dell’imperatrice  Sissi che ci hanno fatto conoscere i film degli  anni ’50, ma anche quelli di più recente produzione, rispetto a quella reale? In un tripudio di serie televisive e film per il cinema dedicati all’imperatrice Elisabetta d’Austria, capita spesso di leggere che le ultime due fiction andate in onda su Canale5 e Netflix siano molto più vicine alla realtà di quanto invece fossero i film con Romy Schneider. Questi ultimi vengono ormai considerati prodotti di fantasia, esclusivamente zuccherosi, una fiaba ben lontana dalla realtà della vita della sovrana austriaca. Io però sono di avviso contrario. Ora, al di là del fatto che ogni epoca abbia il proprio stile ed il proprio prodotto cinematografico o televisivo, non voglio dilungarmi troppo nel narrare la genesi della trilogia (specificatamente tratta da un’operetta per il teatro dunque secondo uno linguaggio ben definito, in un’epoca ben precisa e con un intento dichiarato sin da principio), mi sento di dire che gli ultimi prodotti andati in onda siano un insulto alla Storia.La “Sissi” di Romy Schneider – ma anche quella di Cristiana Capotondi – è assai più vicina alla realtà di quanto invece lo siano le ultime produzioni. Per quanto possa esser a tratti stucchevole, almeno in questo caso la Storia viene rispettata: i personaggi vengono descritti assai meglio dal punto di vista biografico, se ne rispettano i caratteri (laddove le testimonianze, tante, ce li descrivono), si rispettano certe dinamiche, inventando sì episodi mai avvenuti ma che nulla tolgono o aggiungono all’aspetto generale di determinate figure storiche. Perché se si vuol creare un prodotto che racconta le vicende di una figura realmente esistita, non si possono inventare scene tipo la futura imperatrice d’Austria che si prende una dama di compagnia in un bordello. Men che meno si può dipingere il personaggio di Francesco Giuseppe come un despota che sin da principio vuol quasi violentare la cugina nel bosco dopo una rissa con degli ungheresi. Nei film con Romy Schneider si rispettano le regole e i tempi del XIX secolo, ma ci sono pure tutte le caratteristiche della vera Elisabetta: se ne descrive sin da subito (nel primo episodio) il carattere volitivo e anticonformista di una duchessa dal temperamento allegro, senza regole, disperazione della madre. Viene mostrata una giovinetta indomita, sin da subito contro l’etichetta e le regole la Corte. Dirà alla zia Sofia “Io voglio essere libera, non voglio costrizioni!” aggiungendo che la verità è il Vangelo di suo padre Max col quale va a caccia. Certo, il loro rapporto è edulcorato al massimo, così come quello con la moglie Ludovica – ma poco male. Fa parte della fiction, così come per altri personaggio o episodi inventati! Viene mostrato il lato melanconico della futura imperatrice d’Austria, l’incertezza nello sposare Francesco Giuseppe, la paura di lasciare la sua famiglia e il suo nido di Possenhofen e il timore di aver fatto un torto a sua sorella Elena. Nel secondo episodio viene mostrata tutta la sua intransigenza verso certe regole della Corte, i malumori e liti con la zia Sofia, vengono accennati tutti quelli che sono i suoi turbamenti interiori, il voler vivere la maternità come fece sua mamma Ludovica, la malinconia e la malattia che caratterizzano gli anni a venire e che vengono mostrati quasi velatamente nel terzo episodio. Particolari che non possono esser lasciati in secondo piano o non raccontati, perché la trilogia con Romy Schneider è anche questo e non solo zucchero inventato. Non dagli intenti puramente biografici sì, ma una Storia narrata secondo lo stile degli “Heimat-film”, che porta rispetto alla Storia stessa. Mentre le produzioni degli ultimi tempi sembrano voler discostarsi categoricamente dalla “Sissi” della Schneider, raccontando gli eventi con un occhio moderno, volendo mostrare a tutti i costi complotti e retroscena mai esistiti di orge, bordelli, liti con fratelli mai avvenute in certi termini. Almeno i film di Ernst Marischka avevano la decenza di rispettare quelli che erano usi, costumi e tradizioni del XIX secolo. Ormai queste cose sembrano quasi obsolete, minimamente considerate pur di fare un film attuale ed accattivante per le nuove generazioni, con scene di sesso ovunque – anche queste interamente decontestualizzate dell’epoca che si vuol narrare e che invece non sarebbero accadute con certe modalità. Nelle nuove produzioni manca proprio il rispetto per un’intera epoca, mentre nella trilogia con Romy Schneider questo c’è.

Quanto c’è ancora da raccontare sulla vita dell’imperatrice Sissi? Di Sissi è stato raccontato molto ed ogni anno esce sempre qualche romanzetto sulla vita di questa donna moderna ed emancipata. Sono state scritte tante biografie, molte pressoché identiche poiché come base comune hanno quella che tutti considerano la biografia di Sisi per antonomasia scritta da Brigitte Hamann. Tuttavia questo libro, che in Austria viene ormai considerato sorpassato in quanto scritto oltre quarant’anni fa, ha il difetto di aver apportato tante leggende nella vita dell’imperatrice che ormai anche chi non l’ha mai letta considera per vere. Fu lei che, ad esempio, per prima parlò dell’anoressia nervosa di Elisabetta, un aspetto che non corrisponde a verità. Però, da quando ha aperto il museo dedicato a Sisi nel palazzo imperiale di Vienna (col quale sono sempre in contatto, nel caso io abbia dei dubbi riguardo determinate cose), sono stati acquistati numerosi oggetti legati ad Elisabetta che gettano una luce diversa sulla sua esistenza. Così su di lei c’è ancora tanto da scrivere soprattutto in quest’ottica poiché, oltre alla leggenda, c’è anche molto altro e, poiché il suo mito sembra non voler mai tramontare, più che scrivere biografie è molto più stimolante andare ad approfondire dettagli meno conosciuti riguardanti i suoi viaggi in lungo e in largo per l’Europa.

In un nuovo adattamento cinematografico, che attrice vedrebbe nei panni di Sissi? Difficile fare il nome di un’attrice che possa interpretare l’imperatrice Elisabetta. Il suo volto era così tanto particolare che trovare una donna che possa somigliarle anche lontanamente è davvero un’impresa ardua. Oltretutto rendere un personaggio complesso come il suo, con un carattere volitivo, capriccioso, testardo ed incredibilmente cinico, è cosa assai complicata. Vero è che la somiglianza non è necessaria soprattutto se si guarda alla stessa Romy Schneider che, al di là delle acconciature, non ha nulla che possa ricondurre alla vera Sisi; tuttavia proprio lei vestirà di nuovo di Sisi nel film “Ludwig” di Luchino Visconti e proprio in questa produzione la sua interpretazione è talmente tanto esatta – forse anche un po’ a macchietta – che sembra quasi di vedere la vera imperatrice Elisabetta. Stessa cosa si può dire per l’attrice Marisa Mell, conosciuta soprattutto per il ruolo di Eva Kant nel film “Diabolik” diretto da Mario Bava nel 1968, che interpretò Sisi nel docu-film austriaco “Elisabeth – Kaiserin von Österreich” del 1972. Se proprio debbo fare un nome, penso sempre che l’attrice Rachel Weisz sia forse quella più adatta per vestire i panni di Sisi in una produzione che rispetti la storia e le vicende della sovrana austriaca. Ho sempre intravisto nel suo volto i tratti dell’imperatrice Elisabetta sin dai tempi del film “Agora”. Un’altra attrice nella quale ho intravisto i tratti di Sisi è Henriette Confurius che ho avuto modo di apprezzare nel film “Narciso e Boccadoro” di Stefan Ruzowitzky.

:: Un’intervista con Emiliano Reali a cura di Giulietta Iannone

6 giugno 2024

In occasione dell’uscita del volume fotografico Pride (Scripta Maneant) intervistiamo uno degli autori dei quattro contributi scritti, Emiliano Reali, e segnaliamo che la Happy Productions ha acquistato i diritti cinematografici del suo romanzo di maggior successo “Bambi. Storia di una metamorfosi” e il Ministero della Cultura ha di recente stanziato un contributo economico per lo sviluppo del film, la cui regia verrà affidata a Mario Sesti.

Benvenuto Emiliano su Liberi di scrivere e grazie di aver accettato questa nuova intervista. E’ in uscita, nei primi giorni di giugno, il volume fotografico bilingue Pride (Scripta Maneant) di cui sei autore assieme a Silvia Ranfagni. Ce ne vuoi parlare?

E’ un progetto meraviglioso e sono stato molto felice quando mi hanno chiesto di parteciparvi. Pride è un volume fotografico che ripercorre momenti significativi e pregnanti del movimento LGBT+ e delle sue rivendicazioni dai moti di Stonewall a oggi.

Oltre alle foto ci sono anche quattro contribuiti scritti, di cui uno tuo dedicato alla tua mamma. E’ un contributo sofferto ma nello stesso tempo molto gioioso, allegro. Tua mamma era una mamma molto combattiva e tenera, quali sono i valori che ti ha trasmesso, quale è il più grande insegnamento che ti ha dato?

Lei mi ha amato, mi ha fatto sentire che quel bene lo meritavo a prescindere dalle mie imperfezioni o dagli errori che commettevo. Mi ha messo davanti a ogni altra cosa. E’ stato un esempio di ciò che davvero significhi amare.

Dignità, gioia, allegria, rispetto, amore, perché pensi che in un mondo ancora segnato da odio, divisioni, guerre, che sono i veri scandali che ci dovrebbero turbare e rattristare, ancora si giudichino i sentimenti, l’amore. Ognuno non dovrebbe essere libero di esprimere se stesso secondo la sua sensibilità?

E’ un momento storico molto difficile, si sta cercando di riportarci indietro, tentando di intaccare anche i diritti che sembravano ormai acquisiti. Siamo molto lontani da una società inclusiva e dobbiamo tenere la guardia alta rispetto ai rigurgiti fascisti che arrivano sempre più frequentemente.

Ho letto il pezzo dedicato a tua madre e mi ha colpito il fatto che morendo non ha pensato a se stessa ma a te, che avrebbe voluto lasciarti con qualcuno che ti amava e si sarebbe preso cura di te. Non pensi sia una delle forme più alte d’amore?

Accipicchia, non volendo, con la risposta precedente ho bruciato questa domanda! Comunque lei non è morta, è libera.

Parlami del libro, come avete raccolto le foto? Chi sono i fotografi che hanno contribuito? Di chi sono gli altri contributi scritti? Essendo bilingue è destinato anche al mercato estero?

Le immagini non hanno lingua, in più il fatto che le parti scritte del volume siano anche in inglese ne sottolinea la natura internazionale. Questo lo si evince anche dai firmatari dei vari contributi. Infatti oltre me e Silvia Ranfagni (autrice insieme a Giovanni Piperno del podcast “Corpi Liberi”) ci sono personalità incredibili. Shrouk El-Attar, attivista per i diritti dei rifugiati LGBTQIA+ nel Regno Unito, dove vive come rifugiata dal 2007, e per i diritti della comunità queer nel suo Paese natale, l’Egitto. Nel 2018 la BBC l’ha inserita tra le 100 donne più influenti del mondo. Sue Sanders, professore emerito dell’Harvey Milk Institute. Attivista per i diritti LGBTQIA+, co-presidente di “Schools Out” per l’uguaglianza delle persone LGBTQIA+ nel sistema scolastico. Il suo impegno concreto è stato riconosciuto con l’assegnazione di numerosi e prestigiosi premi. Non essendomi occupato della raccolta foto ho chiesto alla responsabile di redazione Asia Graziano di cui riporto le parole: “Per la raccolta immagini, vista la natura del volume, ci siamo affidati alla collaborazione con diversi archivi internazionali, per ottenere una documentazione il più variegata possibile, come AGF, Alamy e GettyImages. Più che per fotografi, ci siamo resi conto, per questo progetto editoriale specifico, di dover ricercare per territori: spesso infatti le fotografie dei Pride sono realizzate da giornalisti locali o da partecipanti alla parata stessa. In questo modo siamo riusciti a selezionare interessanti e autentiche testimonianze da ogni continente del mondo. Purtroppo, seppur preziosa, la collaborazione con le diverse associazioni e i circoli LGBTQIA+ nazionali e internazionali, non ha portato alla pubblicazione di materiale fotografico da loro direttamente fornito, perché non incontrava i criteri di alta risoluzione necessari ai fini di una stampa qualitativamente fruibile. I contatti con le associazioni, sono stati comunque vitali nella realizzazione del progetto, sia per l’individuazione delle figure internazionali di rilevanza cui affidare il racconto testuale dei Pride, che per l’attività di divulgazione e promozione del volume”.

Grazie Emiliano della disponibilità e in attesa di sfogliare questo libro, puoi parlarci dei tuoi progetti futuri?

Sono impegnato felicemente con un progetto che più che ‘futuro’ definirei ‘imminente’. Stiamo scrivendo la sceneggiatura per il film tratto dal mio “Bambi. Storia di una metamorfosi” ed è un’emozione che brilla come il cristallo, un progetto che si è fatto largo con forza e che oramai cammina spedito.

Vi raccolgo i brevi profili degli autori del libro:

Emiliano Reali
si occupa da sempre di diri civili e inclusione, autore di libri per ragazzi ulizza anche nelle scuole, ha dato vita alla prima trilogia transgender d’Italia “Bambi. Storia di una metamorfosi” (Avagliano). Dopo la vendita dei diri cinematografici e un finanziamento del Ministero della Cultura, è in lavorazione il film trao dal suddeo romanzo.
Reali ha collaborato alla realizzazione della serie “Refuge LGBT” (Lucky Red), del testo universitario “Manuale di studi LGBTQIA” (UTET) e scrive per Il Mattino, HuffPost , Il Riformista.

Silvia Ranfagni
assistente alla regia per Bernardo Bertolucci e Giuseppe Tornatore, sceneggiatrice per Carlo Verdone, Ferzan Ozpetek e Lamberto Bava, candidata al David di Donatello con “Il mio miglior nemico” (2006) e “La Dea Fortuna” (2020). Docente di Scriura Creava e Sceneggiatura presso la Rome University of Fine Arts (2017-2019). Con Giovanni Piperno, è autrice del Podcast “Corpi liberi”, che racconta la storia di Mark, Alex e Silvia: una persona trans, una non binaria e una madre spiazzata in cerca di risposte.

Shrouk El-Attar
attivista per i diritti dei rifugiati LGBTQIA+ nel Regno Unito, dove vive come rifugiata dal 2007, e per i diritti della comunità queer nel suo Paese natale, l’Egitto. Si esibisce nello speacolo “Dancing Queer” per raccogliere fondi per le spese di difesa legale delle persone LGBTQIA+ in Egitto.
Nel 2018 è stata inserita dalla BBC tra le 100 donne più influenti del mondo.

Sue Sanders
Professore emerito dell’Harvey Milk Instute.
Avista per i diri LGBTQIA+, co-presidente di “Schools Out” per l’uguaglianza delle persone LGBTQIA+ nel sistema scolasco. Il suo impegno concreto è stato riconosciuto con l’assegnazione di numerosi premi importanti, tra cui il Crown Prosecution Award for Equality and Diversity (2012). Nello stesso anno ha ricevuto un encomio dal Metropolitan Police Service per la sua avità nel MPS LGBT Advisory Group, che ha contribuito al miglioramento dei servizi di polizia per la comunità LGBTQIA+ inglese. Nel 2014 è stata candidata per il premio alla carriera nell’ambito dei Naonal Diversity Awards. Nel 2019 le è stato conferito il premio alla carriera dal Rainbow Honours Board e nel 2024 ha ricevuto il premio alla carriera dal Naonal Educaon Union.

:: Un’intervista con Patrizia Debicke a cura di Giulietta Iannone

14 Maggio 2024

Benvenuta Patrizia su Liberi di scrivere e grazie di cuore di aver accettato questa nuova intervista. Ho avuto il piacere di leggere il tuo nuovo romanzo Figlia di re – Un matrimonio per l’Italia e mi ha colpito che tu abbia voluto parlare del Risorgimento italiano da un punto di vista insolito. Dunque non un giallo o un thriller storico ma stavolta un vero e proprio romanzo storico. Ce ne vuoi parlare, quale è stato il punto di partenza da cui hai tratto ispirazione?

Dici bene niente giallo stavolta ma un romanzo storico. Anche se sappiamo tutti che la storia cela sempre i suoi misteri . Talvolta addirittura persino più intriganti e complessi di quelli che si possono inventare per una fiction che sia thriller gialla o noir. E quindi sì stavolta un romanzo storico, intanto con un personaggio femminile che risalta in primo piano ma anche e soprattutto scritto per ridimensionare certe pseudo iconografie esasperate in eccesso e in difetto, restituendo ai protagonisti idee e pensieri propri profondamente naturali e condivisibili. E i miei due protagonisti che volevo far conoscere e rivalutare erano il principe Napoleon Joseph, spesso dagli italiani schernito con l’infantile nomignolo di Plon Plon usato da sua sorella da bambini e sua moglie, Maria Clotilde di Savoia.

Il punto di partenza e fulcro di tutta la storia poi in realtà sarà legato a una cittadina Plombierès, un tempo celebre centro termale francese a i patti stipulati tra Napoleone III imperatore dei francese e il conte di Cavour durante il loro notturno convegno segreto di Plombierès durato otto ore. Patti che prevedevano un trattato che contemplava la perdita da parte dell’Austria della Lombardia e del Triveneto a favore del regno di Sardegna, che poteva annettersi anche i ducati di Parma, Modena e la parte più settentrionale dello Stato della Chiesa. In cambio la Francia avrebbe ottenuto la Savoia e Nizza. A sugello di detto trattato, Napoleone III chiese e ottenne anche la mano della primogenita di re Vittorio Emanuele II, Maria Clotilde di Savoia, per suo cugino e ardente italianofilo Napoleon Joseph, figlio di Jerome Bonaparte e di Catherine del Wurttemberg.
A Plombières non fu sottoscritto alcun documento ufficiale, ma sei mesi dopo venne firmato il trattato di alleanza tra Francia e regno di Sardegna in caso di guerra dell’Austria contro il Piemonte con l’ impegno dell’intervento di un esercito francese di duecentomila uomini.

Un matrimonio combinato il loro, come era la prassi per quasi tutti i matrimoni principeschi di allora e che sanciva un’alleanza tra due stati.
Nessuno nega che Maria Clotilde avesse meno di sedici anni e Napoleon Joseph trentasette, e cioè ventuno di più, ma lei chiese tempo e poi accettò liberamente di sposarsi. Aveva il suo carattere e le sue idee, ma parlava correntemente quattro lingue e sapeva muoversi a corte.
Napoleon non era un uomo facile, ma la stimava e, fiero di aver sposato la figlia di un re, dimostrò di esserle affezionato. Lui ateo, tollerò le sue abitudini religiose, le mise a disposizione una cappella a Palais Royal e la sostenne generosamente nella beneficenza. Mantenne l’amante in carica, in seguito la sostituì con un’altra, ma diversamente dall’imperatore più volubile, era solito averne una sola per volta. E Maria Clotilde, da brava figlia di suo padre, non ignorava certe debolezza maschili.
Comunque per suo piacere o dispiacere la giovanissima Clotilde si innamorò del marito. I suoi scritti, quelli di altri e le testimonianze soprattutto francesi dell’epoca lo confermano.

Il romanzo ci narra la storia franco-italiana che va dal luglio del 1858 al gennaio del 1861. Anni cruciali per la storia italiana. Come hai approfondito la ricerca storica? Hai potuto visionare documenti d’epoca? Ti servirà come scenario questa volta di un vero e proprio giallo o thriller storico?

Molto è già stato scritto, molto è facilmente reperibile negli archivi francesi legati a quel periodo, ho potuto disporre di documenti e ricostruzioni precise. Per la corrispondenza mi sono principalmente rifatta al carteggio privato tra Napoleone III e il cugino, quasi tutto in inglese e tra Nigra, Cavour e il principe Napoleon. E a parte di quello di Maria Clotilde con i fratelli. Tanti telegrammi poi, tanta roba da inserire e rendere parte del romanzo. Sono anni cruciali che hanno visto i Savoia, con la neutrale compiacenza della Francia e l’appoggio diretto o indiretto di Inghilterra e Prussia a creare il Regno di Italia a spese degli Austriaci, dei principati padani, dello Stato della Chiesa e infine, con il fattivo apporto di Garibaldi conquistare anche il Regno borbonico delle Due Sicilie.
Quindi tanto ottimo materiale a disposizione, anche se per ora non ho previsto un romanzo giallo storico ambientato nel XIX secolo ma… mai dire mai.

La figura della principessa Maria Clotilde di Savoia non è spesso valorizzata, più che una mera pedina di Cavour è stata una donna con una forte personalità, dal forte carattere che ha anche imposto il suo punto di vista. Ce ne vuoi parlare, come hai costruito il suo personaggio?

Raccontando quanto di lei hanno scritto i francesi che l’ammiravano. Tengo a ricordare che Maria Clotilde principessa Napoleon fu l’ultima persona della famiglia imperiale a lasciare Parigi dopo la sconfitta della Francia a Sedan. Seppe mantenere il suo ruolo in ogni circostanza, aveva ricevuto un’educazione adatta a una principessa di sangue reale ed era sempre pronta ad adattarsi, senza fare storie, a ogni situazione. Lo spirito avventuroso che faceva di lei un’eccellente cavallerizza le aveva regalato competitività ma anche duttilità. Apprezzò il lungo viaggio in America (il loro panfilo attraccò a New York mentre era in corso la Guerra Civile) – ampiamente descritto nel diario di bordo del figlio di George Sand – e rintracciabile sui quotidiani locali dell’epoca – dove fu ripetutamente fotografata e osannata dagli italiani emigrati.
Era curiosa, le piaceva divertirsi, ballare, era insomma una ragazza normale con desideri normali: quali una famiglia e dei figli, non la maniacale bigotta costruita dall’iconografia cattolica. Non lo divenne neppure in tarda età quando si dedicò alle opere pie con ammirevole senso di devozione.

Seppe interpretare bene la sua parte senza strafare, ma facendosi apprezzare dai francesi. E il suo matrimonio portò suo marito Napoleon Joseph, il liberale detto il Bonaparte Rosso, sempre sensibile alla causa italiana e amico di tanti patrioti, a farsene paladino anche a costo di mettersi contro il cugino imperatore e a offrire costante e pubblico sostegno alla conquista dell’Italia da parte dei Savoia.

Un punto di vista femminile dunque sul Risorgimento, quanto hanno influito le donne su questo movimento?

La leggenda storica attribuisce anche alla seduzione delle bella Contessa di Castiglione “più che una buona parola” con Napoleone III per la causa italiana . Ma sicuramente altre donne più lei. Salotti di sostegno alla causa infatti furono tenuti da Bianca Milesi, Metilde Viscontini Dembowski, Teresa Casati e da Cristina Trivulzio di Belgiojoso. Tra di loro primeggia Cristina di Belgioso. Figlia di una antica famiglia lombarda, fu grande sostenitrice di Mazzini, patriota, giornalista e scrittrice e, partecipando attivamente al Risorgimento, affrontò, senza mai tirarsi indietro, l’esilio e le privazioni. E come dimenticare Ana Maria de Jesus Ribeiro, Anita la guerriera moglie brasiliana di Garibaldi, morta in Romagna nel 1849 e Rose Montmasson, l’unica donna che partecipò per intero all’impresa dei Mille: persona libera, ferma nei suoi ideali, moglie di Crispi, capace di sopportare scelte dolorose, persone che dettero tutte se stesse per L’Unità d’Italia

Stessa cosa per il personaggio di Napoleon Joseph, sì amava le donne, ma era meno vanesio e farfallone di come era descritto nelle cronache locali, anzi era un instacabile lavoratore e amico dei patrioti italiani di cui ha sostenuto con passione la causa, oltre ad appoggiare le numerose opere di beneficienza della moglie. Come hai costruito il suo personaggio? E quanto Maria Clotilde ha influenzato in positivo il suo carattere?

Bellissimo personaggio Napoleon Joseph, umiliato purtroppo dalla storia in Italia e persino in Francia dove l’hanno maltrattato per tanti anni fino alle biografie più recenti in cui vengono messe in risalto la sua repubblicana fierezza, la sua cultura enciclopedica, l’intelligenza, l’acutezza mentale e la lungimiranza. Uomo di carattere, illuminato, di grandi idee sovente inascoltate ha saputo mantenere per il cugino importanti rapporti personali con gli altri stati. I suoi risultati e i suoi successi diplomatici sono stati attribuiti troppo spesso ad altri che non li meritavano. Les Archives nationales francesi contengono la maggior parte del suo archivio personale e di tutta la sua corrispondenza che è consultabile, anche se purtroppo qualcosa manca. Una preziosa raccolta che narra storicamente tutta un’epoca.
Positiva influenza di sua moglie? Maria Clotilde , soprattutto nei primi anni di matrimonio ha sempre giuocato per lui un ruolo di incondizionato appoggio, di costante presenza domestica e di rappresentanza, suscitando tenerezza, rispetto e regalandogli la soddisfazione di essere padre di tre figli.

Progetti di traduzione per l’estero?

Incrocio le dita

Infine, ringraziandoti della disponibilità, l’ultima domanda. Stai lavorando a un nuovo romanzo storico? Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Un nuovo romanzo? Qualcosa avrei in mente ma dovrei prima accordare le mie scelte con le richieste degli editori. Progetti? Mah? Intanto continuare a leggere , leggere e scrivere fino a quando avrò altre nuove idee.

:: Un’intervista con Marina Sorina, scrittrice, traduttrice e attivista a cura di Giulietta Iannone

2 Maggio 2024

Marina Sorina è nata a Kharkiv in Ucraina e dal 1995 vive in Italia, a Verona. Autrice di due libri di narrativa, lavora come guida turistica e si occupa di traduzioni letterarie dall’ucraino e di attività di volontariato. Attualmente è impegnata nella campagna elettorale con la lista “Stati Uniti d’Europa”.

Benvenuta Marina su Liberi di scrivere e grazie di avere accettato questa intervista. Sei nata a Kharkiv in Ucraina ma da molti anni vivi a Verona. Sei una traduttrice e una scrittrice, hai pubblicato articoli e racconti per riviste letterarie, ti occupi di libri e di cultura.

    Inizierei con il chiederti di parlarci di te, dei tuoi studi, del tuo amore per i libri.

    Grazie per l’invito!

    Sono cresciuta in una famiglia dove il libro era il valore più grande, come d’altronde è tipico per le famiglie ebraiche in Ucraina. Tutti attorno a me leggevano, a volte anche durante la cena, mentre mangiavamo. Entrambe le mie nonne erano insegnanti di lingua, e mia madre traduceva: per cui era logico che anche io mi interessassi di letteratura fin da piccola. Negli ultimi anni di scuola ho anche frequentato un circolo letterario per ragazzi, che mi ha aiutato ad affinare le mie abilità di scrittura e analisi e a trovare amici. Ho studiato tre anni all’Università magistrale di Kharkiv, ma poi ho deciso di emigrare. Questa decisone ha provocato qualche anno di pausa negli studi, perché dovevo imparare la nuova lingua. Quando ho rafforzato abbastanza la mia padronanza dell’italiano, mi sono iscritta all’Università di Verona, dove ho conseguito la laurea quinquennale, e poi il dottorato di ricerca.

    La creatività invece non si è fermata: dopo l’emigrazione avevo continuato a scrivere racconti in russo. In quel periodo la scrittura mi aiutava ad elaborare la nuova realtà in cui mi sono trovata. Una decina di anni dopo, sono passata all’italiano e nel 2006 ho pubblicato il mio primo romanzo, mentre lavoravo alla mia tesi di dottorato. C’è stata poi una lunga pausa in cui accumulavo racconti, editi e inediti, che sono confluiti nell’ultima raccolta, “Storie dal pianeta Veronetta”, uscita nel 2018.

    La letteratura, i libri sono canali privilegiati, veicoli solidali di pace che difendono l’identità di un popolo, la sua essenza, il suo spirito.

      In che misura la poesia, e la letteratura sta consentendo al tuo popolo di resistere dopo questi due anni di guerra dopo l’invasione russa?

      Dovrei precisare che la guerra in realtà è iniziata nel 2014, anche se nel 2022 abbiamo visto l’invasione su ampia scala e l’avanzamento massiccio dell’esercito russo sul territorio ucraino. In questa situazione disastrosa, vissuta in prima persona dai nostri parenti e amici in Ucraina, la letteratura, in fattispecie la poesia, sono diventati una sorta di valvola di sfogo per le emozioni ed esperienze violente che la gente si è trovata ad affrontare.

      Al novero dei poeti si sono aggiunte tante persone che scrivevano prosa, o che non hanno mai scritto nulla in vita loro: essere catapultati in questa nuova realtà ha dato una spinta alla loro creatività. Numerose voci, famose e meno famose, si sono intrecciate nel narrare quanto accaduto. Grazie ai social, un poeta che si trova in trincea o in un centro profughi può pubblicare ed essere immediatamente letto da migliaia di lettori, senza il tramite di carta stampata. Questa poesia istantanea aiuta ad elaborare il lutto, testimoniare lo stato d’animo attuale e conservare questa impronta della realtà per i posteri.

      Poi, col passar dei mesi, arrivano anche le antologie collettive e i volumi di singoli autori, tanto più preziosi quanto fragile è la vita di ciascuno di loro. Infatti, la lista delle personalità del mondo d’arte e della letteratura uccisi è molto lunga, ed include nomi luminosi, che avrebbero potuto brillare per lunghi anni, grazie al loro talento, ma sono stati spenti dalla crudeltà dell’esercito russo. Per citarne solo due, Viktoria Amelina e Maksym Kryvtsov: quando traducevo le loro poesie, pensavo di avere tutta una vita d’avanti per proporre a loro un giorno di pubblicare in Italia una raccolta. Invece Viktoria è stata uccisa dalla scheggia di un missile russo a Kramatorsk, a fine giugno 2023, e Maksym invece è stato ucciso sul fronte il 7 gennaio 2024, il giorno dopo l’uscita della sua prima raccolta di poesie. Loro non ci sono più, ed è un vuoto difficile da colmare. Però le loro parole vivono ancora sulle pagine dei libri.

      Come organizzi il tuo lavoro di traduttrice? Programmi una scaletta, dividi il testo rientrando immagino entro una data di consegna concordata?

        No, nel mio caso purtroppo funziona al contrario: trovo un testo che mi ispira, mi metto in contatto con l’autore, e se è d’accordo, comincio a tradurre, dopo di che cerchiamo l’editore adatto. Ho realizzato così due libri, ho qualche progetto pronto “in cassetto”, uno “in cantiere” e mi affido soprattutto al FB per pubblicare e far sentire la mia voce.

        In parallelo, altre traduttrici stanno lavorando alla grande per riempire lo “scaffale ucraino”, troppo a lungo schiacciato dalla presenza ingombrante della letteratura russa. In Italia, i classici ucraini non venivano tradotti se non in rare edizioni limitate, e ora invece abbiamo ben due traduzioni di “Il canto della foresta” di Lesia Ukrainka, per non parlare di numerosi libri di letteratura contemporanea.

        Hai tradotto un libro di poesie dal titolo Lettere non spedite di Oksana Stomina. Ce ne vuoi parlare?

          Anche se le poesie sono state scritte in Ucraina, il libro come progetto editoriale è nato in Italia. A novembre del 2022 Oksana Stomina, insieme a Iya Kyva e Natalia Belchenko era venuta in Italia per un tour poetico, grazie a Pina Piccolo, poeta e traduttrice. Durante il reading a Verona c’è stato un felice incontro fra la poetessa e Andrea Garbin, curatore della collana Le zanzare, pubblicata dalla casa editrice Ghilgamesh. Garbin stava giusto cercando un nuovo autore per continuare la serie dei volumi, dedicati alla poesia impegnata scritta dai poeti che partecipano in prima persona alla vita sociale del proprio paese. Oksana Stomina era la candidata perfetta. Oriunda di Mariupol, aveva una lunga carriera poetica alle spalle, ma con l’invasione nella primavera del 2022 ha perso tutto: casa, amici, marito, rimasto a difendere l’acciaieria Azovstal e poi preso prigioniero dai russi. Costretta alla fuga, Oksana ha dovuto rifugiarsi a Kyiv, e tutta questa esperienza è confluita su due binari: un diario in prosa, che sto traducendo attualmente, e le liriche, in cui esprimeva dei sentimenti contrastanti: dolore e speranza, sdegno e amore, attaccamento alla città natia e disorientamento provocato dalla necessità di andarsene.

          Le sue poesie sono liriche, ma insieme molto concrete. Descrivono la situazione del momento, con dei particolari facilmente decifrabili. Ad esempio, descrive le sensazioni di chi esce la mattina presto dal rifugio sotto terra e vede un enorme buco nel palazzo fino a ieri intero. Oppure, condivide con noi la visione della città amatissima avvolta dal fumo nero. Grazie al talento di Stomina, queste liriche assumono un valore universale, in cui può riconoscersi anche chi ha semplicemente vissuto il distacco dai luoghi d’infanzia o dalle persone care.

          E poi c’è il tema di amore che vince ogni ostacolo, o almeno ci prova. Piacciono molto alle lettrici, anche alle più giovani. Infatti, abbiamo potuto testare le diverse poesie di “Lettere non spedite” durante i nostri due tour promozionali, il primo nell’autunno del 2023 e il secondo nella primavera del 2024, per un totale di 29 incontri. Siamo state ospiti nelle zone geografiche distanti, e negli ambienti diversi. Ambasciate, biblioteche, associazioni ucraine, circoli letterari: in ogni ambito i lettori erano colpiti dalla testimonianza di Oksana e dalla forza del suo spirito.

          Hai anche tradotto un testo in prosa Le mie donne di Yulia Iliukha. In che misura le donne stanno portando avanti la loro resistenza spirituale e culturale?

            Infatti, anche il secondo libro che ho tradotto dall’ucraino ha questa particolarità: è scritto da una donna in apparenza fragile ma molto forte di carattere. Yulia Iliucha è di Kharkiv, e come Stomina aveva già una certa carriera letteraria alle spalle: scriveva narrativa young adult, romanzi, racconti e qualche poesia. Quando la guerra si è abbattuta sulla sua città, e il marito si è arruolato, lei ha scritto una serie di brevi testi in prosa, ma ad alto grado di poesia. Sono come un concentrato di un potenziale racconto lungo, che potrebbe essere allungato e dettagliato, diventando anche un romanzo. Ma non c’è tempo per narrazioni estese: in primavera del 2022 Yulia doveva badare al figlio e alla propria sopravvivenza.

            Eppure il dovere di scrivere e di descrivere il proprio vissuto e le storie che le raccontavano altre donne ucraine era troppo forte. Con l’aiuto dei social, ha potuto diffondere questi brevi testi che nascevano e venivano condivisi, giorno dopo giorno, a puntate, finché non sono diventati un libro completo.

            Anche “Le mie donne” di Yulia Iliukha, edito da Mezzelane Ed., esce in Italia prima che in Ucraina, ma, a differenza dal libro di Oksana, non ha il testo ucraino a fronte. In compenso, è riccamente illustrato da immagini in rosso e nero di Iryna Sazhinska.

            A prescindere da un discorso puramente politico e ideologico il popolo ucraino e quello russo hanno radici strettamente intrecciate. E’ raro che in una famiglia non ci siano rami sia ucraini che russi. Mariti ucraini e mogli russe e vice versa.

              Infatti, dal punto di vista storico il rapporto fra i due popoli è quello di colonizzatore più giovane, quello russo, che colonizza e soggioga la nazione più antica, quella ucraina, rallentandone lo sviluppo per secoli. Non è preciso dire che tutte le famiglie sono miste: lo dimostrano le statistiche. Nemmeno nei tempi sovietici gli ucraini erano comunque in maggioranza sul territorio dell’ucraina, affiancati da minoranze più numerose (come russi, moldavi, armeni, ebrei), o quelle meno numerose (coreani, greci, italiani). Ciò non toglie la presenza di famiglie miste, ma qui bisogno fare un distinguo: sono tutti cittadini ucraini, anche se l’appartenenza etnica può variare.

              Le faccio un piccolo esempio recente. Questa settimana ho conosciuto una ragazza, con la quale abbiamo parlato in ucraino. Lei è cittadina ucraina, di origine coreana, nata però in Kyrgyzstan. Come mai ha questa identità complessa? I suoi erano i coreani d’Ucraina, deportati in Kyrgyzstan nei tempi di Stalin (destino comune di tanti popoli), e poi tornati alla terra d’origine – che è in questo caso l’Ucraina. Poi lei si è sposata con un ragazzo ucraino, e in casa non parlano russo, anche se lo conoscono.

              La guerra ha anche spezzato legami d’amore e di affetto, oltre che spazzato via intere generazioni di giovani ucraini che credevano nella libertà, nel coraggio, nella giustizia e nell’amore. Come pensi, finita la guerra, si possano ricucire queste ferite? O pensi che la frattura sia ormai insanabile?

                Per quanto riguarda i legami d’affetto spezzati, va detto prima di tutto che queste situazioni di rottura riguardano le persone a prescindere dalla loro origine: quel che conta è essere di qua o di la delle barricate. Uno può esser etnicamente ucraino ma vivere in Russia ed essere a favore della dittatura russa, e vice versa. Conosco ad esempio una famiglia russa che si è trasferita qualche anno fa in Ucraina. Erano disgustati dalla velenosa atmosfera che regnava nel loro paese d’origine. Quando si sono trasferiti, hanno imparato l’ucraino, e i figli maggiori si sono arruolati, mentre la mamma, sarta, confeziona le barelle e i vestiti comodi per i soldati. Con tutto questo, in tasca hanno il passaporto russo: durante la guerra è difficilissimo cambiare cittadinanza. Quindi, è un conflitto di civiltà, non di etnie.

                E le spaccature succedono a prescindere dalla geografica. Per gli ucraini chi avevano parenti in russia, nella maggior parte dei casi, il rapporto è irrimediabilmente guasto, ma lo stesso può capitare anche all’interno della stessa famiglia che vive in Ucraina, se ci sono divergenze ideologiche e generazionali.

                Certo, c’erano molti legami personali, culturali, economici. Tanto più amaro è il risveglio che ci mostra che non eravamo per niente amici: si trattava di rapporto di prevaricazione e non di parità. Sono tradimenti impossibili da dimenticare. Potresti mai perdonare chi uccide ciò che per te è più caro, e lo fa con intenzionale efferatezza, scegliendo proprio gli obiettivi più sensibili, che lasciano tracce più dolorose. Certo che no! In Italia ci si offende per molto meno. Ma il paragone più preciso è quello con un rapporto abusivo. Dopo anni di soprusi da parte di un partner violento riesci a liberarti, lui ti rincorre per punirti per la tentata fuga. Che faresti? Perdoneresti al tuo aguzzino sia gli anni di sofferenza che la violenta rappresaglia, per tornare all’ovile? Non credo proprio!

                Uno dei racconti di Yulia Iliukha è dedicato proprio al dialogo ormai impossibile con dei parenti russi; e anche nel “Diario di una sopravvissuta” Stomina dedica attenzione alle conversazioni con gli ex-compagni di studi che vivono in Russia. Parlando con loro al telefono e raccontando loro l’evidenza della distruzione causata dai russi, la scrittrice ha riscontrato totale indifferenza. Lo stesso è capitato a moltissimi ucraini. Invece di dare retta alla voce di un amico ucraino che racconta il proprio vissuto, i russi scelgono la voce avvelenata della propaganda, che glorifica la Russia e celebra i crimini di guerra come se fossero prodezze. I figli dei nostri amici di una volta vengono sul suolo ucraino per ucciderci. Non è “Putin” a schiacciare il bottone di lancio dei missili, e dietro ogni militare c’è non solo la sua famiglie, o i suoi amici e parenti che approvano e lo incitano ad uccidere ancora: ci sono tutti i cittadini russi, a prescindere dall’origine etnica, che si sono trovati bene nelle caselle della società dittatoriale, e sono ora solidali e motivati a continuare finché non distruggeranno i vicini “ribelli”, che hanno osato costruirsi una vita indipendente invece di vivere nella cieca obbedienza per loro abituale.

                Tornando alla letteratura ucraina, quali sono gli autori contemporanei più interessanti che consiglieresti di leggere ai nostri lettori, e quelli che ti piacerebbe tradurre in italiano?

                  Certamente consiglio Serhii Zhadan, tradotto ormai da tanti anni da Lorenzo Pompeo e presentato qualche anno fa al Salone del Libro di Torino. La più acclamata scrittrice ucraina contemporanea è invece Oksana Zabuzhko, autrice sia di romanzi che di saggi, seguita da Andrii Kurkov, che, tra l’altro, aveva cominciato la sua carriere letteraria scrivendo in russo, ma che negli anni scorsi, ormai in età matura, è passato a scrivere in ucraino. Tutti e tre sono presenti nell’editoria italiana da tempo.

                  Fra le novità c’è da prendere nota dei nomi ancora non molto noti. Nell’ambito della saggistica, “Il Donbas è ucraina” di Katerina Zarembo, per la poesia, oltre alla già citata, Oksana Stomina, Iya Kyva, poetessa oriunda del Donetsk, anche lei profuga da quasi un decennio.

                  Aggiungerei anche un saggista di origine russa, Arkadii Babchenko, che è proprio un esempio di come si possa rinunciare alla carriera a Mosca e rinunciare per spostarsi a vivere a Kyiv, ponendosi completamente dalla parte degli ucraini e osservando la realtà di guerra con uno sguardo esperto e disincantato. Per chi invece vuole fare un tuffo nel passato, ecco fresca di stampa “Il canto della foresta” di Lesia Ukrainka, tradotto da Yaryna Grusha per Mondadori.

                  Parlando dei miei desideri per il futuro, mi piacerebbe tradurre ogni libro che permette agli italiani di capire meglio la mentalità ucraina, colmando le lacune riguardo al passato, e soprattutto condividere con i lettori italiani la diaristica di questi primi due anni di guerra. Come esempio posso citare due libri che ho sulla mia scrivania: il saggio “La lingua è una spada: linguaggio dell’impero sovietico”, un saggio divulgativo che analizza dal punto di vista post-coloniale le strategie comunicative sovietiche, che sono in sostanze molto simili a quelle di altre dittature, oppure il libro- diario di Anna Hin, una scrittrice di Kharkiv che ha osservato, giorno dopo giorno, la vita della città nel primo anno di invasione. Le sue brevi impressioni soggettive, sempre molto umane ed acute sono inframmezzate con le statistiche, brani di discorsi ufficiali, cronache dei crimini di guerra. Insieme, compongono un quadro storico e nello stesso tempo molto individuale.

                  Quale è il tuo ultimo libro di autore ucraino che hai letto?

                    Stranamente, l’ultimo libro ucraino che ho letto è una storia per bambini, che racconta le avventure di un baby-Coala strappato dal bosco di eucalipto dove abitava e portato in giro in uno zoo. Una storia semplice e toccante, con forte messaggio ecologista e umanitario, per la quale mi piacerebbe trovare l’editore.

                    Puoi dirci a cosa stai lavorando in questo momento?

                      Quando saranno finite le elezioni europee, alle quali sono candidata, tornerò a tradurre il diario dei primi giorni di invasione, scritto da Oksana Stomina. Non è un lavoro semplice: i fatti che racconta sono difficili da accettare. Due anni fa, più o meno, i difensori della città asserragliati nella ferriera hanno dovuto arrendersi, seguendo ordini dei loro superiori. Oksana narra la vita, o meglio – la distruzione – della città di Mariupol nelle settimane precedenti, quando era ancora possibile agire, fare volontariato, spostarsi.

                      Grazie per il tuo tempo e la tua disponibilità, e auguri per il futuro.

                      Grazie a te e ai nostri lettori! Ci vediamo al Salone del libro di Torino la domenica del 12 maggio, per presentare “Le mie donne”.

                      Scopriamo “Blue Sky e il risveglio della Magia Pura” con gli autori

                      28 aprile 2024

                      Metello è buono, buffo e anche un po’ impacciato, ma tanto timido. Per tutte queste ragioni il bulletto Marcus non esita prenderlo come bersaglio di scherzi. Stanco di soliti attacchi, Metello va al parco dove sta bene e in pace, ma lì accadrà qualcosa che lo cambierà per sempre. A raccontarci come è nato “Blue Sky e il risveglio della Magia Pura” (Dialoghi) ci hanno pensato Joe e Grace Commoner.

                      Come è nata la storia di Blue Sky e il risveglio della Magia Pura È nata quasi per caso: dopo l’uscita del primo libro nel lontano 2005 (“Blue Sky e l’ingannevole Mondo dell’Apparenza”), Joe aveva tanti appunti per la trama di un possibile sequel, ma per mancanza di tempo aveva abbandonato l’idea. Dopo molti anni, Joe ha incontrato Grace e, mentre parlava con lei del sequel che avrebbe voluto realizzare, ha risposto: “E che ci vuole? Ti aiuto io!”. Da lì è nata la storia.

                      Quali sono i modelli o le fonti che vi hanno ispirato? Principalmente ci siamo lasciati ispirare da “Le cronache di Narnia” per le creature parlanti e per la giovane età dei protagonisti e dallo stile bizzarro e stravagante di “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie”.

                      Il protagonista si chiama Metello come il protagonista del romanzo di Vasco Pratolini, è un caso o scelta voluta? È un caso. Mentre Joe scriveva il primo libro, cercava un nome per un personaggio buffo e impacciato, che poi sarebbe diventato Metello, e parlandone in famiglia la moglie raccontò che da ragazza a scuola aveva un compagno di classe con quel nome e che veniva spesso preso in giro per la sua goffaggine. Viste le somiglianze con l’idea del personaggio principale ha deciso quindi di dargli il suo nome.

                      Il protagonista è vittima di bullismo, come mai la scelta di un tema così delicato e attuale? Tutti i personaggi che entrano nel Mondo dell’Apparenza imparano a superare le loro insicurezze e scoprono come guardare il mondo reale con occhi diversi, affrontando ogni giorno le loro sfide personali con resilienza. Per questo libro abbiamo scelto il bullismo perché è un tema sempre molto attuale nelle scuole e abbiamo pensato che sarebbe stato bello poter aiutare i bambini e i ragazzi a comprendere come affrontarlo con consapevolezza; pensiamo che potrebbe essere una buona idea far leggere il nostro libro nelle scuole e poi usarlo come punto di partenza per condividere le nostre esperienze personali con i ragazzi e farli sentire meno soli.

                      Cosa rappresenta per Metello il parco dove si rifugia? Il parco è un luogo familiare a tutti noi: ci ricorda la nostra infanzia e sicuramente a molti di noi vengono in mente tanti momenti di divertimento passati insieme ai nostri amici e alla nostra famiglia. Anche per Metello il parco ha un significato molto forte però in quel capitolo della storia ha più la funzione di rifugio sicuro, un’oasi conosciuta solo a lui dove può scaricare la tensione accumulata a scuola e schiarirsi le idee.

                      Apparenza è il mondo dove, magicamente, finisce Metello e qui gli sarà dato un grande compito. Il suo percorso può essere visto come quello classico vissuto dall’eroe? Possiamo dire che l’avventura di Metello rientra nell’idea classica del “viaggio dell’eroe”, però in essa c’è anche un secondo significato: quello nel Mondo dell’Apparenza, oltre a un viaggio fisico, è soprattutto un viaggio alla ricerca di se stessi, nel quale impariamo a conoscere e comprendere le nostre emozioni.

                      È possibile vedere in questo romanzo fantasy anche un romanzo di formazione? Certamente. Il romanzo ha una “forma mentis” di tipo logico-matematico; infatti, cerchiamo di insegnare ai lettori una metodologia generale con cui affrontare tutti gli ostacoli della vita (e il bullismo in particolare). Sarebbe bello se i ragazzi potessero metterla in pratica e affrontare con maggiore consapevolezza tutto ciò che sta loro attorno.

                      Ci saranno nuove avventure per Metello? L’idea alla base della “serie nel Mondo dell’Apparenza” è che ogni libro fosse una storia a se stante con un protagonista diverso ogni volta. Questo significa che magari per Metello non ci saranno nuove avventure, ma certamente ce ne saranno per altri personaggi: nel primo libro la protagonista è stata Miriam, nel secondo Metello, nel terzo chi lo sa?

                      In realtà questo libro ha anche uno scopo solidale, ci racconti quale è? Volevamo scrivere una storia che aiutasse i ragazzi a far crescere la fiducia in loro stessi, ma anche scrivere un libro che allo stesso tempo aiutasse i ragazzi meno fortunati della Tanzania, dove Joe ha trascorso due brevi, ma intense esperienze, che hanno segnato in modo indelebile la sua vita.

                      :: Un’intervista con il Prof. Angelo d’Orsi sulla crisi ucraina alla luce dell’attacco terroristico al Crocus City Hall di Krasnogorsk, vicino a Mosca, a cura di Giulietta Iannone

                      16 aprile 2024

                      Bentornato professore e grazie di averci concesso questa nuova intervista che verterà essenzialmente sul decomporsi della crisi ucraina e dell’inserimento del filone islamico dopo l’attentato terroristico avvenuto il 22 marzo scorso vicino a Mosca. Mi ricollego alla precedente intervista che ci concesse nel febbraio del 2022 quando fu subito chiaro, almeno a noi, che sarebbe stata una guerra lunga, destabilizzante e dolorosa, soprattutto per la popolazione, nel cuore slavo dell’Europa. Siamo infatti al secondo anno di guerra e non si intravedono spiragli di pace, anzi tutto sembra tendere, contro il volere dei cittadini europei, ricordiamoci che mancano pochi mesi alle elezioni di giugno e questo potrebbe avere un peso, a un allargamento del conflitto e a una pericolosa escalation. Dunque sanzioni, minacce, aiuti economici e militari all’Ucraina, provocazioni, ora c’è un accordo sull’uso dei profitti degli asset russi per riarmare Kiev, non sono serviti a niente, insomma l’Occidente le ha provate tutte ma Putin è ancora saldo al potere, da pochi giorni rieletto con elezioni quasi plebiscitarie, e si può dire anche che in Ucraina stia militarmente vincendo. Invece di concordare una pace, o perlomeno un cessate il fuoco, assistiamo a un repentino rilancio con una paventata estensione del conflitto ai paesi NATO. Teniamo anche conto che due nuovi paesi Finlandia e Svezia fanno ora parte della NATO. Negli ultimi tempi questa estensione del conflitto con toni perentori sembrava imminente. Secondo lei è solo propaganda o si arriverà davvero a uno scontro armato tra NATO e Russia?

                      La guerra sta rivelando, a chi non abbia occhi foderati di ideologia, che la Russia – a prescindere dallo status politico che nel corso dei secoli ha avuto, dagli zar al bolscevismo, dallo stalinismo al gorbaciovismo, fino alla destabilizzazione post 1991- ha tali riserve territoriali umane ed economiche che, al di là di singoli episodi di sconfitta, è in sostanza imbattibile. La tenuta dell’economia russa a dispetto delle sanzioni, il consenso di massa al presidente della Federazione, la presa crescente che essa ha esercitato su un amplissimo schieramento di Stati, e la costruzione di un duopolio con la Repubblica Popolare Cinese, in funzione chiaramente anti-USA, sono altrettante prove. La prova regina è che le forze armate russe, dopo le incertezze e gli errori dei primi mesi di combattimento, hanno sbaragliato non solo quelle ucraine ma indirettamente anche quelle dei vari Paesi NATO che si sono impegnati in vario modo a sostegno dell’esercito ucraino. E va sottolineato come diversi di quei Paesi non hanno rinunciato a collaborare in modo determinante ad azioni di tipo terroristico, contro il territorio, le strutture, e la popolazione della Federazione. L’attentato a Mosca sebbene non ancora decifrato completamente è un episodio che è legittimo sospettare (sulla base di una molteplicità di indizi) giunga non dalla fantomatica ISIS oggi praticamente sparita, ma piuttosto dai servizi segreti ucraini in stretta collaborazione con quelli esterni probabilmente britannici polacchi e tedeschi.

                      Il conflitto in Ucraina ha rivelato anche che Putin, come che lo si voglia giudicare, sta portando avanti, coerentemente, tra alti e bassi, una linea politico-militare che ha distrutto l’economia ucraina, insieme con le sue infrastrutture (specie energetiche), ha ridimensionato la sua potenza militare, e ha messo a nudo i limiti della sua “democrazia” e la debolezza del suo sistema economico. Da politico accorto, anche con errori e incertezze, Putin ha dichiarato fin dal 22 febbraio 2022 che la Federazione Russa non intendeva entrare in guerra contro la NATO, e ancora recentemente ha sottolineato l’enorme sproporzione di mezzi, e di armamenti, ma, ha ricordato non in termini bluffistici come osservatori superficiali e corrivi alle direttive dei poteri dominanti, che nei magazzini del suo Paese esiste una formidabile riserva di testate nucleari, la maggiore del mondo. Un avvertimento di cui va tenuto conto, perché, a mio parere, le gerarchie politiche e militari russe useranno il loro arsenale, sia pure in modo forse limitato, ma comunque devastante, in caso di attacco da parte della NATO.

                      Sembra che solo la Cina continui la sua missione diplomatica alla ricerca di una soluzione politica della crisi ucraina. Lo scorso 7 marzo il Rappresentante Speciale del Governo Cinese per gli Affari Eurasiatici, Li Hui, è giunto in tutta fretta a Kiev per un giro di incontri anche in altri paesi europei (esclusa l’Italia). Pensa che i loro sforzi aiuteranno al raggiungimento di un accordo nel breve termine? Cosa lo impedisce? Come valuta questa vocazione tesa al mantenimento della pace della Repubblica Popolare Cinese?

                      La Repubblica Popolare Cinese, è indubbio, sta dimostrando una vocazione e una costanza nella ricerca di una soluzione diplomatica della crisi, ma negli ambienti occidentali, e nella stessa Ucraina, la Cina viene vista come un sostanziale alleato dalla Federazione Russa. E in una certa misura lo è, perchè l’accordo tra Pechino e Mosca sulla necessità dell’abbandono della organizzazione del pianeta fondata sull’unipolarismo, sul predominio del dollaro, sulla pretesa “superiorità morale“ dell’Occidente. E si tenga conto che tutta la leadership politica occidentale spinge verso la „vittoria“, e tanto più impossibile, impraticabile francamente delirante, è questo obiettivo, tanto più la grande maggioranza di questa leadership insiste sulla necessità della sconfitta della Russia. Una vera e propria follia, che si spiega con la totale sudditanza occidentale agli Stati Uniti.

                      Senza l’aiuto europeo, e soprattutto statunitense, l’Ucraina non avrebbe resistito militarmente due anni, ora la situazione è delicata e questo aiuto rischia di interrompersi. Il Senato statunitense ha approvato un paccehtto di aiuti per Ucraina, Israele, e Taiwan da circa 95 miliardi di dollari. Il pacchetto dovrà ottenere ora il voto della Camera dei Rappresentanti controllata però dai repubblicani, tenacemente contrari al sostegno economico a Kiev. E’ possibile che questo pacchetto di aiuti venga intenzionalmente fermato causando così di fatto sia la più drammatica sconfitta ucraina e di riflesso un grave smacco per i democrtici, fermando così una possibile rielezione a novembre di Biden? Per alcuni bisogna infatti solo aspettare le elezioni con la possibile vincita di Trump, e nell’ottica del disimpegno si potrà siglare finalmente il tanto sospirato trattato di pace con la Russia. O abbandonare l’Ucraina al suo destino è una scelta calcolata degli statunitensi avendo già raggiunto i loro obiettivi, tra cui l’insanabile frattura che ormai sussiste tra Europa e Russia?

                      Se da una parte le classi di governo occidentali e la quasi totalità della UE (ma si stanno manifestando notevoli incrinature, ultima la posizione assunta dalla Slovacchia, che si sta avviando su una linea anti-ucraina e filorussa), insistono per la impossibile sconfitta della Federazione Russa, al prezzo del sacrificio di centinaia di migliaia di vite umane, a cominciare da quelle ucraine, le popolazioni europee sono nettamente orientate in senso contrario. Non necessariamente per spirito filorusso, ma per paura dell’apocalisse: come per il Medio Oriente, gli europei più che desiderare la pace desiderano essere lasciati in pace, anche se personaggi come Zelensky e Netanyahu, due fratelli gemelli, ormai godono di un totale discredito, anzi di un vero e proprio odio pubblico, di cui gli orientamenti assunti dal nostro governo farebbero bene a tener conto. Gli abbracci della premier Meloni con l’uno e con l’altro non hanno giovato al consenso verso di lei e verso il suo Esecutivo. Le voci più autorevoli, sul piano politico e su quello intellettuale, oggi sono perfettamente consapevoli che non si può tirare oltre la corda, continuando a concedere aiuti finanziari, più in generale economici e soprattutto militari, a Zelensky. E negli USA tanto a livello di classe dirigente quanto di opinione pubblica, il capitale di favore di cui il presidente ucraino godeva si è ampiamente disciolto. La consapevolezza che l’Ucraina ha perso la guerra, e giace in una condizione di crisi totale, è ormai diffusa, con la conseguenza di un giudizio di sostanziale inutilità nel prosieguo del sostegno al traballante governo Zelensky. Certo è che se si sono spezzati i legami tra Russia ed Europa, non sono state affatto recise le connessioni tra Russia e resto del mondo, ossia i 4/5 del Pianeta, che sempre più tende a guardare a Mosca invece che a Washington o Londra o Parigi.

                      Siamo ancora scossi per l’attacco terroristico al Crocus City Hall di Krasnogorsk, vicino a Mosca, rivendicato apparentemente dall’ISIS. In che misura il terrorismo islamico si inserisce come nuova variante in questa guerra?

                      Che l’estremismo islamico sia nemico della Federazione Russa è cosa nota, ma questo atto al Crocus City Hall presenta molti aspetti nuovi, diversi: è la prima volta che gli autori si presentano in abiti militari, anzi in tenuta da combattimento, mentre, in ogni azione precedente, hanno sempre agito con i loro abiti usuali; e la rivendicazione è stata confusa, tardiva, e l’arresto di alcuni degli autori, in zona di confine, verso l’Ucraina, è un indizio importante che aumenta i dubbi. A maggior ragione se si pensa che l’Ucraina ha fatto già ricorso più volte ad atti squisitamente terroristici, come l’uccisione di Daria Dughina a Mosca con una bomba, gli attentati ai gasdotti North Stream 1 e 2, e così via. E poi, perchè proprio adesso, dopo anni di silenzio l’ISIS si risveglia e opera in Russia? Oggi quella organizzazione di fatto non esiste più ed è assai improbabile che sia avvenuta una sua rinascita ad hoc.

                      Inascoltati gli appelli alla ragione e al buon senso di Papa Francesco che pur non essendo un esperto di strategie militari consiglia che la cosa migliore da fare è avviare delle trattive, concordare un cessate il fuoco e accettare concessioni reciproche che tengano conto degli interessi vitali di entrambi i contendenti. Che la popolazione la pensi come lui è evidente, secondo lei perchè la gente non scende in piazza e manifesta vivacemente a favore della pace? Perchè almeno i partiti di sinistra non sollecitano il loro elettorato a scendere in piazza con una grande mobilitazione generale?

                      La sinistra è morta o quasi. Ciò che si chiama correntemente sinistra (o centrosinistra) non ha quasi nulla a che fare con le idealità, la tradizione, l’identità delle lotte per la pace, la giustizia, l’uguaglianza che sono nel dna della sinistra. Papa Francesco oggi è non soltanto il pontefice della Chiesa di Roma, ma è un attore politico, le cui parole in molti ambiti, specie quello della politica internazionale è decisamente più a sinistra dei leader della cosiddetta sinistra almeno quella in Parlamento, e specificamente, soprattutto, del PD, che in tale ambito è del tutto appiattito su di un antlantismo sconcertante. La popolazione come dicevo, nella sua maggioranza, vorrebbe non avere noie, ma la preoccupazione per la situazione mondiale è diffusa. Non sull’Ucraina ma sulla Palestina e specialmente su Gaza, abbiamo visto un ridestarsi dell’anima più sinceramente contro la guerra, contro la risoluzione dei contrasti per via militare, e soprattutto a favore della causa più nobile e giusta oggi presente sulla Terra, la causa palestinese. Certo la mobilitazione è assai minore rispetto ad altri Paesi europei, ed extraeuropei, ma era da decenni che non si vedevano tante manifestazioni e tante azioni (vedi soprattutto il boicottaggio accademico) a favore della libertà del popolo palestinese, e della fine della sopraffazione israeliana, e in primo luogo del genocidio incrementale in corso a Gaza.

                      Auspica anche lei una “nuova” Helsinki, adattata alle cambiate condizioni geostrategiche, che conservi però lo spirito di Helsinki come un vero punto di partenza per governare pacificamente il mondo multipolare dei prossimi decenni? Certo lo scenario è cambiato, l’URSS non c’è più ma la necessità di una nuova conferenza di pace su quel modello è sentita dai vari leader politici in campo?

                      Sì concordo. Una conferenza di pace planetaria per evitare la guerra planetaria.

                      Infine le chiedo un bilancio politico di questi due anni di guerra, e come si inserisce l’accordo bilaterale tra Meloni e Zelesnky per un sostegno decennale, siglato nella capitale ucraina. Grazie.

                      La Meloni e il suo governo sono un caso interessante di totale voluta dimenticanza delle promesse elettorali e di rovesciamento delle proprie linee politiche. Alla fine è rimasta solo la Lega a balbettare qualche parola di pace, dopo il fallito tentativo di Berlusconi di respingere la genuflessione meloniana a Zelensky e quindi agli USA. Un accordo decennale è una vera follia, del resto del tutto impraticabile. Una mossa propagandistica al livello di “Inseguiremo gli scafisti per tutto l’orbe terracqueo…” o del “Nuovo Piano Mattei per l’Africa”. Propaganda che serve soprattutto a chiedere il sostegno di gruppi finanziari e imprenditoriali, specie del settore delle armi e di quello energetico.

                      La guerra in Ucraina si è rivelata un fallimento clamoroso per l’Italia, l’Europea, la UE in particolare e per la comunità occidentale, a partire dal Paese leader, gli USA. Non ho bisogno di insistere su questo, perchè solo chi non vuol vedere, può continuare a sognare la disfatta russa e la prosecuzione degli aiuti a Zelensky, che hanno come unico effetto l’incremento della morte in Ucraina e della devastazione di quel territorio.

                      :: Un’intervista con Luigi Bonanate a cura di Giulietta Iannone

                      12 marzo 2024

                      L’uomo ha messo piede sulla Luna, ha scoperto la penicillina, ha inserito microchip nel cervello, ha creato l’Intelligenza Artificiale ma non è ancora riuscito a scoprire un modo per evitare la guerra. C’è andato vicino dopo la Caduta del Muro di Berlino ma è stata si può dire un’illusione, la fine della storia, con i suoi vecchi strumenti di governance, auspicata da Fukuyama non c’è stata, tanto meno la pax democratica. Come si spiega che esseri civilizzati e progrediti utilizzino ancora la guerra, come nell’antichità, come strumento di risoluzione delle controversie internazionali? Lei a questa domanda, in modo sintetico, che risposta si è dato?

                      Le guerre ci sono perché sono l’unico sistema, riconosciuto nei secoli e accettato da moralisti e da giuristi, per risolvere ciò che appare irresolubile, e che soltanto un certo strumento – tale è la guerra– ha la capacità di sciogliere. Verosimilmente si tratta anche di una modalità che promette di arrivare a una conclusione in modo più rapido: è ingenuo crederlo, ma tutti gli stati che si accingono a una guerra sono convinti che, tanto, la vinceranno. A parte che le cose vadano sovente in modo diverso, il grande errore che si compie avvicinandosi al “mistero” della guerra è di considerarla in se stessa, in quanto tale, come se fosse racchiusa in una trappola infinita e inarrestabile nel tempo. Ma le guerre non soltanto non scoppiano per caso, ma non nascono mai in un limbo nel quale sono tutte uguali, ma in un quadro politico-internazionale che le sostanzia. Si tratterà di conquiste territoriali o di ricerca di risorse naturali o di beni preziosi, eccetera. A Roma i inventò persino una guerra per la conquista delle donne. Desideri e passioni, preferenze e antipatie appartengono a tutti, così come tutti siamo capaci di usare violenza nei confronti deli altri, ma anche di sviluppare forme di coesistenza, di comprensione o di sopportazione.

                      In altri termini, siamo tutti capaci di fare del bene come il male. A decidere da quale parte penderà la nostra azione ( e/o quella dei governanti di tutti gli stati del mondo) sarà la cultura che ci siamo fatta, che non è altro che la formazione che abbiamo avuto, non uno per uno, ma tutti insieme, a partire dai pochi ma irrinunciabili principi generali che guideranno tutti noi a prendere decisioni di ordine collettivo e di valore universale.

                      Nel suo ultimo libro La guerra e il mondo, Carocci editore, sostiene che la guerra è un atto politico, decisa dalla politica, anzi più drammaticamente un fallimento della lotta politica. Ho trovato questa intuizione il fulcro del suo libro davvero illuminante. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, finita non dimentichiamo con due bombe atomiche sganciate sul Giappone, il desiderio, anzi la necessità di inventare strumenti atti al mantenimento della pace si è fatto impellente. L’ONU nelle piè aspirazioni di statisti e governanti avrebbe dovuto incarnare questo strumento. Perchè invece non c’è ancora riuscito? Pensa che in futuro riuscirà a essere un “governo” super partes con l’obbiettivo reale di mantenere la sicurezza mondiale? Pensa che raggiungeremo mai a questo stato di civiltà, senza scadere nell’autoritarismo e nella dittatura planetaria? Cosa ci si oppone?

                      Figli di Cicerone come siamo, pensiamo che quando una guerra scoppia il diritto universale debba tacere («inter arma silent leges»); ma poi, nipotini di Clausewitz, abbiamo ritenuto che la guerra non sia altro che la continuazione della politica con altri mezzi. In entrambi i casi, la politica non compare in gioco. E’ di fronte a questa tradizione che il ragionamento va ribaltato: la guerra che fa politica non è altro che lo strumento per la sua affermazione. Le guerre distinguono e separano vincitori da vinti, e trovarsi dall’una o dall’altra parte è un dato politico ben più che strategico. Gli stessi – pochi – successi dello spirito di pace che nei secoli si sono affermati e che più recentemente sono riusciti a dare vita a grandi istituzioni giuridiche pacifiche, sono derivati da azioni di carattere politico – ricerca dell’eguaglianza, giustizia, democratizzazione dei rapporti, prevenzione dei conflitti internazionali – che hanno trovato la loro via in termini di dibattiti e compromessi – sempre politica è! Ovvero, la pace non è impossibile ma dipende da una politica di pace. Nulla è necessitato in questo ambito, tutto è possibile. Ogni svolta discende dalla nostra capacità di fare buona politica.

                      Un’altra intuizione contenuta nel suo libro è il fatto che la guerra non è mai un atto irrazionale, un atto di follia. Anzi al contrario chi la dichiara ha sempre degli obbiettivi concreti da raggiungere e l’uso spregiudicato delle armi, sempre più tecnologiche, è sempre funzionale a degli obbiettivi strategici da perseguire con l’ottenimento della vittoria e dell’imposizione allo sconfitto delle proprie condizioni. Il sacrificio di vite umane, la sofferenza dei civili inermi, non addestrati a uccidere come i militari, è posto come inevitabile e forse spietatamente giudicato irrilevante contrapposto al nuovo sistema di cose che si verrebbe poi a creare terminata la guerra. Ci sono scienze che studiano la guerra, le scienze strategiche, e la salute mentale dei militari e dei governanti è monitorata continuamente. Dunque la guerra è frutto solo di pragmatismo e calcolo?

                      Mettiamo da parte, innanzi tutto, il vecchio pregiudizio secondo cui la semplice esistenza di armi e lo sviluppo di nuovi armamenti (dalle mascelle dei bisonti nella preistoria alle bombe termonucleari) abbiano qualche influenza sulla guerra: sono strumenti di vittoria e – quando non usate – paradossalmente diventano ben più che strumenti di difesa perché svolgono funzioni fondamentali di minaccia e di dissuasione. Per essere chiari, non è detto che se non si producessero più armi non si farebbero più guerre. E poi: se la guerra è (anche) politica, ovviamente sarà anche razionale: nessuno ha mai intrapreso una guerra senza buone speranze di vincerla. La guerra è una forma di estremismo: per evitare la sconfitta qualsiasi governante butterà in campo tutte le risorse di cui dispone, anche a costo di sacrificare vite umane e di causare – come sempre succede, in tutte le guerre – danni collaterali: bombardamenti su edifici civili, stermini etnici, anziani donne bambini brutalizzati, villaggi o risorse date alle fiamme (i cosiddetti danni collaterali)… In tutte le guerre della storia, antiche o recenti, ci sono stati, stupri, maltrattamenti, violenze di ogni genere. Il sacrificio di vittime umane non combattenti e non belligeranti è uno degli aspetti oggettivi dell’azione bellica. Non si può continuare a nobilitare la guerra nei suoi eroismi, nelle grandi battaglie, eccetera, perché essa è invece – e lo sappiamo bene tutti – la macchina della distruzione e della devastazione. Che la si possa considerare giusta o ingiusta è poi tutt’un’altra questione.

                      Due anni fa è scoppiata in modo conclamato la guerra tra due stati la Russia di Putin e la Ucraina di Zelensky, guerra che si trascinava a bassa intensità da diversi anni. Senza volere analizzare nello specifico il conflitto e le sue cause, anche remote, possiamo dire che la Russia ha visto minacciati i suoi confini e gli interessi delle popolazioni di lingua e cultura russa presenti sul territorio ucraino e ha letteralmente invaso quel paese per annettersi con la forza quei territori. L’Occidente non è stato a guardare e pur se l’Ucraina non faceva parte della NATO è intervenuta sostenendo economicamente e militarmente il paese invaso, senza dichiarare mai guerra formale allo stato russo. Insomma è una guerra combattuta per interposta persona. Sintetizzo in modo molto grossolano naturalmente, ma per chiederle una cosa molto semplice: dopo questa guerra il baricentro degli equilibri internazionali si è spostato definitivamente sempre più a Est? Putin con il suo solito pragmatismo camaleontico, sarà la Storia a giudicarlo, ha deciso di porsi con l’Oriente e la Cina, dimenticando le radici occidentali del paese sconfinato che governa. E’ corretta questa analisi? E’ un errore strategico secondo lei, a prescindere dalla considerazioni morali ed etiche?

                      La crisi nella quale ci dibattiamo oggigiorno era iniziata all’inizio del 2014, senza che nessun grande stato del mondo se ne fosse preoccupato. Di lì è discesa la nuova guerra del 2022, i cui danni sono immensi, non solo per quel che sta succedendo sul piano militare ma anche per il potenziale di trasformazione della politica internazionale del futuro che sprigiona. E dire che, nel caso specifico, l’ascesa al potere di Putin fin dall’inizio del nuovo millennio era stata osservata nel mondo come un qualche cosa di marginale e privo di pericolosità: la grande politica internazionale si stava occupando di ben altro, lasciava fare a personaggi che vanno da Putin a Kim Jong-un… e tanti altri., ritenuti insignificanti. L’Occidente si era richiuso nella torre d’avorio che si erano costruita, dopo la vittoria contro il comunismo internazionale, e che doveva garantirgli pace e democrazia. Ma come tutti i fiori delicati, se non li concimi, non li bagni e li trascuri, la democrazia incominciò a invecchiare e invece di crescere impallidisce e si avvizzisce tanto da renderci tutti indifferenti. E se qualche stato non voleva la democrazia, beh, in fondo, l’importante era che i nostri affari (rectius, la finanza capitalistica internazionale) continuassero a svilupparsi.

                      Il mondo del dopo-guerra fredda si è addormentato, ma il suo risveglio è stato tutt’altro che sereno e compiaciuto. Una specie di ritorno al passato scorre davanti ai nostri occhi, come un film.

                      E la guerra di Gaza indebolirà Israele? In che posizione si pone nel contesto internazionale e nell’evoluzione del processo di pace in Medio Oriente?

                      Due grandi guerre, almeno, ci hanno fatto facendo sentire le le trombe di battaglia. Non che fossero sole, Ucraina e Gaza, ma sconvolsero le abitudini acquisite, e ora assurgono a funzioni simboliche. Si pensava che la Russia sarebbe crollata sotto la sua stessa arretratezza – ma così non è stato. Si poteva ritenere che – seppure con alcuni gravissimi difetti – lo Stato di Israele sarebbe riuscito a contenere le proteste palestinesi – ma così non è stato.

                      Queste due drammatiche storie sono in un certo senso “inutili”, nelle dimensioni assunte, e restano comunque come la dimostrazione che le illusioni devono cadere, e che il mondo – per dirla alla buona e sinteticamente – ha bisogno di una grande rinascita culturale, rivolta alla spiegazione di come funzioni il mondo e di come lo si potrebbe rimettere in sesto (ma questi sono problemi troppo ampi per essere discussi alla breve). Il mio ultimo libro, Guerra e mondo, avrebbe o ha lo scopo di riscoprire le fondamenta della nostra compresenza in un solo e stesso mondo che non richiede necessariamente morte e violenza. Suggerirei che un buon punto di partenza sarebbe la denuncia dell’ignavia del mondo ricco, democratico e pacifico che aveva considerato i due casi – Ucraina, Gaza – come largamente insignificanti, di quelli che finiscono per aggiustarsi d soli…

                      La morte di Aleksej Anatol’evič Naval’nyj ha creato molta sensazione in Occidente, incarnava l’ideale di una Russia nuova, democratica, giovane, tesa a mantenere rapporti pacifici con l’Occidente. A prescindere da un giudizio politico della figura, forse anche marginale, di Naval’nyj accusato dai suoi detrattori di essere xenofobo, militarista e con tendenze neonaziste, lei che idea si è fatto di questo giovane uomo sicuramente coraggioso e idealista che ha pagato con la vita, ricordiamolo aveva solo 47 anni, il suo impegno politico? Avrebbe potuto rappresentare davvero una figura carismatica incarnante il futuro delle nuove generazioni della Russia? La sua morte cosa porterà a livello di immagine nei confronti di Putin? Alimenterà in Russia il dissenso, in prospettiva delle elezioni di marzo?

                      A Naval’nyj è successa la stessa cosa che era già successa non soltanto nella storia universale ma anche più specificamente nella Federazione Russa: Putin ha operato allo stesso modo in molti altri casi, che non suscitarono più che le solite proteste dei benpensanti occidentali, che andarono poi a sgonfiarsi con il passar del tempo.

                      Ma la vicenda umana di Naval’nyj è stupefacente se non addirittura incomprensibile: il suo ritorno in Russia dopo che era stato perseguitato dalla polizia segreta russa ha dell’inspiegabile. Come poté non capirlo e prevederlo? Evidentemente, però, Naval’nyj era consapevole dei rischi che correva. Possiamo dire che il suo comportamento sia stato eroico e ammirabile; ma nello stesso tempo dovremo ammettere – e l’avrebbe dovuto fare anche Naval’nyj – che il suo gesto non poteva appoggiarsi su un movimento di ribellione capace di paralizzare Putin o addirittura di cacciarlo dal potere.

                      Che tutto ciò sia successo non fa che aggiungere un po’ di preoccupazione per il futuro delle vicende umane, strette come paiono essere tra indifferenza e crudeltà. Non una bella notizia…

                      Grazie della sua disponibilità e come ultima domanda le chiederei se sta lavorando a nuovi testi o La guerra e il mondo è il suo ultimo libro. Grazie.

                      Spero di riuscire ancora a lavorare, anche se alla mia età tutto diventa più incerto, insicuro e complicato. Di più non so dire, anche se conosco i miei desideri e le mie intenzioni.

                      Torino 12 marzo 2024