[Worpswede, 4 ottobre 1898] ” Ho attraversato il villaggio immerso nel buio. Scuro era il mondo intorno a me, di un’oscurità fonda. Ed era come se quel nero mi toccasse e baciasse e accarezzasse. Ero in un’altra dimensione e mi sentivo felice, lì dov’ero. Che bello! Ero di nuovo vicina a me stessa e in uno stato di beatitudine, perché l’oscurità arrecava una dolce bellezza, come un uomo grande e premuroso. E splendevano le tenui luci nelle case, sorridendo alla strada e al mio passaggio. Anch’io ridevo a mia volta, raggiante e colma di riconoscenza. Sentivo d’esser viva”.
Morire a trentuno anni, nel pieno del ciclo produttivo artistico. E’ la sorte toccata alla tedesca Paula Modersohn-Becker (1876-1907), anticipatrice del primo espressionismo e protagonista di questo opuscolo in nuova traduzione. Si tratta di pensieri sull’arte e la vita che rappresentarono materia di studio e ispirazione per le giovani generazioni del suo Paese. Ecco le parole di Claudia Ciardi sul sul suo stile e la sua riflessione teorica:
“Alla ricerca di una nitidezza del segno e di una semplificazione quasi archetipica, studia a fondo Cézanne, Guaguin e Van Gogh, quando ancora in molti non ne hanno afferrato il peso artistico. Da loro e dalle personalità riunite a Worpswede spreme la linfa indispensabile al suo linguaggio, un assolo che si lascia decifrare alle sorgenti del simbolismo e dell’espressionismo”.
Nella sua valigia di conoscenze e fari artistici, non manca di riporre la propria gratitudine nei confronti dei Maestri del Passato che hanno avuto un ruolo preponderante nell’edificare il suo evoluto concetto pittorico:
[Worpswede, 31 marzo 1902] “ Mi pare che Bocklin abbia imparato molto da Tiziano. Non lo nomina mai se non di rado. Gli era troppo affine? La mano che stringe i fiori nella Flora di Tiziano potrebbe averla dipinta Bocklin. Con quale facilità quei grandi del Rinascimento mettevano su tela le loro immagini! Esploro il taccuino di Tiziano. E’ come se queste rappresentazioni potenti, le figure con gli sfondi di paesaggio, tutto così sontuosamente risolto, l’insieme compositivo rigoroso, e non mi riferisco al realismo ma ai tanti stimoli cromatici propri della pittura moderna, insomma è come se questa fosse l’arte del futuro. O magari un pezzetto della mia arte? Tiziano fu davvero artista, un nobile spirito pieno di temperamento e di tensione formale. Vorrei anch’io cimentarmi così. Parlo adesso stimolata dalle sue riproduzioni. Forse l’originale avrebbe su di me un effetto completamento diverso”.
Un libro maturo che racchiude segreti rivelati con purezza, trasparenza, semplicità. Forse la fama di Paula Mondersohn Becker sarebbe stata anche più estesa se non avesse visto scadere troppo presto il biglietto della vita sulla Terra, ma chissà. Magari il futuro consegnerà alla sua memoria fiori secolari di ulteriore, mondiale, ricettività e apprezzamento. Il suo è il destino di chi precorre i tempi spargendo qua e là nel globo orme durevoli del suo sfavillante passaggio.
Paula Becker, nota come Modersohn dal cognome del marito, nasce a Dresda nel 1876, terza di sette figli, da madre della media borghesia e padre ingegnere. Nell’infanzia dedica tutto il tempo libero al disegno, viene quindi iscritta a una scuola d’arte a Brema, dove i Becker si sono trasferiti. Nel 1896 parte per Berlino, seguendo i corsi di disegno e pittura. L’anno seguente visita la colonia di artisti di Worpswede, a pochi chilometri da Brema, fondata da tre artisti fra cui Otto Modersohn, col quale si sposa nel 1901. Qui si lega di amicizia anche con Rainer Maria Rilke e la scultrice Clara Westhoff. Il suo matrimonio procede tra alti e bassi, soprattutto per il continuo desiderio di libertà che la spinge ad alternare lunghe trasferte parigine alla soffocante vita domestica di Worpswede. Il 2 novembre 1907 nasce la figlia Mathilde ma Paula muore neanche un mese dopo, a soli trentuno anni, per un’embolia dovuta a complicazioni post parto. Lascia settecento dipinti e mille disegni. I suoi scritti vengono pubblicati nel 1917. Considerata l’iniziatrice dell’espressionismo incarnato dalla Brücke, dopo la morte i suoi diari sono religiosamente studiati dalle giovani generazioni tedesche. Nel ’27 nasce a Brema il Becker Museum, primo museo al mondo dedicato a un’artista donna.
Source: Libro inviato dall’Editore. Ringraziamo Fabrizio Zollo della “Via del Vento Edizioni”.
[Worpswede, 4 ottobre 1898] ” Ho attraversato il villaggio immerso nel buio. Scuro era il mondo intorno a me, di un’oscurità fonda. Ed era come se quel nero mi toccasse e baciasse e accarezzasse. Ero in un’altra dimensione e mi sentivo felice, lì dov’ero. Che bello! Ero di nuovo vicina a me stessa e in uno stato di beatitudine, perché l’oscurità arrecava una dolce bellezza, come un uomo grande e premuroso. E splendevano le tenui luci nelle case, sorridendo alla strada e al mio passaggio. Anch’io ridevo a mia volta, raggiante e colma di riconoscenza. Sentivo d’esser viva”.
(..) Io voglio avere in pugno tutti quelli che mi si oppongono, voglio possedere la gran folla del mondo. Stasera a teatro ci riuscirò. Già lo vedo. Aspettano, se ne stanno lì, sonnolenti, da loro spira un gelo spettrale. Allora io sferro un calcio dentro questa roccia. Faccio saltare le barriere del silenzio. E da lì scendo a estrarre il mio oro: occhi lucidi, e poi un sospiro, un grido, una lacrima. Io li scuoto: sveglia, sveglia! E come una grandinata che si abbatte sul loro torpore, la mia febbre li contagia. In quell’attimo si aprono i mille occhi della loro anima, vorrebbero parlare, dare risposte ed ecco, infine, il loro sentire divampa. E io lo sollevo in altro, in trionfo, e questo poi torna a me in fragorose cascate”.
Stefan Zweig è stato uno scrittore austriaco (Vienna 1881 – Petrópolis, Rio de Janeiro, 1942). Ebreo, emigrò in Inghilterra nel 1924, poi (1940) in Brasile, dove morì suicida. Dopo un primo volume di liriche (Silberne Saiten, 1901), pubblicò novelle, traduzioni (in genere dal francese) e saggi critici (Drei Meister: Balzac, Dickens, Dostojewsky, 1920; Der Kampf mit dem Dämon: Hölderlin, Kleist, Nietzsche, 1925; ecc.). L’origine viennese, il suo ebraismo, la raffinata educazione, contribuirono molto a creare quell’atmosfera d’intellettualità cosmopolita, spregiudicata e aperta a ogni influsso, in cui si muovono sia le sue notissime biografie romanzate (Marie Antoinette, 1932; Triumph und Tragik des Erasmus von Rotterdam, 1935; Magellan, 1938; Balzac, 1946), sia le sue seducenti opere narrative (Amok, 1922; Verwirrung der Gefühle, 1927; Schachnovelle, 1942), o quelle di rievocazione storico-autobiografica (Die Welt von Gestern, 1941). Della sua produzione teatrale è notevole Jeremias (1917), dramma corale e fortemente antibellicista che risente dell’influenza dell’amicizia con R. Rolland.
Questo piccolo opuscolo – curato da Francesco Cappellini – racchiude tre prose inedite in Italia dello scrittore americano Thomas Clayton Wolfe (1900-1938) il cui tono e intimista, penetrante, rapsodico, lunare, avrebbe influenzato, qualche anno dopo, tutto il movimento legato alla beat-generation. Nel 2016, gli fu dedicato persino un film – “Genius” del regista Michael Grandage. Thomas Clayton Wolfe raggiunse il successo editoriale nel 1929 dopo l’incontro con Maxwell Perkins, scopritore di talenti quali Hemingway e Scott Fitzgerald. Fu l’inizio di una fortunata collaborazione dalla quale uscirono i romanzi più famosi di Wolfe, che morì troppo giovane per adagiarsi sugli allori del suo genio. Ecco cosa scrisse nel primo di questi brevi racconti:
Le altre due storie “La giustizia è cieca” e “Prologo all’America” compendiano il virtuosismo di uno scrittore che riporta la trama nel mondo dei fatti bizzarri e registra i flussi di coscienza tra le montagne russe di una visione astrale.
“Ero teso e freddo, ero un ponte, stavo steso sopra un abisso, da una parte le mani, mi tenevo aggrappato con le unghie e con i denti all’argilla friabile. I lembi della mia giacca mi sventolavano sui lati. Nel profondo scrosciava il gelido torrente con le trote. Nessun turista veniva a smarrirsi a quelle altezze impercorribili, il ponte non era nemmeno segnato sulle carte. Stavo così e attendevo; dovevo attendere; se non precipita, un ponte, una volta che è stato costruito, non può smettere di essere un ponte”. – Il ponte.

“Sono pesi queste mie poesie,/
Nika Turbina nasce a Yalta, il 17 dicembre 1974, in una famiglia di artisti. La madre è scultrice, la nonna interprete, il nonno scrittore e poeta. Nika raggiunge l’apice della notorietà all’inizio della sua vita, quando a soli sette anni i suoi versi appaiono su un quotidiano nazionale. Nel giro di un anno la sua prima raccolta, “Quaderno di appunti”, viene publicata a Mosca. In occasione del festival internazionale di poesia “Poeti e pianeta Terra” tenutosi in Italia, nel 1985 le viene conferito il Leone d’oro di Venezia. Prima di lei, solo un altro poeta russo è stato insignito dello stesso riconoscimento: Anna Achmàtova. Le sue poesie sono state tradotte e pubblicate in dodici paesi. Nika trascorre l’ultima parte della sua vita lontano dall’attenzione generale. Muore tragicamente a Mosca, a soli ventisette anni, l’11 maggio 2002.
“Cerco chi cerco,/ 























