
L’uomo ha messo piede sulla Luna, ha scoperto la penicillina, ha inserito microchip nel cervello, ha creato l’Intelligenza Artificiale ma non è ancora riuscito a scoprire un modo per evitare la guerra. C’è andato vicino dopo la Caduta del Muro di Berlino ma è stata si può dire un’illusione, la fine della storia, con i suoi vecchi strumenti di governance, auspicata da Fukuyama non c’è stata, tanto meno la pax democratica. Come si spiega che esseri civilizzati e progrediti utilizzino ancora la guerra, come nell’antichità, come strumento di risoluzione delle controversie internazionali? Lei a questa domanda, in modo sintetico, che risposta si è dato?
Le guerre ci sono perché sono l’unico sistema, riconosciuto nei secoli e accettato da moralisti e da giuristi, per risolvere ciò che appare irresolubile, e che soltanto un certo strumento – tale è la guerra– ha la capacità di sciogliere. Verosimilmente si tratta anche di una modalità che promette di arrivare a una conclusione in modo più rapido: è ingenuo crederlo, ma tutti gli stati che si accingono a una guerra sono convinti che, tanto, la vinceranno. A parte che le cose vadano sovente in modo diverso, il grande errore che si compie avvicinandosi al “mistero” della guerra è di considerarla in se stessa, in quanto tale, come se fosse racchiusa in una trappola infinita e inarrestabile nel tempo. Ma le guerre non soltanto non scoppiano per caso, ma non nascono mai in un limbo nel quale sono tutte uguali, ma in un quadro politico-internazionale che le sostanzia. Si tratterà di conquiste territoriali o di ricerca di risorse naturali o di beni preziosi, eccetera. A Roma i inventò persino una guerra per la conquista delle donne. Desideri e passioni, preferenze e antipatie appartengono a tutti, così come tutti siamo capaci di usare violenza nei confronti deli altri, ma anche di sviluppare forme di coesistenza, di comprensione o di sopportazione.
In altri termini, siamo tutti capaci di fare del bene come il male. A decidere da quale parte penderà la nostra azione ( e/o quella dei governanti di tutti gli stati del mondo) sarà la cultura che ci siamo fatta, che non è altro che la formazione che abbiamo avuto, non uno per uno, ma tutti insieme, a partire dai pochi ma irrinunciabili principi generali che guideranno tutti noi a prendere decisioni di ordine collettivo e di valore universale.
Nel suo ultimo libro La guerra e il mondo, Carocci editore, sostiene che la guerra è un atto politico, decisa dalla politica, anzi più drammaticamente un fallimento della lotta politica. Ho trovato questa intuizione il fulcro del suo libro davvero illuminante. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, finita non dimentichiamo con due bombe atomiche sganciate sul Giappone, il desiderio, anzi la necessità di inventare strumenti atti al mantenimento della pace si è fatto impellente. L’ONU nelle piè aspirazioni di statisti e governanti avrebbe dovuto incarnare questo strumento. Perchè invece non c’è ancora riuscito? Pensa che in futuro riuscirà a essere un “governo” super partes con l’obbiettivo reale di mantenere la sicurezza mondiale? Pensa che raggiungeremo mai a questo stato di civiltà, senza scadere nell’autoritarismo e nella dittatura planetaria? Cosa ci si oppone?
Figli di Cicerone come siamo, pensiamo che quando una guerra scoppia il diritto universale debba tacere («inter arma silent leges»); ma poi, nipotini di Clausewitz, abbiamo ritenuto che la guerra non sia altro che la continuazione della politica con altri mezzi. In entrambi i casi, la politica non compare in gioco. E’ di fronte a questa tradizione che il ragionamento va ribaltato: la guerra che fa politica non è altro che lo strumento per la sua affermazione. Le guerre distinguono e separano vincitori da vinti, e trovarsi dall’una o dall’altra parte è un dato politico ben più che strategico. Gli stessi – pochi – successi dello spirito di pace che nei secoli si sono affermati e che più recentemente sono riusciti a dare vita a grandi istituzioni giuridiche pacifiche, sono derivati da azioni di carattere politico – ricerca dell’eguaglianza, giustizia, democratizzazione dei rapporti, prevenzione dei conflitti internazionali – che hanno trovato la loro via in termini di dibattiti e compromessi – sempre politica è! Ovvero, la pace non è impossibile ma dipende da una politica di pace. Nulla è necessitato in questo ambito, tutto è possibile. Ogni svolta discende dalla nostra capacità di fare buona politica.
Un’altra intuizione contenuta nel suo libro è il fatto che la guerra non è mai un atto irrazionale, un atto di follia. Anzi al contrario chi la dichiara ha sempre degli obbiettivi concreti da raggiungere e l’uso spregiudicato delle armi, sempre più tecnologiche, è sempre funzionale a degli obbiettivi strategici da perseguire con l’ottenimento della vittoria e dell’imposizione allo sconfitto delle proprie condizioni. Il sacrificio di vite umane, la sofferenza dei civili inermi, non addestrati a uccidere come i militari, è posto come inevitabile e forse spietatamente giudicato irrilevante contrapposto al nuovo sistema di cose che si verrebbe poi a creare terminata la guerra. Ci sono scienze che studiano la guerra, le scienze strategiche, e la salute mentale dei militari e dei governanti è monitorata continuamente. Dunque la guerra è frutto solo di pragmatismo e calcolo?
Mettiamo da parte, innanzi tutto, il vecchio pregiudizio secondo cui la semplice esistenza di armi e lo sviluppo di nuovi armamenti (dalle mascelle dei bisonti nella preistoria alle bombe termonucleari) abbiano qualche influenza sulla guerra: sono strumenti di vittoria e – quando non usate – paradossalmente diventano ben più che strumenti di difesa perché svolgono funzioni fondamentali di minaccia e di dissuasione. Per essere chiari, non è detto che se non si producessero più armi non si farebbero più guerre. E poi: se la guerra è (anche) politica, ovviamente sarà anche razionale: nessuno ha mai intrapreso una guerra senza buone speranze di vincerla. La guerra è una forma di estremismo: per evitare la sconfitta qualsiasi governante butterà in campo tutte le risorse di cui dispone, anche a costo di sacrificare vite umane e di causare – come sempre succede, in tutte le guerre – danni collaterali: bombardamenti su edifici civili, stermini etnici, anziani donne bambini brutalizzati, villaggi o risorse date alle fiamme (i cosiddetti danni collaterali)… In tutte le guerre della storia, antiche o recenti, ci sono stati, stupri, maltrattamenti, violenze di ogni genere. Il sacrificio di vittime umane non combattenti e non belligeranti è uno degli aspetti oggettivi dell’azione bellica. Non si può continuare a nobilitare la guerra nei suoi eroismi, nelle grandi battaglie, eccetera, perché essa è invece – e lo sappiamo bene tutti – la macchina della distruzione e della devastazione. Che la si possa considerare giusta o ingiusta è poi tutt’un’altra questione.
Due anni fa è scoppiata in modo conclamato la guerra tra due stati la Russia di Putin e la Ucraina di Zelensky, guerra che si trascinava a bassa intensità da diversi anni. Senza volere analizzare nello specifico il conflitto e le sue cause, anche remote, possiamo dire che la Russia ha visto minacciati i suoi confini e gli interessi delle popolazioni di lingua e cultura russa presenti sul territorio ucraino e ha letteralmente invaso quel paese per annettersi con la forza quei territori. L’Occidente non è stato a guardare e pur se l’Ucraina non faceva parte della NATO è intervenuta sostenendo economicamente e militarmente il paese invaso, senza dichiarare mai guerra formale allo stato russo. Insomma è una guerra combattuta per interposta persona. Sintetizzo in modo molto grossolano naturalmente, ma per chiederle una cosa molto semplice: dopo questa guerra il baricentro degli equilibri internazionali si è spostato definitivamente sempre più a Est? Putin con il suo solito pragmatismo camaleontico, sarà la Storia a giudicarlo, ha deciso di porsi con l’Oriente e la Cina, dimenticando le radici occidentali del paese sconfinato che governa. E’ corretta questa analisi? E’ un errore strategico secondo lei, a prescindere dalla considerazioni morali ed etiche?
La crisi nella quale ci dibattiamo oggigiorno era iniziata all’inizio del 2014, senza che nessun grande stato del mondo se ne fosse preoccupato. Di lì è discesa la nuova guerra del 2022, i cui danni sono immensi, non solo per quel che sta succedendo sul piano militare ma anche per il potenziale di trasformazione della politica internazionale del futuro che sprigiona. E dire che, nel caso specifico, l’ascesa al potere di Putin fin dall’inizio del nuovo millennio era stata osservata nel mondo come un qualche cosa di marginale e privo di pericolosità: la grande politica internazionale si stava occupando di ben altro, lasciava fare a personaggi che vanno da Putin a Kim Jong-un… e tanti altri., ritenuti insignificanti. L’Occidente si era richiuso nella torre d’avorio che si erano costruita, dopo la vittoria contro il comunismo internazionale, e che doveva garantirgli pace e democrazia. Ma come tutti i fiori delicati, se non li concimi, non li bagni e li trascuri, la democrazia incominciò a invecchiare e invece di crescere impallidisce e si avvizzisce tanto da renderci tutti indifferenti. E se qualche stato non voleva la democrazia, beh, in fondo, l’importante era che i nostri affari (rectius, la finanza capitalistica internazionale) continuassero a svilupparsi.
Il mondo del dopo-guerra fredda si è addormentato, ma il suo risveglio è stato tutt’altro che sereno e compiaciuto. Una specie di ritorno al passato scorre davanti ai nostri occhi, come un film.
E la guerra di Gaza indebolirà Israele? In che posizione si pone nel contesto internazionale e nell’evoluzione del processo di pace in Medio Oriente?
Due grandi guerre, almeno, ci hanno fatto facendo sentire le le trombe di battaglia. Non che fossero sole, Ucraina e Gaza, ma sconvolsero le abitudini acquisite, e ora assurgono a funzioni simboliche. Si pensava che la Russia sarebbe crollata sotto la sua stessa arretratezza – ma così non è stato. Si poteva ritenere che – seppure con alcuni gravissimi difetti – lo Stato di Israele sarebbe riuscito a contenere le proteste palestinesi – ma così non è stato.
Queste due drammatiche storie sono in un certo senso “inutili”, nelle dimensioni assunte, e restano comunque come la dimostrazione che le illusioni devono cadere, e che il mondo – per dirla alla buona e sinteticamente – ha bisogno di una grande rinascita culturale, rivolta alla spiegazione di come funzioni il mondo e di come lo si potrebbe rimettere in sesto (ma questi sono problemi troppo ampi per essere discussi alla breve). Il mio ultimo libro, Guerra e mondo, avrebbe o ha lo scopo di riscoprire le fondamenta della nostra compresenza in un solo e stesso mondo che non richiede necessariamente morte e violenza. Suggerirei che un buon punto di partenza sarebbe la denuncia dell’ignavia del mondo ricco, democratico e pacifico che aveva considerato i due casi – Ucraina, Gaza – come largamente insignificanti, di quelli che finiscono per aggiustarsi d soli…
La morte di Aleksej Anatol’evič Naval’nyj ha creato molta sensazione in Occidente, incarnava l’ideale di una Russia nuova, democratica, giovane, tesa a mantenere rapporti pacifici con l’Occidente. A prescindere da un giudizio politico della figura, forse anche marginale, di Naval’nyj accusato dai suoi detrattori di essere xenofobo, militarista e con tendenze neonaziste, lei che idea si è fatto di questo giovane uomo sicuramente coraggioso e idealista che ha pagato con la vita, ricordiamolo aveva solo 47 anni, il suo impegno politico? Avrebbe potuto rappresentare davvero una figura carismatica incarnante il futuro delle nuove generazioni della Russia? La sua morte cosa porterà a livello di immagine nei confronti di Putin? Alimenterà in Russia il dissenso, in prospettiva delle elezioni di marzo?
A Naval’nyj è successa la stessa cosa che era già successa non soltanto nella storia universale ma anche più specificamente nella Federazione Russa: Putin ha operato allo stesso modo in molti altri casi, che non suscitarono più che le solite proteste dei benpensanti occidentali, che andarono poi a sgonfiarsi con il passar del tempo.
Ma la vicenda umana di Naval’nyj è stupefacente se non addirittura incomprensibile: il suo ritorno in Russia dopo che era stato perseguitato dalla polizia segreta russa ha dell’inspiegabile. Come poté non capirlo e prevederlo? Evidentemente, però, Naval’nyj era consapevole dei rischi che correva. Possiamo dire che il suo comportamento sia stato eroico e ammirabile; ma nello stesso tempo dovremo ammettere – e l’avrebbe dovuto fare anche Naval’nyj – che il suo gesto non poteva appoggiarsi su un movimento di ribellione capace di paralizzare Putin o addirittura di cacciarlo dal potere.
Che tutto ciò sia successo non fa che aggiungere un po’ di preoccupazione per il futuro delle vicende umane, strette come paiono essere tra indifferenza e crudeltà. Non una bella notizia…
Grazie della sua disponibilità e come ultima domanda le chiederei se sta lavorando a nuovi testi o La guerra e il mondo è il suo ultimo libro. Grazie.
Spero di riuscire ancora a lavorare, anche se alla mia età tutto diventa più incerto, insicuro e complicato. Di più non so dire, anche se conosco i miei desideri e le mie intenzioni.
Torino 12 marzo 2024




Il ruolo statunitense nel mondo è al centro dell’ultimo saggio di Luigi Bonanate dal titolo quanto mai evocativo Il destino americano (Nino Aragno Editore). Un testo singolare nella sfera delle Relazioni Internazionali che focalizza la sua attenzione nell’ambito circoscritto dell’analisi della politica estera in quanto tale di un unico soggetto, per quanto eccezionale come possono essere gli Stati Uniti d’America.
Benvenuto professor Bonanate, e grazie di aver accettato questa intervista. L’ho invitata sul mio blog per parlare dei recenti sviluppi sul tema dei cosìddetti Euromissili, e sui nuovi sviluppi delle Relazioni Internazionali.
Benvenuto professore Bonanate su Liberi di scrivere e grazie di avere accettato questa intervista. È docente di Relazioni internazionali presso la Scuola di Studi Superiori dell’Università degli Studi di Torino Ferdinando Rossi e la Struttura Universitaria Interdipartimentale in Scienze Strategiche. L’ho invitata a parlare con noi della crisi russo – ucraina, in un quadro internazionale piuttosto instabile, che vede l’Europa da un lato minacciata dal terrorismo islamico dell’ ‘ISIS di al-Baghdadi e dall’altro da una crisi si potrebbe definire interna in Ucraina. La storia dell’integrazione europea non è mai stata facile, ma si aspettava minacce di tale portata?























