C’era poca birra in giro, spesso non ce ne era affatto. Taverne e osterie iniziarono a chiudere un giorno alla settimana, poi due, a volte tutte assieme, e dopo poco ci furono solo quattro localini in città dove si potesse regolarmente trovare un boccale di birra. Quell’acqua acida, marroncina e salmastra che sorseggiavamo tristi dai nostri bicchieri mi ricordava più che altro il liquido dentro i buchi delle granate e le pozzanghere stagnati della Terra di Nessuno, dove a volte eravamo stati costretti a cercare riparo. Per un berlinese era quella la vera disgrazia. Era difficile trovare i superalcolici e questo significava che era impossibile ubriacarsi e sfuggire a se stessi. Ecco perché a tarda notte finivo spesso a pulire la pistola.
La notte di Praga (Prague Fatale, 2011), tradotto da Elena Orlandi ed edito da Piemme, è l’ottavo romanzo dedicato dallo scrittore scozzese di Edimburgo, classe 1956, Philip Kerr, al personaggio di Bernhard “Bernie” Gunther, investigatore nella Germania nazista.
Tutto cominciò con una trilogia Berlin Noir composta da tre romanzi: Violette di marzo (March Violets, 1989), Il criminale pallido (The Pale Criminal, 1990), Un requiem tedesco (A German Requiem, 1991) portati in Italia da Passigli editore.
Ma naturalmente un personaggio come “Bernie” Gunther meritava altro spazio e quindici anni dopo Kerr riprese la serie con L’uno dall’altro (The One From the Other, 2006), A fuoco lento (A Quiet Flame, 2008), Se i morti non risorgono (If The Dead Rise Not, 2009), tutti editi da Passigli, l’inedito Field Grey del 2010, appunto La notte di Praga, e l’ultimo, ancora anch’esso inedito in Italia, A Man Without Breath del 2013.
Se avete amato la serie di Martin Bora di Ben Pastor troverete di sicuro interesse anche questa serie caratterizzata forse da una maggiore crudezza e durezza.
Siamo a Berlino nell’autunno del 1941, e il commissario della polizia criminale di Alexanderplatz “Bernie” Gunther, di ritorno dall’Ucraina in cui ha partecipato a veri e propri stermini di massa, vive tormentato dal rimorso e dall’avversione sempre più crescente per il regime nazista, meditando ogni sera il suicidio, smontando e rimontando la sua Walther automatica.
La vita a Berlino è fatta di grandi ristrettezze. Manca tutto e quello che resta è razionato: le patate, la carne,
in teoria ognuno di noi aveva diritto a mezzo chilo di carne alla settimana, ma anche a patto di trovarla era più probabile riceverne solo cinquanta grammi per un buono da cento, il latte, il pane, sapeva di segatura e molti giuravano che fosse fatto proprio con quella. Difficile trovare vestiti, o scarpe, non si poteva compare un paio di scarpe ed era impossibile trovare un calzolaio,
o qualsiasi altro oggetto di consumo se non prodotti di imitazione e di scarsa qualità
i lacci si spezzavano quando cercavi di stringerli. I bottoni nuovi si rompevano tra le dita mentre ancora tentavi di cucirli. Nessuno si lavava quasi più se non con un misero pezzo di sapone sbriciolato grande come un biscotto(…) un pezzo per un mese intero.
La propaganda sui giornali titola: La nostra disgrazia sono gli ebrei e intanto le bombe della RAF si abbattono su cose e persone tra un coprifuoco e l’altro.
Tutto manca a Berlino tranne i furti e i delitti e “Bernie” Gunther, ritornato a lavorare alla Kripo, si trova a indagare su un presunto suicidio che ben presto si rivela un omicidio.
Geert Vranken, un operaio di ferrovia volontario, trentanovenne nato in Olanda, viene rinvenuto ai lati di una ferrovia dopo essere stato investito da un treno. Profonde ferite di coltello evidenziano successivamente che è stato assassinato.
Mentre indaga su questo delitto (che sembra scollegato ma che ritroveremo connesso alle indagini successive) Bernie salva una ragazza, Arianne Tauber, da una apparente tentativo di violenza. E qualcosa di molto simile all’amore entra nella sua vita. Arianne lavora come guardarobiera in un night club e forse non è niente altro che una prostituta, ma per Bernie è soprattutto l’occasione di distrarsi, di vivere una storia che abbia qualcosa di umano per non pensare continuamente al suicidio.
Poi una vecchia conoscenza del passato, il generale delle SS Reinhard Heydrich, ora promosso governatore del Protettorato di Boemia e Moravia, lo chiama a Praga con la scusa di aver bisogno di una guardia del corpo, dopo una serie di recenti attentati alla sua vita. Il vero motivo è ben diverso e Bernie lo scoprirà, a caro prezzo, indagando sull’omicidio di un assistente di Heydrich.
Omaggio sicuramente a L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie, La notte di Praga è un romanzo interessante sia per la parte storica, la ricostruzione di un’epoca, che per la parte puramente investigativa e deduttiva. In fondo è anche una spy story classica, narrata con tinte noir e arricchita da un protagonista come Bernie Gunther difficilmente paragonabile al classico eroe positivo di tanta letteratura gialla.
E’ stato strumento di atti di pulizia etnica, e sebbene non condivida l’ideologia nazista, anzi ritenga tutti i nazisti, Hitler in testa, semplici criminali, e sfrontatamente dichiari la sua avversione al potere anche a rischio di ritorsioni, è pur tuttavia colpevole di aver ubbidito a ordini che tormentano la sua coscienza di poliziotto e di soldato. E proprio la sua coscienza lo rende un osservatore quasi imparziale dei meccanismi che regolano il potere nazista.
Sicuramente è difficile immaginare che un poliziotto potesse avere tutta l’autonomia e la sfrontatezza del personaggio creato da Kerr, immagino che nella realtà sarebbe finito ben presto accusato di alto tradimento e giustiziato, pur tuttavia è difficile non provare simpatia sia per questo personaggio che per Arianne Tauber, donna con cui vive una breve parentesi sentimentale e che si rivelerà ben diversa da come la immaginava.
Bernie Gunther resta comunque un buono, per quanto le condizioni lo rendano possibile, in un mondo dove il Male governa indisturbato.
Da recuperare i romanzi precedenti.
Philip Kerr, nato a Edimburgo, vive tra Wimbledon e la Cornovaglia. Dopo la laurea in Legge, ha cambiato completamente ambito e ha lavorato per anni come copywriter in alcune delle più importanti agenzie pubblicitarie inglesi. Ha all’attivo numerosi romanzi, i più famosi dei quali compongono la serie noir in cui compare il detective Bernie Gunther, indimenticabile protagonista de La notte di Praga. Autore bestseller in Gran Bretagna e in Francia, Philip Kerr è amatissimo tanto dal pubblico quanto dalla critica, che gli ha tributato numerosi riconoscimenti, tra cui l’Ellis Peters Historical Award.
Non capita tutti i giorni di leggere un thriller ben strutturato, ben condotto e che valga il prezzo sempre molto alto considerati i tempi di quasi venti euro. Il demone bianco è un thriller francese che soddisfa perfettamente l’appassionato (anche se è un lettore uomo e non una lettrice di Elle il cui giudizio trionfalistico viene ripetuto più volte nella cover come se fosse un libro di narrativa femminile). Siamo pur sempre nell’area coperta da Grangè, la Vargas e Thrillez ma l’approccio, il ritmo narrativo e diversi twist nella soluzione sono più che accattivanti. Già l’immagine del cavallo appeso tra le nevi all’estremità di una teleferica in un impianto nei Pirenei ha qualcosa di malsano, intrigante. Che poi nelle vicinanze ci sia quello che una volta veniva definito ‘manicomio criminale’ con l’equivalente svizzero del dottor Lecter, un apparente Mad Doctor e la sua assistente simil Ilsa confermano che ci troviamo in una storia di grande attrattiva. Servaz, poliziotto cittadino, pantofolaio, incasinato ma insofferente alla burocrazia, all’autorità e al potere costituito, comincia con la collega della gendarmeria Ziegler un’indagine che, malgrado le accuse dei superiori, un po’ prende sottogamba. Fa male perché quasi subito viene trovato il DNA del pazzo che pure sembra recluso senza speranza in fondo alla sua cella e due guardiani della centrale dopo una poco convincente testimonianza si dileguano. Intanto Diane Berg, psicologa amante del suo mentore e decisa a farsi strada da sola, arriva distaccata all’ospedale psichiatrico, accolta eufemisticamente con freddezza. Subito qualcosa la colpisce. Qualcosa di spaventoso. C’è del marcio in quella clinica. In tutta la valle, si direbbe perché pochi giorni dopo ecco un altro omicidio rituale. Questa volta tocca a un farmacista, componente di un gruppo di ‘amici da una vita’ di cui fan parte anche il sindaco e altri notabili. L’indagine assume connotati sinistri quando il sospetto tocca gli stessi poliziotti, i magistrati si mostrano stupidi e arroganti e compaio figure del passato. Soprattutto il folle omicida fornisce un indizio. La pista di un gruppo di giovani suicidi di molti anni prima conduce a una colonia, di quelle per ragazzi poveri. E Servaz comincia a guardare quelle valli, quelle montagne innevate con sempre maggior timore. Le sente echeggiare di antiche crudeltà, di crimini impuniti, di un odio cieco e irrefrenabile. La morte del cavallo è stata solo l’inizio e la storia procede rapidamente e piena di colpi di scena. Come dicevo un ottimo thriller, sebbene sia convinto che il genere abbia i suoi tempi e , dopo le 350 pagine, comincia a mostrare un po’ di stanchezza. Di sicuro un’ottima lettura e una lezione per molti che si cimentano nel genere senza averne comprese realmente le meccaniche. Io sono convinto che potremmo sfornare anche noi romanzi di questa qualità se gli autori ponessero un po’ più di attenzione alla confezione del prodotto rispetto al loro ego e gli editori non avessero la pretesa di volere dai nostri narratori opere simili a successi stranieri e, alla fine, promuovessero come si deve il prodotto nostrano. Strategia che avviene in Francia ma qui sembra completamente assente dalle logiche del marketing.
La svolta (The Reversal, 2010) di Michael Connelly, tradotto da Stefano Tettamanti e Giuliana Traverso ed edito da Piemme, è il terzo romanzo della serie Heller, dopo Avvocato di difesa (The Lincoln Lawyer, 2005) e La lista (The Brass Verdict, 2008), questa volta con la partecipazione anche di Harry Bosch e Rachel Walling in ruoli un po’ defilati ma essenziali per la risoluzione del caso. Con il personaggio di Mickey Haller lo scrittore di Filadelfia ha fatto ufficialmente il suo ingresso nel legal thriller, privilegiando una prospettiva anche critica nei riguardi del sistema legale americano, e del suo stretto legame con la strumentalizzazione dei mass media per influenzare l’opinione pubblica e di riflesso anche la giustizia, e questa senz’altro a mio avviso è la caratteristica più interessante di questa serie. La svolta è un legal thriller puro, la maggior parte dell’azione è svolta in tribunale, nell’ufficio del giudice, o nella preparazione del processo; chi ha amato Presunto innocente di Scott Turow, Anatomia di un omicidio di Robert Traver o i romanzi di John Grisham sicuramente troverà questa lettura interessante, ma se gli interrogatori e i controinterrogatori vi annoiano, il mio consiglio è che leggiate le serie più d’azione con protagonista Bosch o Jack McEvoy. Essenzialmente ne La svolta abbiamo a che fare con un cold case, – termine abbastanza conosciuto anche grazie una serie televisiva di successo- ovvero uno di quei casi non risolti che anche a distanza di molti anni possono venire dissepolti se per esempio si trovano nuove prove, anche grazie alle sempre più moderne tecniche di laboratorio. Ed è così che accade questa volta: l’analisi del DNA condotto sulle vesti della vittima sembra porre dubbi sulla colpevolezza di Jason Jessup, che già da più di vent’anni è in carcere accusato dell’omicidio di Melissa Landy, una ragazzina di 12 anni. Grazie anche all’intervento di un’associazione di legali conosciuta come Genetic Justice Progject e l’ostinazione di Jessup, sempre impegnato nella sua cella a compilare ricorsi, istanze, denunce, la Corte Suprema dello stato revoca la condanna, il caso viene riaperto e si inizia un nuovo processo che se stabilisse l’innocenza di Jessup implicherebbe un clamoroso danno di immagine per l’intero dipartimento della polizia di Los Angeles, il sistema giudiziario e finanche la necessità di sborsare un ingente risarcimento di milioni di dollari che la città e la contea dovrebbero corrispondergli per ingiusta detenzione. Proprio a causa di queste ripercussioni, anche politiche, e della delicatezza della situazione, dovuta anche al grande clamore mediatico, il procuratore della contea di Los Angeles, Gabriel Williams, decide di affidare l’accusa ad un pubblico ministero esterno al suo ufficio e chi meglio di Mickey Haller è la persona giusta per questo incarico? Heller, fermamente convinto della colpevolezza di Jessup, accetta di fare da pubblico ministero, lui da sempre avvocato della difesa, e chiama accanto a sé la ex moglie Maggie McPherson come vice-procuratore e il fratellastro Harry Bosch nel ruolo di detective. Da questo momento in poi Heller si occupa della preparazione del processo e dell’impegnativo scontro con l’avvocato difensore Clyve Royce, abile manovratore dell’opinione pubblica e dei media, e Bosch delle indagini sul campo. Jessup viene rilasciato e proprio il suo pedinamento porta Bosh a sospettare che ci sia sotto qualcosa di non risolto e l’intervento risolutivo Rachel Walling profiler dell’FBI chiarirà a tutti gli errori commessi nel primo processo e la minaccia che Jessup rappresenta anche per Bosch e Heller stessi. Solitamente in questo tipo di legal thriller il dubbio sulla colpevolezza del presunto colpevole viene giocato in modo più ricco di suspense, Connelly no, sceglie un approccio molto meno ad effetto: sia Heller, che Maggie, che soprattutto Bosch sono certi della sua colpevolezza e si adoperano per assicurarlo alla giustizia. Questa scelta rende le sfumature thriller molto meno marcate a favore invece di un’analisi più accurata del sistema legale in sé. Si trattano temi come la pena di morte, il dolore dei parenti delle vittime le cui ripercussioni possono condizionare le intere loro vite, ( bellissimo a mio avviso il personaggio di Sarah Ann Gleason), gli scrupoli morali degli avvocati, in lotta tra cinismo ed etica, i rapporti tra media e giustizia, il rischio che errori giudiziari possano rovinare la vita di innocenti. Connelly resta uno scrittore notevole, per stile e struttura narrativa, autore di alcuni dei più bei thriller che abbia mai letto; se paragono i primi a questi più recenti noto una diversa prospettiva di analisi, come Connelly stesso ammise ad una presentazione a cui partecipai. Connelly è cambiato e così lo sono i suoi libri e i suoi personaggi. Da lettrice vorrei più spazio per Jack McEvoy, ma nonostante questo Bosch resta un personaggio che amo ritrovare di libro in libro, invecchiato, amareggiato, sempre più desideroso di fare bene il padre. Le sue priorità sono cambiate proprio come per Connelly, presumo.

Tra gli scrittori di thriller nordici merita un discorso a parte Jo Nesbø, norvegese, nato ad Oslo nel 1960, musicista rock, giornalista, molto amato da Michael Connelly, conosciuto in tutto il mondo per la serie del commissario Harry Hole.
Diciamolo subito La lista (The Brass Verdict) edito da Piemme non è una nuova avventura del detective della polizia di Los Angeles, Hieronymus ‘Harry’ Bosch, personaggio fondamentale della produzione letteraria di Michael Connelly. Bosch compare sì, più che altro per una sorta di passaggio di testimone verso il vero protagonista l’avvocato difensore Mickey Haller, entrato in scena per la prima volta nel precedente romanzo Avvocato di difesa (The Lincoln Lawyer) e destinato ad occupare un posto di rilievo nella futura produzione di Connelly. Lo so questo lascerà l’amaro in bocca a molti, ma se si supererà la delusione iniziale Connelly è sempre Connelly e il passaggio tra un police procedural e un legal thriller non è poi così drammatico.























