Dopo Mr Mercedes e chi Perde paga, chiude la trilogia Fine turno, (End of Watch, 2016) edito in Italia sempre da Sperling e Kupfer e tradotto da Giovanni Arduino, con una dedica niente di meno che a Thomas Harris. Piuttosto impegnativa direte voi? Concordo e rilancio soffermandomi sulle ragioni che hanno spinto il Re a giocare coi generi e tentare qualcosa che inevitabilmente scontenterà alcuni e deluderà altri: unire l’ hardboiled classico all’ horror (certo molto sfumato, ma presente). Insomma non un gioco da ragazzi. Però c’ era da aspettarselo che Stephen King ci avrebbe provato, è da lui, rientra appieno nella sua “poetica”, nella sua costante evoluzione personale, prima che artistica. Fine turno chiude un cerchio, dà compimento a una storia che poteva avere due derive: una prettamente razionale, riportando tutto ciò di apparentemente soprannaturale a una spiegazione, certa e scientifica; l’altra di stampo nettamente contrario dando alla fantasia campo libero, lasciando il soprannaturale prevalere a costo di deludere chi in un hardboiled vuole i duri fatti della vita, narrati senza ornamenti superflui o trucchi. Dunque che fa King? Prende questi due opposti e ci gioca, lasciando aperta l’eventualità che la tecnologia raggiunga e ottenga cose che apparentemente la ragione ci dice siano impossibili. Il potere della mente è ancora inesplorato, il potenziale che davvero racchiude ancora un mistero, venato dalla consapevolezza che ne usiamo solo una parte, sia nel bene che nel male. Quindi un cattivo come Brady Hartsfield una certa inquietudine la crea per i fenomeni di telecinesi che scatena, la sorta di invasione nelle psichi altrui, la sua capacità manipolativa, ampliata (forse) da medicine sperimentali date a lui come cavia non sappiamo quanto inconsapevole. Ho visto di recente un film Limitless, a sua volta tratto da un romanzo, Territori oscuri, dello scrittore irlandese Alan Glynn, e sicuramente chi li conosce sa di cosa parlo, quando mi accosto alle suggestioni fantasiose di sostanze che alterano i normali processi celebrali ampliandoli o distruggendoli. E ammettiamolo la materia affascina e spaventa, più degli omicidi mascherati da suicidi di cui il romanzo abbonda. Per non parlare degli Zappit, console portatili, porte del male, veicolo di messaggi subliminali letali, sotto le innocue apparenze di giochini elettronici. E il fatto che molti giovani e adolescenti (ma anche adulti) siano schiavi di smartphone, telefonini, tablet e quant’altro, non è fantascienza e quasi King sembra metterci in guardia. A modo suo, con le sue tortuose spire. Nelle note finali ci piazza anche il numero da chiamare per la prevenzione del suicidio, male reale, causa di innumerevoli morti ogni anno, e non solo mero pretesto per trovare materiale per un libro di paura. Come la malattia di cui soffre il protagonista, un’altra piaga inguaribile della nostra società, sempre più evoluta, sempre più tecnologica. Cioè ragioni per cui questo libro ci faccia realmente paura ci sono e esulano dalla bravura di King nel creare quell’atmosfera, quel particolare stato d’animo nel lettore di cui è maestro. Il nostro eroe Bill Hodges, e la sua fida assistente e socia Holly Gibney, (interessante personaggio femminile affatto scontato), insomma lottano contro forze soverchianti, contro un nemico che a rigor di logica dovrebbe vincere, anzi stravincere e spazzarli via. Più il nemico è potente, e più il valore dei buoni spicca e brilla di luce propria, sembra dirci King, e infondo come possiamo dargli torto? Malinconico il finale, ma infondo non poteva essere diverso, senza volere prevedere risurrezioni da soap televisiva. Una porta chiusa a doppia mandata. Non il classico lieto fine, ma qualcosa che ci va molto vicino.
Stephen King, il maestro dell’horror è nato a Portland, nel Maine, nel settembre del 1947. Il padre, ex capitano della Marina Mercantile durante la Seconda Guerra Mondiale, scompare due anni dopo la nascita di Stephen, e la famiglia King, è costretta, per il lavoro della madre, a spostarsi tra Maine, Massachusetts, Wisconsin, Indiana, Illinois e Connecticut.
Oltre all’abbandono del padre, l’infanzia di King è segnata da un altro evento tragico: a soli quattro anni, assiste alla morte dell’amico, travolto da un treno mentre i due giocano sulle rotaie. Il piccolo Stephen torna a casa sconvolto ma senza ricordare nulla.
A partire dai primi anni delle elementari inizia a leggere da solo tutto ciò che gli capita tra le mani; è di questo periodo anche il suo primo racconto. Anni dopo trova nella soffitta della zia i libri del padre, amante dei racconti di Edgar Allan Poe, H.P. Lovercraft e Richard Matheson. Nel 1962 comincia a frequentare la Lisbon Falls High School e poco dopo viene contattato per lavorare al Lisbon Enterprise, settimanale di Lisbon.
Studia letteratura presso l’Università del Maine, dove tiene una rubrica sul giornale universitario. Per pagarsi gli studi, King lavora e vende alcuni suoi racconti. Nell’estate del 1969 conosce Tabitha Jane Spruce, giovane poetessa e laureanda in storia che diventerà sua moglie due anni più tardi. Conseguita la laurea, comincia ad insegnare lettere in una scuola superiore.
Il successo, e la prima vera pubblicazione, arriva con Carrie nel 1974, che supera il milione di copie vendute. Le notti di Salem (1975) e Shining (1977) riscuotono ancora più successo, con i rispettivi tre milioni e quattro milioni di copie vendute. Nel 1970 nasce la figlia Naomi Rachel e due anni dopo il figlio Joseph Hillstrom.
Due eventi tragici colpiscono lo scrittore negli anni a seguire: lo scrittore comincia ad avere seri problemi di dipendenza da alcol e droga, da cui uscirà solo dopo un processo di disintossicazione durato più di un anno. Nell’estate del 1999, inoltre, durante una passeggiata King viene travolto da un’auto subendo pesanti traumi. Sottoposto a numerosi interventi, ci vorranno mesi prima che King si riprenda totalmente.
Nell’arco della sua carriera, Stephen King ha venduto oltre 500 milioni di copie e dai suoi libri sono state tratte oltre 40 pellicole cinematografiche.
Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Marina dell’Ufficio Stampa Sperling & Kupfer.
Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

Il ragazzo senza storia (The Galton Case, 1959) di Ross Macdonald, traduzione di Giovanni Viganò, è l’ ottavo libro della serie dedicata all’investigatore privato Lew Archer, personaggio che compare in altri diciassette romanzi e nella raccolta di racconti Il mio nome è Archer (The Name is Archer, 1955) pubblicata nel 1978 nella collana Oscar del Giallo Mondadori con il numero 29 e tradotta da Lia Volpatti.
“Vuoi dire che sono stati loro a ucciderlo?” chiese Amanda sbigottita.
James Hadley Chase, scrittore britannico di hard boiled molto americani, è senz’altro un nome che non lascerà indifferenti i lettori appassionati del genere. Di libri il buon James ne ha scritti davvero tanti, quasi tutti pubblicati in Italia grazie al Giallo Mondadori, come The Flesh of the Orchid pubblicato per la prima volta in Italia con il titolo La carne dell’orchidea nel 1966 per I Neri Mondadori e ora riproposto dalla Polillo –The crime collection I Mastini- con il titolo Il sangue dell’orchidea, tradotto da Giovanni Viganò. E’ difficile che gli appassionati non l’abbiano già letto o visto nella trasposizione cinematografica di Patrice Chereau, con protagonista una luminosa Charlotte Rampling, ma a chi fosse sfuggito è un’occasione davvero da non perdere per recuperarlo in una traduzione riveduta e corretta.


Il passato si sconta sempre, The Far side of the dollar, vincitore nel 1965 del Gold Dagger Award, e ora edito da Polillo Editore in una versione riveduta e corretta tradotta da Giovanni Viganò, è sicuramente per gli amanti dell’ hardboiled classico uno di quei libri imperdibili che hanno fatto la storia del genere. Macdonald, in un certo senso l’erede e il continuatore di due mostri sacri come Chandler e Hammett, ha eletto la California degli anni 50 e 60 a terreno privilegiato dove mettere in scena i vizi e le poche virtù di una società irrimediabilmente corrotta, minata dalle fondamenta, (non a caso l’impietosa analisi dei legami famigliari è sempre al centro delle sue strutture narrative). Lew Archer, personaggio cardine delle sue storie, investigatore privato che prende ancora molto sul serio parole antiquate come etica e morale, è senza dubbio il perfetto termine di paragone che permette a Macdonald di utilizzare il romanzo poliziesco come una leva per portare alla luce il male e la violenza alla base della ricchezza e del cinismo di una società malata, intrisa di peccati e di crimini piccoli e grandi che vanno dalla semplice avidità all’omicidio più spietato. Macdonald ben lungi dal fare del facile moralismo o della psicologia da quattro soldi, analizza la realtà così com’è senza alcuna ipocrisia e scava nelle anime dei suoi personaggi riportando in superficie le radici contaminate del crimine, evitando le trappole dei luoghi comuni e del conformismo. Il passato si sconta sempre in un certo senso racchiude in sé tutte le caratteristiche che hanno fatto grande Macdonald ed è considerato da molti critici uno dei migliori romanzi della sua produzione. La trama è scarna, lineare. Un giovane di famiglia molto ricca, che è stato messo in un collegio molto rigido, fugge e subito dopo il padre milionario riceve una richiesta di riscatto. Lew Archer viene così incaricato dal direttore del collegio di indagare e ritrovare il ragazzo. Scopre che è stato visto in compagnia di una donna parecchio più vecchia di lui, mentre il padre mette insieme i soldi del riscatto e va a consegnarli nel luogo stabilito. Archer nel ricercare la donna misteriosa la trova in un motel, morta. Sembra che il marito della donna abituato a picchiarla questa volta l’abbia pestata a morte. Archer viene trovato svenuto dalla Polizia nel luogo dell’omicidio e portato in carcere. Poi viene ucciso anche il marito ed alla fine si dipana la vicenda fino al colpo di scena finale in cui un segreto di famiglia spiega tutta la vicenda. La prosa stringata e essenziale di Macdonald rende la storia avvincente dalla prima all’ultima pagina. Davvero uno di quei libri che si leggono e si chiudono con una sorta di nostalgia che ti spingerà al più presto a riprenderli in mano. Azzardare una superiorità di Macdonald rispetto a Chandler e Hammett, come alcuni critici anche autorevoli hanno fatto mi sembra un po’ azzardato, ma quello che è certo è che Ross Macdonald ha sicuramente dato profondità a spessore al genere, dopo di lui infatti l’ hardboiled non è stato più lo stesso.























