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:: Quaranta segni di pioggia di Kim Stanely Robinson (Fanucci 2025) a cura di Patrizia Debicke

6 novembre 2025

Fa caldo a Washington. Un calore quasi insopportabile, greve, stagnante e che sembra annunciare la tempesta. Il cielo resta immobile, nessuna nuvola in vista. Gli split dell’aria condizionata, circondati da  gente sudata, stentano a fare il loro lavoro.  
Questa è la realistica immagine iniziale di Quaranta segni di pioggia di Kim Stanley Robinson (Fanucci Editore), romanzo che suona come un monito per un’umanità cieca, intrappolata nella propria presunzione di dominio sulla natura.
Washington D.C. diventerà il cuore pulsante di un mondo prossimo al collasso, una capitale in cui la miopia dei governanti si è trasformata in simbolo dell’inerzia globale. Là si muovono i protagonisti, piccoli ingranaggi di un arrugginito meccanismo politico: Charlie Quibler, consulente per le politiche ambientali di un senatore illuminato ma impotente, e sua moglie Anna, brillante scienziata della National Science Foundation. Entrambi, in modi diversi, cercando di dare un senso a un futuro che pare volersi sfaldare sotto i loro occhi.
Charlie combatte contro il disinteresse dei potenti, costretto a tradurre in linguaggio politico l’urgenza scientifica del disastro climatico. Sente che la catastrofe non è più una minaccia lontana ma una realtà che avanza a passi misurabili: anno dopo anno il ghiaccio artico si ritira, le stagioni si deformano, i confini tra normalità e caos si assottigliano. Tuttavia, nei corridoi del potere prevale la riluttanza, l’incapacità di comprendere ciò che la scienza ripete da decenni. La politica, dominata da calcoli elettorali e interessi economici, preferisce rimandare, fingendo che la Terra possa attendere. Anna, dal canto suo, rappresenta la razionalità lucida della ricerca. Analizza, propone, tenta di orientare il sapere verso una tecnologia capace di invertire il processo, ma ogni passo avanti genera una nuova contesa. Nella competizione feroce per il controllo delle innovazioni, la scienza stessa diventa preda del mercato. E mentre la politica resta paralizzata, il sapere si piega al profitto. Accanto a loro, figure come Frank Vanderwal, biologo, idealista e inquieto, ampliano il quadro di una società che non sa più ascoltare i propri studiosi.  Scienziati che conducono ricerche sulla biotecnologia, assistono membri del governo o svolgono mansioni amministrative presso la National Science Foundation (NSF) degli Stati Uniti. Unica apparente diversità l’arrivo a Washington dei Khembalis, dotti monaci buddisti che lavorano per l’ambasciata dell’immaginaria isola di Khembalung, quasi sommersa dalla risalita delle acque dell’oceano.
Mentre questi eroi ordinari e straordinari lottano per trovare una soluzione, il destino sta per dare una svolta al loro lavoro, portandoli inevitabilmente nell’occhio del ciclone. E quando la natura si ribella, l’illusione del controllo umano si dissolve. Le tempeste devastano la costa occidentale, il mare inghiotte la California, e la capitale americana pare affondare sotto una pioggia interminabile. Constitution Avenue diventa una laguna, il Lincoln Memorial un simbolo d’impotenza. È la silenziosa ma terribile vendetta di un pianeta stanco e umiliato.
Robinson costruisce un romanzo corale e intenso, in cui la tensione non nasce dall’azione ma dalla consapevolezza. Il vero conflitto è morale e intellettuale: la scienza chiede ascolto, la politica risponde con il silenzio. La prosa, rigorosa e realistica, restituisce l’asfissiante atmosfera di un mondo sull’orlo della rovina, in cui ogni personaggio rappresenta una sfumatura del nostro smarrimento. Non ci sono eroi, solo esseri umani alle prese con la complessità del proprio tempo, incapaci di ammettere che il cambiamento è già iniziato.
Quaranta segni di pioggia è molto più di un romanzo di fantascientifica interpretazione distopica di un prossimo possibile futuro: è una parabola sul potere, sulla responsabilità e sull’arroganza della specie umana. L’autore non concede sconti né scorciatoie emotive. Mostra una Washington immobile, popolata da burocrati, scienziati e senatori che oscillano tra l’indifferenza e la paura, incapaci di agire finché l’acqua non invade le strade. Robinson invita a guardare sotto la superficie, a capire che la vera minaccia non è la furia della natura ma la nostra cecità. Con il ritmo misurato della riflessione e la precisione di un saggio travestito da romanzo, l’autore disegna un affresco inquietante del presente.
Quaranta segni di pioggia probabilmente è il più intelligente romanzo catastrofico che avrete l’occasione di leggere… Il vero protagonista è la scienza. Robinson, uno dei più visionari scrittori di fantascienza americani, bravo e preparato nello spiegare le  sfaccettature della natura, dimostra tuttavia come quest’umana dottrina  un tempo rispettata sia costretta a inchinarsi al capitalismo. Insomma il suo pare l’ultimo invito a tirare fuori la testa dalla sabbia e affrontare la minaccia del cambiamento climatico.
La temuta catastrofe non è più una possibilità: è già qui, e ci coglie di sorpresa mentre discutiamo, ancora convinti di poterla controllare.

Kim Stanley Robinson è nato nel 1952 in Illinois e si è laureato in letteratura inglese con una tesi su Philip K. Dick. Appassionato di alpinismo, vive a Davis, in California. I suoi romanzi sono stati insigniti di prestigiosi riconoscimenti, tra cui il premio Nebula, il premio John Wood Campbell Memorial e il World Fantasy. Di questo autore Fanucci Editore ha pubblicato il romanzo New York 2140 e la serie della Trilogia di Marte, capolavoro della letteratura di fantascienza, composta dai romanzi Il rosso di Marte, Il verde di Marte e Il blu di Marte.

:: Tiro di sponda di Donald E. Westlake (Fanucci, 2025) a cura di Valerio Calzolaio

28 febbraio 2025

IMPEDIBILE. New York. Inizio anni Settanta. Dopo una ventina di premiati romanzi hard-boiled noir con vari pseudonimi o con il proprio nome, l’immenso Donald Edwin Edmund Westlake (1933 – 2008) firma “Tiro di sponda”, secondo della serie degli “ineffabili cinque”, principale protagonista il mesto geniale pessimista ladro John Archibald Dortmunder, alto, spalle curve, capelli diradati e senza vita, volto da cane bastonato; poco fortunato e capace raramente di sorridere, anche con la solerte fidanzata May. Lo troveremo complessivamente in 14 romanzi e 11 racconti pubblicati fino al 2009, qui ancora insieme ai competenti pressapochisti amici e colleghi Kelp (furti d’auto) e Murch (madre tassista, indispensabile se si vuole fuggire nella Mela), che tornano, Victor ed Herman X, che s’aggiungono. Il titolo fa riferimento a quella preziosa vecchia banca trasferitasi temporaneamente su una casa mobile, potremmo provare a portarcela via tutt’intera, chissà, il piano è perfetto, come al solito.

:: Vita di un ragazzo di Robert McCammon (Fanucci 2023) a cura di Emilio Patavini

16 gennaio 2024

Pubblicato a settembre per Fanucci, Vita di un ragazzo (A Boy’s Life) è l’ultimo titolo uscito in Italia dello scrittore statunitense Robert R. McCammon, autore di Baal, Hanno sete e Il canto di Swan e altri bestseller dell’orrore. Il romanzo, pubblicato negli Stati Uniti nel 1991, si è aggiudicato premi prestigiosi come il World Fantasy Award e il Bram Stoker Award per il miglior romanzo. Dopo essere approdato in Italia nel 1992 con il titolo Il ventre del lago, è stato recentemente ritradotto per Fanucci da Francesco Vitellini.

Il romanzo è ambientato nel 1964 a Zephyr, cittadina fittizia dell’Alabama, lo stato radicato nel profondo sud degli Stati Unitiin una zona nota come Bible belt. La storia è raccontata in prima persona dal dodicenne Cory Mackenson, la cui vita cambia per sempre quando una mattina di primavera decide di accompagnare il padre durante il suo turno di consegna del latte prima di andare a scuola e vede una macchina sfrecciare davanti al loro furgone e precipitare nelle profondità del lago Saxon. Il padre di Cory, Tom, si getta prontamente in acqua per tentare di salvare il conducente, ma al suo posto trova il cadavere di un uomo ammanettato al volante, con un filo di rame attorno al collo e con tutti i segni di un evidente pestaggio. Le autorità, tuttavia, non riescono a risalire alla sua identità, e il mistero dell’uomo in fondo al lago continua a tormentare il sonno di Tom Mackenson e ad attirare la curiosità di Cory, che nel corso delle oltre cinquecento pagine del romanzo si ritrova così a ricomporre i pezzi di un complesso puzzle fino a un epilogo ad alta tensione. Ma questo mistero fa da sfondo a una quantità impressionante di avventure e sottotrame tragicomiche ambientate nella cittadina di Zephyr che presentano al lettore una varietà di personaggi che includono un predicatore invasato che si scaglia contro le diaboliche canzoni dei Beach Boys, il figlio dell’uomo più ricco di Zephyr che gira abitualmente nudo per la città, un anziano signore che si rivela un infallibile pistolero di nome Caramella Kid, un’arzilla centoseienne di colore nota come la Signora dotata di poteri medianici e persino un gruppo di membri del Ku Klux Klan. Le moltissime vicende raccontate potrebbero sembrare a tutta prima spezzoni slegati gli uni dagli altri, ma in realtà si armonizzano perfettamente. McCammon è un ottimo narratore, non c’è che dire. Il suo stile è scorrevole, sa essere al tempo stesso commovente e divertente, sa miscelare mistero e tensione narrativa.

Alcuni lettori hanno paragonato questo romanzo a It (1986) di Stephen King, ma a me ha ricordato maggiormente Ghost Story (1979) di Peter Straub, anche se non mancano momenti alla Bradbury, come l’atmosfera evocata dall’arrivo del circo o la malinconia di un’estate passata. Benché McCammon sia ricordato perlopiù come autore horror, Vita di un ragazzo è un thriller in cui la suspense è sapientemente costruita soprattutto a partire dalla seconda metà del romanzo, in cui la tensione comincia a crescere. Ma nel romanzo sono presenti numerosi echi di realismo magico, che non vengono presentati come episodi soprannaturali, ma come elementi – talvolta disturbanti – sospesi tra il mondo reale e quello della magia. D’altronde, come scrive il narratore nel Prologo, Zephyr è un «luogo magico» (p. 11), in cui può succedere che un nostro desiderio possa riportare in vita un amico fedele con conseguenze inquietanti (come nel celebre capolavoro del macabro La zampa di scimmia di W.W. Jacobs), che le strade siano percorse da automobili fantasma o che le acque del fiume Tecumseh ospitino davvero il Vecchio Mosè, una creatura che sembra vivere solo nella leggenda. McCammon potrebbe aver attinto alla prolifica tradizione del Souther Gothic per infondere tutti questi elementi preternaturali alla sua narrazione, ma quello che emerge con molta chiarezza è che il male vero non ha questa origine, non è una minaccia oltremondana giunta da un’altra dimensione, ma è opera dell’uomo, frutto del suo odio e della sua sete di sopraffazione.

Vita di un ragazzo è un romanzo che parla di amicizia e di crescita, ma anche del senso di perdita, di bullismo, razzismo e fanatismo religioso. Sono gli anni della guerra fredda, del Vietnam, della segregazione razziale e delle lotte per i diritti civili, gli anni dell’assassinio di Kennedy e dell’avvento del consumismo, gli anni dell’uscita de Il buio oltre la siepe (1960), romanzo che valse il Premio Pulitzer a una scrittrice dell’Alabama di nome Harper Lee. Tutti questi elementi di contesto storico e sociale vengono toccati dalla narrazione, ma sono filtrati attraverso il punto di vista di un ragazzo, Cory Mackenson, che è indubbiamente un alter ego dell’autore. Nato nel 1952 in Alabama (proprio come McCammon), Cory è un aspirante scrittore che si diletta a scrivere di mostri, cowboy e detective, legge legge la rivista Famous Monsters of Filmland di Forrest J. Ackermann e ama il cinema, tanto da tappezzare la propria camera di ritagli dei suoi idoli:

«A fissarmi c’erano il Fantasma dell’Opera di Lon Chaney, il Dracula di Bela Lugosi, il Frankenstein e la Mummia di Boris Karloff. Il mio letto era circondato da scene lunatiche in bianco e nero tratte da Metropolis, Il fantasma del castello, Freaks, The Black Cat e La casa dei fantasmi. La porta del mio armadio era un collage di bestie: l’Ymir di Ray Harryhausen che combatte contro un elefante, il ragno mostruoso che si avvicina furtivamente al protagonista di Radiazioni BX: distruzione uomo, Gorgo che attraversa il Tamigi, l’Uomo Colossale dal volto coperto di cicatrici, la coriacea Creatura della Laguna Nera e Rodan in pieno volo. Avevo un posto speciale sopra la mia scrivania, un posto d’onore, se volete, per il soave e bianco Roderick Usher di Vincent Price e il magro e assetato Dracula di Christopher Lee» (p. 182)

Source: inviato dall’editore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa Fanucci.

:: Il codice di Dean R. Koontz (Fanucci 2022) a cura di Emilio Patavini

5 aprile 2022

È da poco uscito per Fanucci Il codice di Dean R. Koontz, nella traduzione di Annarita Guarnieri. Il romanzo (titolo originale: Elsewhere), è stato pubblicato per la prima volta nel 2020, ma nel frattempo Koontz ha scritto due romanzi, mentre altri due sono già pronti per essere pubblicati. Autore di successo con all’attivo più di 120 titoli e oltre 450 milioni di copie vendute, Dean R. Koontz, è nato in Pennsylvania nel 1945, e attualmente vive in California. Ha scritto numerosi thriller, horror e romanzi di fantascienza (pubblicati da Urania ed Editrice Nord), e viene spesso accostato a Stephen King. Le analogie non si fermano al genere di romanzi che scrivono o al fatto di essere scrittori bestseller (anche se inaspettatamente King ha venduto e scritto meno di Koontz): entrambi sono stati insegnanti di inglese prima di dedicarsi alla scrittura e le loro opere sono state adattate per il grande schermo.

Il codice, diciamolo, non parte da premesse particolarmente originali: un senzatetto, noto come Ed l’Inquietante, affida a Jeffy Coltrane una scatola apparentemente innocua, ricercata dagli agenti federali poiché contiene nientemeno che la “chiave di tutto”. Jeffy Coltrane vive in California, ed è l’unico a prendersi cura della figlia undicenne Amity da quando sua moglie Michelle è misteriosamente scomparsa sette anni prima. Ed gli raccomanda di nascondere la chiave di tutto e soprattutto di non usarla per nessuna ragione. Le cose si complicano quando Jeffy e Amity scoprono che la chiave di tutto dà accesso a infiniti mondi paralleli, e qui iniziano le loro disavventure. Il what if alla base del libro è: “Cosa accadrebbe se i due avessero la possibilità di trovare un mondo parallelo in cui Michelle è ancora viva?”

I mondi paralleli sono intesi da Koontz come linee temporali alternative, in cui il destino della Terra ha subito un corso differente da quello che conosciamo. Nel libro si cita Hugh Everett III, fisico dell’Università di Princeton, noto per la sua “interpretazione a molti mondi” della meccanica quantistica proposta nel 1957, secondo cui ogni evento della realtà produce infinite diramazioni dell’universo. La teoria del multiverso è stata anche l’oggetto dell’ultimo articolo scientifico di Stephen Hawking, completato pochi giorni prima della sua morte e pubblicato nel 2018 sul Journal of High Energy Physics.

Dean Koontz è un maestro della suspense. Il codice è un romanzo che intrattiene senza particolari pretese o aspirazioni, e può contare su uno stile scorrevole e una narrazione serrata e avvincente. Difficile categorizzarlo in un solo genere: è anzitutto una storia basata su spunti speculativi come il multiverso e le infinite realtà alternative della Terra; è anche un thriller, per chi ama le storie avventurose, ricche di tensione e azione; ma nei mondi che Jeffy e Amity visitano sono presenti anche scorci di mondi distopici e orrifici a metà tra 1984 e L’isola del dottor Moreau. Numerosi sono i riferimenti al fantasy disseminati in tutto il libro: da Tolkien a La principessa sposa di William Goldman.

Dean R. Koontz, classe 1945, è autore di thriller di successo e bestseller di fama internazionale. Nato e cresciuto in Pennsylvania, attualmente vive in California insieme a sua moglie e due cani. Per tanti anni è stato insegnante di inglese in una scuola superiore, prima di dedicarsi alla scrittura pubblicando nel 1968 il suo primo romanzo: Jumbo-10. Il Rinnegato. Con più di 120 titoli all’attivo e oltre 500 milioni di copie vendute, Dean Koontz è considerato uno dei maestri del genere thriller.

Source: inviato dall’editore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Fanucci Editore.

:: L’ombra degli dei di John Gwynne (Fanucci 2022) Recensione a cura di Emilio Patavini

19 febbraio 2022

«Vígríðr si chiama il campo
dove si daranno battaglia
Surtr e gli dei benigni.
Cento miglia
si stende d’ogni parte;
quello è il campo loro destinato»

(Edda poetica, Vaftþrúðnismál 18; traduzione dal norreno di Gianna Chiesa Isnardi)

Un anno fa è uscito nel Regno Unito l’ultimo romanzo di John Gwynne, The Shadow of the Gods, primo capitolo della Saga dei Fratelli di sangue, cui presto si aggiungerà il secondo volume, The Hunger of the Gods, in uscita il 14 aprile 2022 per Orbit Books. Così, quando il 27 gennaio Fanucci Editore ha portato in Italia la traduzione, a opera di Francesco Vitellini, di questo romanzo fantasy ispirato alla mitologia nordica non ho potuto fare a meno di leggerlo.

Immaginate un’ambientazione post-Ragnarök, in cui gli dei sono morti ma i loro resti e la loro progenie continuano a influenzare la vita degli uomini sotto forma di magia. Immaginate due continenti, un po’ come Westeros ed Essos nei romanzi di G.R.R. Martin: Vigrið, a nord, che prende il nome dalla Piana della Battaglia in cui gli dei persero la vita secondo il mito norreno, e Iskidan a sud, creato su modello di un impero orientale. La storia è ambientata nel continente di Vigrið, una terra del ghiaccio e del fuoco (che deve qualcosa all’Islanda e ai suoi fiordi), in cui si consuma la lotta per il potere di re, regine e jarl. La narrazione si snoda su tre fili narrativi, seguendo le vicende di altrettanti personaggi: Orka, una proprietaria terriera dall’oscuro passato; Varg, uno schiavo che vorrebbe entrare a far parte dei Fratelli di Sangue; e infine Elvar, la figlia di uno jarl che si è unita alla compagnia degli Sterminatori per guadagnarsi fama in battaglia.

Quelli descritti da Gwynne sono personaggi vividi, ben caratterizzati, con le loro ombre e i loro segreti, spietati come il mondo in cui vivono. Superata la prima parte, in cui il lettore deve prendere confidenza con i personaggi e l’ambientazione, la storia diventa via via più dinamica, ricca di azione, le scene si fanno più movimentate grazie ai continui colpi di scena, per arrivare a un finale che è un crescendo di epicità e rivelazioni. Lo stile è evocativo e scorrevole: un ottimo esempio di show, don’t tell.

Il romanzo fonde un world-building di ispirazione nordica (l’autore è un re-enactor vichingo, perciò le armi, il vestiario, le armature, le tecniche di combattimento sono molto approfondite), con il folklore scandinavo (vaesen, tennúr, näcken, troll diverranno figure familiari per il lettore), attingendo a piene mani da fonti come il Beowulf e l’Edda. Come scrive l’autore nei Ringraziamenti: «Nella sua essenza, questo libro è ispirato sia a Beowulf che al Ragnarök, la battaglia della fine dei tempi in cui caddero gli dei e il mondo fu rinnovato» (p. 458). Infatti, sono presenti numerosi riferimenti alla mitologia norrena e al grande poema epico anglosassone. Gwynne non si è limitato a riciclare i miti nordici e a riproporli nella forma in cui li conosciamo: non compaiono Odino, Loki e Thor ma divinità di sua invenzione. L’autore ha reinterpretato i miti in un modo molto originale, ha recuperato gli archetipi e li ha impiegati per la creazione di propri miti, per inventare la propria epica. Di conseguenza, il suo word-building risulta coerente e credibile, con un passato mitico sullo sfondo. Secondo la sua mitologia, nel Guðfalla, la Caduta degli Dei (=Ragnarök), tutte le divinità persero la vita in uno scontro mortale: a capo del pantheon creato da Gwynne c’è Snaka (sorta di Jörmungandr), il dio serpente e padre degli dei; altre divinità sono Ulfrir, il dio lupo incatenato (=il lupo Fenrir) e Lik-Rifa, la dea drago imprigionata sotto il frassino Oskutreð (=Yggdrasill), di cui rosicchia le radici (come il drago Níðhöggr). Inoltre, dai miti scandinavi sono riprese le figure del berserkir (guerriero ricoperto di pelli d’orso), degli úlfheðnar (guerrieri ricoperti di pelli di lupo) e i riferimenti alla pratica magica del seiðr. Nel romanzo, inoltre, compaiono alcune frasi in norreno, che viene chiamato «lingua antica» o lingua Galdur, cioè la lingua degli incantesimi. Al Beowulf, invece, può essere fatto risalire il nome del figlio di Orka, Breca, nome del rivale di Beowulf in una famosa gara di nuoto. La terminologia norrena contribuisce ad arricchire l’ambientazione, rendendola ancora più credibile, tanto che in alcuni punti (soprattutto all’inizio) si ha quasi la sensazione di leggere un romanzo storico ambientato all’epoca dei vichinghi e non un fantasy. Ma come in ogni saga nordica che si rispetti ci sono i mostri, come troll con tanto di corna e zanne e una viscida creatura simile a Gollum che vive in una caverna subacquea.

In questo mondo sul baratro dell’oscurità, non solo gli dei sono morti, ma sono odiati e viene data la caccia ai loro discendenti, i Corrotti, nelle cui vene scorre sangue divino. L’Ombra degli dei può essere definito come un fantasy alla G.R.R. Martin con tinte dark fantasy, epiche scene di combattimento e la presenza del folklore scandinavo e della caccia ai mostri, come nella saga letteraria di The Witcher di Andrzej Sapkowski. Quello raccontato da John Gwynne è un «mondo oscuro e le azioni oscure lo governano» (p. 141), un mondo fatto di muri di scudi, di sale dell’idromele, di sangue e vendette. I tre fili narrativi sono accomunati da un senso di rivalsa e di riscatto, in un tempo in cui l’inverno sembra arrivare e le forze del male ridestarsi. Un romanzo che rievoca atmosfere dense di immaginazione e inventiva. Salite a bordo di un drakkar e lasciatevi trasportare a Vigrið, una terra in cui la leggenda diventa realtà.

John Gwynne è nato a Singapore e in seguito ha viaggiato molto. Attualmente vive con la moglie e i quattro figli nell’East Sussex. Autore della serie bestseller La fede e l’inganno, composta dai romanzi Malice – La guerra degli dèi, con cui si è aggiudicato il David Gemmell Morningstar Award per la categoria “Miglior fantasy”; Valour – L’astro splendente; Ruin – La lancia di Skald e Wrath – Nuove alleanze. È autore anche della trilogia Di sangue e ossa, che si compone dei romanzi Venti di guerra, Tempo di sangue e Tempo del coraggio.

Source: inviato dall’editore al recensore. Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Fanucci Editore.

:: Il grande dio Pan di Arthur Machen (Fanucci 2021) a cura di Emilio Patavini

1 settembre 2021

Scritto nel 1890, The Great God Pan è il grande e perturbante capolavoro di Arthur Machen, che unisce il folk horror celtico alla pseudoscienza occultista. Fu dato alle stampe nel 1894, lo stesso anno in cui il Premio Nobel Knut Hamsun pubblicò il suo romanzo più famoso, chiamato per l’appunto Pan.

Non posso esimermi dal presentare questo romanzo breve o racconto lungo dello scrittore gallese a partire dalle parole di un suo epigono, che di orrore se ne intendeva. Sto parlando di H.P. Lovecraft, e le parole che sto per citare sono tratte dal decimo capitolo (The Modern Masters) del suo saggio Supernatural Horror in Literature (“L’orrore soprannaturale nella letteratura”):

«Tra i creatori viventi di paura cosmica, assurti all’apice dell’arte, pochi, o forse nessuno, possono sperare di eguagliare il versatile Arthur Machen. […] Delle storie dell’orrore del signor Machen, la più famosa è forse “Il grande dio Pan” (1894), che racconta di un singolare e terribile esperimento e delle sue conseguenze. […] Tutto questo mistero è stranamente intrecciato alle divinità rurali romane del posto, come erano raffigurate negli antichi frammenti scultorei. […] Ma il fascino della storia sta in come è raccontata. Nessuno riuscirebbe a descrivere l’intera suspense e l’orrore finale di cui abbonda ogni paragrafo senza seguire un ordine preciso in cui il signor Machen disvela a poco a poco i suoi indizi e le sue rivelazioni […] e il lettore attento giunge alla fine solo con un brivido di apprezzamento e una propensione a ripetere le parole di uno dei personaggi: ‘È troppo incredibile, troppo mostruoso… non è possibile che esistano cose simili in questo mondo tranquillo […] Diamine, se un caso del genere fosse possibile, la terra sarebbe un luogo da incubo.’»

La sua è una terra pregna di leggende che affondano le radici in un tempo così antico da sfumare nel mito. Arthur Llewelyn Jones Machen nacque nel 1863 a Caerleon, così era chiamata Isca Silururm, prima centro della tribù celtica dei Siluri, poi castrum romano (ambientazione finale de L’ultima legione di Valerio Massimo Manfredi), bagnata dal fiume Usk (uisge, in gaelico scozzese, significa “acqua”; da uisge beatha “acqua di vita”, traduzione del latino aqua vitae “acquavite”, deriva whiskey). Secondo la raccolta dei miti gallesi del Mabinogion, Caer Llion sull’Usk è la residenza principale di re Artù, il luogo che egli aveva eletto a propria dimora, e corrisponde, secondo alcuni, alla celebre Camelot. A pochi passi dal Gwent, la regione del Gallese in cui Machen era nato e cresciuto, sorgeva, nel Gloucestershire, il tempio romano-celtico di Lydney Park, risalente al quarto secolo. Anni dopo, nel 1928, un giovane filologo di Oxford fu incaricato dagli archeologi Sir Mortimer e Tessa Wheeler di risalire all’origine del nome della divinità celtica invocata in una delle tabulae defixionis scoperte nel tempio, situato su una collina dal nome anglosassone di Dwarf’s Hill. Il dio invocato nelle tavole di bronzo era Nodens e il giovane filologo era J.R.R. Tolkien, che scriverà un saggio, intitolato “The Name Nodens”, pubblicato in appendice al ‘‘Report on the Excavation of the Prehistoric, Roman and Post-Roman Site in Lydney Park, Gloucestershire’’ (1932) di Wheeler per la Società degli Antiquari di Londra.

Essendoci ora chiara l’influenza che Machen ebbe su Lovecraft, possiamo anche supporre che il Solitario di Providence prese in prestito alcuni elementi de Il grande dio Pan, per trasporli nella propria opera. Uno di questi è sicuramente il dio Nodens, citato a p. 101 come «il dio del Profondo o dell’Abisso». Sicuramente Machen, da cultore di storia locale gallese ed esperto di antichità celtiche, doveva aver letto le Roman Antiquities at Lydney Park, Gloucestershire (London: Longmans, Green, and Co., 1879) di W.H. Bathurst (la cui famiglia possiede ancora Lydney Park), che a p. 39 della sua opera definisce Nodens proprio come «‘God of the deeps’ » e «‘God of the abyss’». Non è un caso se anche in H.P. Lovecraft troviamo citato Nodens due volte. Nel suo racconto del 1926 La casa misteriosa lassù nella nebbia (The Strange High House in the Mist), Lovecraft citerà «the gay and awful form of primal Nodens, Lord of the Great Abyss». Il nome Nodens apparirà anche nel suo romanzo breve del 1927 La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath (The Dream-Quest of Unknown Kadath). In questi testi, Nodens è presentato, seguendo l’interpretazione data da Bathurst nelle Roman Antiquities at Lydney Park, Gloucestershire, come un dio marino, al pari di Poseidone e Nettuno, e Lovecraft lo mette a capo dei Night-Gaunts (i “magri notturni”, le figure che popolavano i suoi incubi infantili).

Ma veniamo alla trama del romanzo: di cosa parla Il grande dio Pan?

Il dottor Raymond è un chirurgo che da molti anni si è consacrato alla «medicina trascendentale». Tenta così un folle e tremendo esperimento: il suo intento è quello di «sollevare il velo» del reale e guardare in faccia la cruda e mostruosa realtà delle cose. Gli antichi «chiamavano questa esperienza ‘vedere il dio Pan’» (p. 11). Il dottore opera la figlia adottiva Mary al cervello, alterando le cellule della materia grigia così da poter aprire l’ «occhio interno», l’occhio della mente, e poter entrare in contatto con il dio Pan e tutte quelle forze primigenie che popolano il mondo sconosciuto che si cela oltre il velo del reale. Un pantheon che deve avere colpito molto H.P. Lovecraft, tanto che ne riproporrà uno lui stesso, unendo le entità malefiche cui Machen allude con le fantasmagorie mitopoietiche dell’irlandese Lord Dunsany, presentate in The Gods of Pegāna .

Dopo l’esperimento, forze sconosciute si mettono all’opera e strani avvenimenti hanno luogo. Episodi singolari e inquietanti, sempre più misteriosi, si susseguono in città, gettandola nel caos e nello scompiglio, mettendola in subbuglio e trasformandola in una «città da incubo» (p. 78).

La città, la Londra brumosa, cupa e notturna evocata dal romanzo, teatro di un’epidemia inspiegabile di suicidi, fa da contraltare alle atmosfere silvestri delle campagne gallesi, in cui Machen trova il tempo di accennare al proprio borgo natale, senza menzionarlo direttamente: «un villaggio al confine gallese, un centro di discreta importanza ai tempi dell’occupazione romana, ora ridotto a un borgo di case sparse, abitato da non più di cinquecento anime. Si trova su declivio a circa sei miglia dal mare, ed è riparato da una foresta imponente e pittoresca» (p. 26).

Questa Londra richiama perfettamente le atmosfere delle detective stories di Sherlock Holmes, ma anche la Londra del mystery di dottor Jekyll e di Mr. Hyde.

Nel romanzo di Machen, il Dio-Tutto Pan non si prende mai la scena da solo, si tratta di una «presenza che non era né umana né animale, né viva né morta, ma che in sé comprendeva tutto, racchiudeva la forma di ogni cosa, ma era a sua volta del tutto priva di forma» (pp. 18-19). Una figura cui si può solo alludere timidamente, un’entità tanto malefica che non si ha il coraggio di pronunciare.

Leggere quella che Stephen King (un altro scrittore che di orrore se ne intende) ha definito come «una delle migliori storie dell’orrore mai scritte», è stata un’esperienza un po’ diversa dal solito. Non è la classica storia dell’orrore contro cui, nel corso del tempo, abbiamo sviluppato anticorpi ben efficaci. Non c’è posto né per vampiri né per fantasmi, in questo storia. Solo il principio del male, l’hybris scellerata di uno scienziato che, seguendo l’archetipo shelleyano del dottor Victor Frankenstein, vuole scavalcare i limiti preimposti, che sono i limiti della nostra realtà, per guardare al di là di essa, per «sollevare il velo» e scoperchiare il vaso di Pandora.

Il tutto è qui proposto sotto forma di una storia avvincente e ricca di suspense, in cui troviamo atmosfere gotiche e l’influenza stevensoniana, riconosciuta dallo stesso Machen. Una nuova forma di romanzo gotico, che anche grazie alla sua brevità, si fa leggere piacevolmente e tutta d’un fiato, nonostante siano passati ormai quasi centotrenta anni dalla sua pubblicazione.

Ma allo stesso tempo restituisce un quadro chiaroscurale di quel clima tutto fin de siècle di un’Europa (e soprattutto un’Inghilterra) decadente, fatta di misticismo, fenomeni dell’occulto, passioni per il proibito, il torbido, l’arcano e il misterioso.

Un ritratto, questo, non certo privo di contraddizioni. È il caso di Arthur Conan Doyle: creatore di Sherlock Holmes, l’investigatore divenuto sinonimo di razionalità, ma allo stesso tempo convinto sostenitore dello spiritismo e appassionato del paranormale.

Questa edizione Fanucci de Il grande dio Pan, uscita il 26 agosto e facente parte della collana Piccola Biblioteca del Fantastico, riporta nelle librerie italiane uno degli orrori preferiti dal Solitario di Providence in una veste editoriale molto accattivante: il libro, 120 pagine, in copertina rigida, ha un splendida illustrazione in sovraccoperta di Antonello Silverini. Tuttavia il libro, se confrontato con le precedenti edizioni, è piuttosto povero di contenuti: si compone solo di una breve “Nota dell’editore”, del testo efficacemente tradotto da Annalisa Di Liddo e dell’immancabile “Postfazione” di Carlo Pagetti. I prezzi di questa Collana, che vuole ricalcare, nel suo formato, la mitica Fantacollana Nord, sono molto accessibili, e tra i titoli usciti precedentemente possiamo ricordare John Carter e la principessa di Marte di Edgar Rice Burroughs e Noi di Evgenij Ivanovič Zamjatin. Del 2018 è l’edizione Adiaphora, 190 pagine, con testo originale a fronte, traduzione e note critiche di M. Olivetti Zapparelli e una postfazione di H.P. Lovecraft. Nel 2017, è uscita anche un’edizione di 96 pagine per la collana Eureka delle Edizioni Theoria, sempre con l’ottima traduzione di Annalisa Di Liddo. L’anno prima, per la collana Tre Sotterranei di Tre Editori uscì un’edizione di ben 260 pagine, completa della prefazione di Machen, un’introduzione di H.P. Lovecraft tratta dal suo già citato saggio, la traduzione di Alessandro Zabini, il saggio “Appunti su alcune fonti di Arthur Machen” del curatore, lo scritto “Il risveglio della selva” di S.J. Graf e una “breve antologia panica”, con brani tratti da Plutarco a John Milton, da R.L. Stevenson a W.B. Yeats.

Arthur Machen (1863-1947), scrittore gallese di narrativa del terrore, è oggi ritenuto uno dei maestri del genere. La sua prosa decadente e misurata, lontana da quella fin troppo carica di aggettivi e immagini deliranti del suo epigono H.P. Lovecraft, si inserisce a pieno titolo nel solco della tradizione letteraria fantastica anglosassone.
Fra le sue svariate influenze si possono citare Stevenson, de Quincey, Coleridge e Poe. Il suo stile e le tematiche da lui affrontate sono comunque originali e si può considerare come un innovatore del genere della narrativa soprannaturale. Infatti, nonostante abbia scritto numerosi libri di argomento storico, filosofico e teologico e sia stato anche membro di una compagnia teatrale shakespeariana, Machen deve oggi la sua fama ai racconti del terrore, in particolare a Il grande dio Pan.

Source: del recensore.

Il dominio del sangue di Giordano Drago (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

9 marzo 2020

47307-giordano-drago-il-dominio-del-sangue-highworldFanucci editore continua la sua missione di promuovere e presentare fantasy scritto da autori italiani con Il dominio del sangue, primo volume di una trilogia che porta in un mondo che può rassicurare e far passare il tempo agli orfani di George R. R. Martin, in attesa degli ultimi due volumi della Saga del Ghiaccio e del Fuoco che continuano a latitare nelle nostre librerie e biblioteche, dopo la fine del serial che non ha accontentato tutti.
Non bisogna però credere che questo avvincente libro sia una copia degli universi di Westeros e dintorni, perché possiede una sua originalità, presentando un mondo dove i contrasti sono dovuti a lotte di potere ma anche a scelte economiche e logistiche: le Terre Alte sono un microcosmo fatto di arcipelaghi posizionati ad altitudini diverse, che si sono difesi da oceani e maree grazie ad enormi dighe in pietra.
Le Terre Alte non sono un luogo tranquillo, ci sono lotte per potere e predominio, ma c’è un’entità che è guardata da tutti con rispetto, i Custodi delle Dighe. Come suggerisce il nome, costoro si tramandano da generazioni la conoscenza del potere più distruttivo che possa esistere in quel mondo, aprire le Dighe lasciando che le acque sommergano tutte le Terre Alte, distruggendo le vite e i popoli che li abitano.
Rispetto quindi al mondo intrigante e rutilante di Martin, qui c’è una spada di Damocle su tutti gli abitanti delle Terre Alte, perché c’è qualcuno al di sopra di tutto, non una divinità, che può decidere di distruggere tutto, se motivato: tra le righe gli appassionati di folklore e leggende potranno leggere anche un richiamo ai miti presenti in varie culture della distruzione di una civiltà con piogge e maremoti, dal Diluvio universale all’inabissamento di Atlantide. Se si è invece profondi conoscitori dell’animazione giapponese anni Ottanta, tra le righe c’è anche qualche ricordo, magari non voluto, di un bell’anime di genere fantasy da recuperare, C’era una volta Windaria, in cui c’erano guerre tra regni e l’acqua che distrugge civiltà e città, sia pure in un contesto che non diventa così devastante come potrebbe essere qui.
Il libro racconta che, dopo una tregua durata abbastanza, il delicato equilibrio tra le dinastie eredi di re Rhodeon il Conquistare è sul punto di spezzarsi, perché le altre casate delle Terre Alte, gli Artakis, gli Oleone, i Sertan e i Misgarian sanno conducendo di nuovo il mondo sull’orlo di una guerra, ma questo forse non è l’unico problema. Ci sono quindi vari personaggi da seguire, nelle singole casate, mentre si preparano ad un conflitto che rischia di essere senza vincitori ma con solo vinti.
La storia continuerà con altri due volumi, Il dominio del Ferro Il dominio della Terra, che concluderanno la vicenda.

Il nome de plume Giordano Drago raccoglie un collettivo di autori che hanno deciso di rinunciare alla propria fama perché credono nella circolazione delle storie. Prima dei nomi viene il racconto, e questo racconto attraversa il mondo ricco di storie delle Terre Alte, vero protagonista della saga.

Provenienza: omaggio dell’Ufficio stampa che ringraziamo.

Il pianeta di ghiaccio di Andrea Scavongelli (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

25 giugno 2019

unnamedLa fantascienza continua ad essere un genere amato da un nutrito gruppo di appassionati, che è cresciuto grazie a nuove storie, come quelle raccontate in alcune serie TV di grande successo, ma negli ultimi anni ha preferito concentrarsi su scenari distopici, grazie anche all’attuale momento storico politico non proprio facile, trascurando un filone amatissimo, quello della space opera, le avventure nello spazio, che per anni è stato pane quotidiano per chi sognava un oltre le prime spedizioni nel cosmo.
Per questo motivo, se si sono letti ed amati Asimov e Hamilton e se si sono seguite con passione le avventure televisive di Star TrekSpazio: 1999  e degli anime di Leiji Matsumoto, Capitan Harlock in testa, non si può che essere felici per l’arrivo nel catalogo Fanucci tra l’altro dell’opera prima di un autore italiano, Andrea Scavongelli: Il pianeta di ghiaccio.
Primo capitolo del Ciclo di Rizor, e infatti la storia non si esaurisce qui, il libro ci porta sullo sfondo di un universo ormai dominato dagli esseri umani, che hanno colonizzato pianeti e stazioni spaziali, non sempre in modo pacifico e non sempre andando d’accordo tra di loro. Gli uomini di potere vogliono conquistare il dominio assoluto, ma non hanno calcolato che ci potrebbero essere delle pedine ribelli, stanche di un dominio dispotico.
Rickard Hill è tormentato dal suo passato e si trova disperso nel deserto di ghiaccio del pianeta Rizor 4, dove incontra un popolo semisconosciuto, che gli fa capire il suo valore e come uscire dai sensi di colpa che lo attanagliano. Romeo Davis è un giovane e idealista soldato, membro del corpo scelto dei Volmarix, e si trova costretto a fare i conti con la violenza del mondo a cui appartiene e a cercare un’altra strada per salvare chi ama.
Entrambi, e non solo loro, non hanno fatto i conti con un cinico agente segreto che è disposto a qualsiasi cosa per risolvere il conflitto tra esseri umani e una pericolosa razza aliena,  a vantaggio degli umani certo, ma sacrificandone una parte. Rizor 4 sarà il teatro dello scontro definitivo ma non risolutivo di una guerra che si è trascinata per troppo tempo.
Ci sono echi di Asimov con il ciclo della Fondazione e di Herbert con la saga di Dune in una storia in cui la fantascienza è riflessione sui troppi conflitti contemporanei, che rappresenta comunque un futuro non certo utopico ma dove gli spazi dell’universo e i pianeti altri diventano di nuovo protagonisti. Un romanzo di fantascienza che riflette e appassiona, che non rinuncia a raccontare una versione metaforica della realtà ma nello stesso tempo intrattiene, riaprendo lo sguardo verso nuovi mondi da scoprire, per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima.

Andrea Scavongelli  è nato a Ortona (Chieti) nel 1985, è laureato in Tecniche sanitarie di radiologia medica e lavora presso la UO di Radioterapia dell’ospedale di Chieti. È un grande appassionato di basket, di musica metal, rock, country e jazz, ma soprattutto è un assiduo lettore di fantasy e fantascienza. Tra i suoi autori preferiti, David Gemmell, Frank Herbert, Dan Simmons e Gene Wolfe. Con Il pianeta di ghiaccio fa il suo esordio nel catalogo Fanucci Editore.

Provenienza: omaggio dell’Ufficio stampa che ringraziamo.

Alika di Sara Segantin e Silvia Poli (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

24 giugno 2019

alika_1024x1024Fanucci editore continua a portare avanti un discorso in sostegno del fantasy, uno dei generi più amati oggi ma a tratti forse più difficile da incasellare, dando spazio a voci italiane, con il primo volume di una saga per ragazzi e non solo, Alika, scritta a quattro mani dalle due appassionate del genere e ora scrittrici Sara Segantin e Silvia Poli.
La Alika del titolo è il nome di un piccolo continente, dove vivono umani, ninfe, draghi, mutaforma e altre creature fantastiche: non è un luogo pacifico, perché ci sono guerre civili e maledizioni, i mari sono infestati dai pirati e nelle foreste è meglio non addentrarsi.
In questo mondo di spavento e d’incanto si incrociano le strade di quattro ragazzi,  Ayeres, Jean, Miluna e Cyrniev, diversi tra di loro ma accomunati da una missione comune.
Infatti ad ognuno di loro, in separata sede per ciascuno, è stato affidato il compito di rubare Tarima, un medaglione su cui incombe una maledizione sconosciuta ai più, simbolo del potere in uno degli Stati del continente di Alika. La ricerca del medaglione porta i quattro, prima rivali e poi amici, a scoprire il mondo di Alika, tra mille avventure, ma non sanno che sulle loro tracce c’è lo Stratega, un generale del paese dei mutaforma.
I quattro ragazzi, Ayeres, Jean, Miluna e Cyrniev dovranno non solo portare a termine la missione e scampare ai pericoli, ma anche confrontarsi, giorno dopo giorno, con chi sono e chi vorrebbero essere e diventare, cercando di scegliere la strada migliore, in quello che è un romanzo non solo fantasy ma di formazione.
Alika recupera una tradizione importante del genere fantasy, quello della quest, dell’avventura in un mondo fantastico, introdotta tanti anni fa da Tolkien e Lewis e portata avanti da molti altri, a cominciare da Terry Brooks con la serie di Shannara. Ci sono echi del mondo di Shannara, anche se Alika non è una Terra post apocalittica ma un mondo a parte, inquietante e favoloso, che riesce a conquistare.
Un libro per ragazzi ma anche per chi legge fantasy da anni ed è sempre in cerca di nuovi intrecci, che lo rassicurino con la ripresa di archetipi sempre validi e lo appassionino con nuove avventure. Bella e evocativa è anche l’illustrazione di copertina, ad opera della brava Cristiana Leone.

Sara Segantin, 22 anni, è cresciuta sulle Dolomiti, e dopo un periodo alla Montana State University negli USA si è laureata in Lingue e letterature straniere a Trieste., dove ha deciso di restare per proseguire gli studi in Turismo culturale. Da sempre impegnata nella difesa dei diritti delle persone e dell’ambiente, è organizzatrice di scambi e progetti internazionali e svolge anche attività come regista, giornalista e ogni tanto attrice. Le sue grandi passioni sono scrivere, il public speaking, viaggiare e ama le storie, vicine e lontane, inventate o vissute, di luoghi, persone e semplici istanti.

Silvia Poli, nata nel 1996 sulle Dolomiti trentine, ama da sempre le storie, di qualunque tipo, che siano libri, fumetti, serie TV, film, giochi da tavolo. La sua passione per fantasy e fantascienza si è trasformata in studio e lavoro, tra fiere e giornali del settore. Dal 2015 vive a Bologna, dove si è laureata con una tesi su Magic: The Gathering  e ora studia Forecasting, Innovation and Change, pratica aikido e cucina dolci.

Provenienza: omaggio dell’Ufficio stampa che ringraziamo.

L’orso e l’usignolo di Katharine Arden (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

21 giugno 2019

45569-51osarxaxtl.-sx322-bo1-204-203-200-Fanucci editore propone il primo volume di una nuova serie fantasy, La notte dell’inverno, che pesca dalle fiabe e dalle leggende di un mondo particolare e forse non abbastanza esplorato, quello russo, che l’autrice ha conosciuto e apprezzato durante un suo soggiorno per motivi di studio. Lo stesso mondo che fu raccolto da Afanasev in quella che è ancora oggi una delle fondamentali antologie di fiabe e studiato da Propp per cercare le regole delle storie del fantastico.
La vicenda ci porta in un mondo fuori dal tempo, in uno sperduto villaggio ai confini della tundra russa, dove l’inverno dura per la maggior parte dell’anno e dove i mucchi di neve sono più alti delle case, un mondo che fa somigliare Grande Inverno e la Barriera al confronto un villaggio turistico.
Vasilisa e i suoi fratelli amano il loro villaggio, e passano le lunghe notte polari di un luogo dove per metà anno le tenebre dominano oltre al freddo ad ascoltare le fiabe della loro balia. In particolare Vasilisa ama la storia di Frost, il demone invernale dagli occhi blu, che arriva nelle notti più gelide per reclamare le anime imprudenti.: per questo da sempre si sa che bisogna temerlo ed onorare invece gli spiriti che proteggono le case dal male.
Il padre di Vasilisa, da tempo vedovo, si risposa e la matrigna è una donna che viene dalla città, che crede nella religione ortodossa e disprezza chi crede agli spiriti: la sfortuna si abbatte sul loro villaggio, Vasilisa decide di ribellarsi e la matrigna, con la complicità anche di un pope giunto in paese per evangelizzare i pagani, minaccia di farla sposare con un marito scelto da lei o chiuderla in convento.
Ma la minaccia degli spiriti maligni non è una cosa da sottovalutare, il villaggio è in pericolo e Vasilisa decide di affrontare l’ignoto a qualsiasi costo.
L’orso e l’usignolo è un libro interessante e originale, che fa scoprire come si diceva il folklore russo, con al centro una protagonista che ha il nome dell’eroina per antonomasia delle fiabe della Russia, Vasilisa la bella, non una principessina in cerca di un principe che la salvi, ma una vera e propria guerriera che affronta pericoli e creature non umane. Come altri libri fantasy ambientati in altre zone del mondo, quali quelli sul mondo celtico, rievoca anche l’incontro scontro tra la cultura pagana tradizionale e quella cristiana, in questo caso ortodossa, ma gli archetipi non si fermano qui, Vasilisa che affronta le forze del male è un’icona del fantastico al femminile, massicciamente presente nell’immaginario di oggi e sempre interessante, soprattutto quando è trattata senza cadere nel banale come capita talvolta.
L’orso e l’usignolo è un libro per gli amanti del fantastico che vogliono provare nuove storie magari un po’ fuori da schemi sentiti troppe volte e per chi pensa che davvero la fantasia non abbia confine, e che gli immaginari di tutto il mondo possono servire da spunto per immaginare nuovi universi.

Katherine Arden, classe 1987, è nata a Austin e attualmente risiede nel Vermont. Dopo il liceo ha trascorso un anno a Mosca, prima di frequentare il Middlebury College e laurearsi in russo e francese. Con il suo romanzo d’esordio, L’Orso e l’Usignolo, primo capitolo della trilogia La notte dell’inverno, fa il suo esordio nel catalogo Fanucci.

Provenienza: omaggio al recensore dell’Ufficio stampa che ringraziamo.

La leggenda del libro sacro L’Ondembrah di Teresa Maria Desiderio (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

20 aprile 2019

3453239Fanucci editore tiene a battesimo una nuova voce italiana con il primo volume di una nuova saga, La leggenda del libro sacro L’Ondembrah, rivolta in teoria ad un pubblico di giovanissimi ma in realtà piacevole per tutte le età, cosa poi non così frequente, soprattutto ultimamente, se si escludono fenomeni letterari come la saga di Harry Potter e quella di Hunger Games.
L’autrice, da sempre interessata al fantastico e con fonti di ispirazione che spaziano da Lewis Carroll a Leiji Matsumoto. da Tolkien a Rumiko Takahashi, da J. K. Rowling a Sailormoon, porta nel mondo di Sannoth, universo alternativo dove vivono ben nove razze differenti, in rapporti più o meno amichevoli, tra di loro, metafora della difficoltà ad accettare la diversità presente nel nostro mondo.
Ogni abitante del luogo possiede una scintilla di magia dentro di sé chiamata Shinpa: gli Shannobrah,, una delle stirpi del mondo, iniziano ad usarla dopo aver compiuto dieci anni, dopo aver festeggiato il Phatiobrah, la festa che consacra per ogni piccolo abitante l’ingresso nella vita magica, una specie di bar mitzah o di cresima magica.
Goshda e Fadfra sono gemelli, compiono dieci anni e si accingono a celebrare questo evento e  a rompere il Grongo, il sigillo blocca magia. Ma qualcosa non va per il verso giusto, oscuri presagi emergono, come l’apparizione di una piuma, tutto tranne che innocua. I due ragazzi vengono divisi: Fadfra viene rapita da Yonah, il re degli Elfi, che nasconde un segreto  inimmaginabile, mentre Goshda deve imbarcarsi in un compito ancora più difficile.
Sui due ragazzi si staglia una profezia, perché uno o una di loro potrebbe essere  il leggendario Ondembrah, il detentore del tanto atteso ‘nono dono’ magico, che dovrà risvegliare i dormienti e portare ad un cambiamento cruciale e forse non positivo per il mondo conosciuto: quindi i due ragazzi non dovranno solo crescere ma capire anche le conseguenze della loro crescita e di scelte che possono non essere facili, univoche e positive.
A tratti ci sono degli archetipi che tornano, il ruolo del prescelto (o prescelta), il viaggio dell’eroe in cerca di sé, la coesistenza di diverse razze, il mistero da risolvere, ma tutto è trattato in maniera fresca e originale, con una narrazione incalzante, due personaggi magici che come età strizzano l’occhio ai coetanei, ma l’insieme è interessante anche per i fan del fantasy di lunga data, che giocheranno con le citazioni ma scopriranno un nuovo mondo in cui si viene trasportati e in cui si tornerà.
Fa piacere vedere comunque che si sta tornando a proporre storie fantasy per i più giovani basate su avventure in mondi alternativi, non a storielle più da Harmony dove di fantastico ce ne è ben poco, con la costruzione quindi di un mondo che sa essere nuovo senza dimenticare il passato di storie che si sono succedute, da Tolkien a Terry Brooks.
A questo punto, non resta che aspettare il secondo capitolo della saga, come è già successo con due nuove voci italiane recenti, Helena Paoli e Rebecca Moro.

Provenienza: omaggio dell’ufficio stampa che ringraziamo.

Teresa M. Desiderio è mamma di tre splendidi bambini e grande sognatrice, e fin da piccola ha avuto una predilezione per la magia e il fantastico in generale. Letture e interessi avevano sempre un unico filo conduttore, e oggi le idee che l’hanno accompagnata per anni si sono riassunte in un mondo narrativo originale e complesso che prende il nome di Sannoth. Con Ondembrah, il primo capitolo della saga fantasy La leggenda del Libro Sacro, fa il suo ingresso nel catalogo Fanucci.

La maga tessitrice di Helena Paoli (Fanucci, 2019) a cura di Elena Romanello

18 febbraio 2019

La_maga_tessitrice_-_Helena_Paoli_1024x1024Fanucci editore inizia una nuova saga, La figlia del cielo, dando spazio ad una giovane voce italiana, Helena Paoli, di certo non priva di interesse, già nota per il suo blog e il suo canale youtube, con il primo capitolo, La maga tessitrice.
In una qualunque cittadina italiana contemporanea vive Aspasia, diciotto anni, una vita segnata dalla tragica morte di sua madre, da un padre che si è chiuso in se stesso dimenticandosi di avere una figlia e da un’aggressione che ha subito da qualcuno di cui si fidava. La ragazza si è rinchiusa in se stessa, con come unica compagnia i libri.
Ma un giorno la sua vita cambia, e viene risucchiata in una dimensione parallela, dove la porta un giovane dai capelli bianchi, Septimus.
L’Altrove è infatti una terra governata da miti e magie, dove regna incontrastato un dittatore sanguinario e dove un gruppo di donne, le Tessitrici, cercano di mantenere l’ordine. Aracne, la più temuta e potente di loro, è morta, e Aspasia, che le somiglia come una goccia d’acqua deve prendere il suo posto, e forse trovare il suo destino.
Il tema della ragazza che giunge in un mondo alternativo ha nobili antenati, da Alice alla serie del Mago di Oz, e anche in tempi recenti è stato frequentato, da storie di culto, basti pensare a Labyrinth. Qui ci sono anche richiami alla cultura classica, sia greca che romana, mentre il mondo costruito ha non pochi echi di quello di Westeros di George R. R. Martin.
Un libro però tutt’altro che privo di una sua originalità, avvincente e che riesce a salvarsi dalle trappole di troppi romanzi rosa travestiti da storie fantasy, con un viaggio dell’eroina intrigante, per salvare un mondo e forse per salvare anche se stessa da una vita inaccettabile ma in fondo metaforica di tutte le difficoltà dell’adolescenza.
La maga tessitrice piacerà senz’altro agli appassionati più giovani, magari in cerca di un’alternativa alle storielle di vampiretti che luccicano, ma è godibile anche per chi ha qualche anno e un po’ di letture del genere in più, in attesa comunque del secondo capitolo.

Helena Paoli è nata a Bari nel 1998 e studia Lettere moderne presso l’università degli studi Aldo Moro di Bari. Divora libri fin da bambina e ha pubblicato il suo primo romanzo fantasy all’età di diciassette anni. Ha già pubblicato i primi due volumi della saga fantasy Cronache dell’eternità (Bibliotheka Edizioni): Principessa del tempoPrigioniera delle tenebre. Parla di storie che l’appassionano sul suo blog HeleNarrazioni e sull’omonimo canale YouTube.
Con La Maga Tessitrice, primo capitolo della saga fantasy La figlia del Cielo, fa il suo ingresso nel catalogo Fanucci.

Provenienza: omaggio dell’ufficio stampa che ringraziamo.