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:: I passi di mia madre – La ricerca di un amore mancato di Elena Mearini (Morellini Editore 2021) a cura di Natalina Saporito

6 febbraio 2021

“Ci sono giorni in cui mi alzo dal letto e incomincio a fare le cose senza una ragione, mi muovo solo per ricordarmi che esisto oppure per dimenticarmene, non l’ho ancora capito”.

Queste sono le parole d’esordio della protagonista dell’ultimo romanzo della scrittrice milanese Elena Mearini, I passi di mia madre, edito da Morellini, alla quale Mearini, con arte magistrale, presta la sua penna per raccontare di sé e della ricerca di un Amore mancato, quell’amore che ha stipato i suoi quarant’anni nel corpo di una dodicenne.

Agata, questo il suo nome, è un editor milanese, vive e legge tante vite ma attorno alla sua orbitano quella di suo padre e, in un rapporto di luci e ombre, quelle di Marco e Samuele.

Indossa le scarpe della mancanza – Agata – ci cammina dentro da una vita e l’angoscia di questo vuoto che la spinge alla ricerca non si evince tanto dal ritmo narrativo quanto dalla sua struttura itinerante nel tempo e nello spazio. Agata racconta la sua storia in un’altalena fatta di passato e presente, andate e ritorni, fermate e partenze e alla sua intreccia quella di Lucia, la madre, di cui immagina l’esistenza in quasi trent’anni di assenza, partendo da Dio. Così i dodici capitoli di questo romanzo diventano tappe delle stazioni di Cristo per giungere alla resurrezione eterna.

Voglio che tu senta la mia voce. Ti voglio bene, mamma” con queste parole Agata giunge alla fine del suo calvario, porge il segno della pace al mondo e la resa dei conti a sé; smette di sentirsi donna nel corpo di un’adolescente e impara ad amare coloro che si svelano nella presenza e chissà forse a viversi in una nuova dimensione.  

Con questo romanzo Elena Mearini, ancora una volta, come in molti lavori precedenti, affonda la sua penna in storie famigliari fatte più di mancanze che di carne. Ancora una volta ci avvicina al mondo femminile così com’è stato con Vera, in 360° di rabbia, Serena, in Undicesimo comandamento, e Bianca, in Bianca da Morire. E ancora una volta, attraverso uno stile narrativo – fatto di metafore, similitudini, analessi, simbolismi e di un tono accorato ma con ritmo meno serrato – Mearini ci consegna vite imperfette, “siamo il risultato di più errori, viviamo per correggerci”, incastrate perfettamente nella trama dei suoi romanzi.

Elena Mearini: si occupa di narrativa e poesia, conduce laboratori di scrittura in comunità e centri di riabilitazione psichiatrica. Nel 2009 esce il suo primo romanzo, 360° di rabbia (Excelsior 1881) con cui vince il premio giovani lettori “Gaia di Mancini-Proietti”; nel 2011 pubblica Undicesimo comandamento (Perdisa pop) con cui vince il premio speciale Università di Camerino e il premio giovani lettori “Gaia Mancini-Proietti”. Nel 2015 pubblica il romanzo A testa in giù (Morellini editori) e firma due raccolte di poesia: Dilemma di una bottiglia (Forme Libere editore) e Per silenzio e voce (Marco Saya editore). Nel 2016 esce Bianca da morire (Cairo editore), selezionato al premio Campiello e, sempre per Cairo editore, pubblica anche È stato breve il nostro lungo viaggio, selezionato per lo Strega nel 2018 e finalista nella cinquina per lo Scerbanenco. Nel 2019 ha pubblicato per Perrone editore Felice all’infinito e curato l’antologia: Tra uomini e Dei, storie di rinascita e riscatto attraverso lo sport per Morellini editori ed è presente in diverse antologie di narrativa, tra cui Lettere alla madre e Lettere al padre, Morellini editore.

Source: libro del recensore.

:: La guerra dei nostri nonni, Aldo Cazzullo (Mondadori, 2014) a cura di Natalina Saporito

1 luglio 2016

de“Abbiamo fatto tutti la guerra senza amarla, ma anche senza far storie

Prendo in prestito la frase del racconto “L’ultimo fante” contenuta in questa meravigliosa raccolta di testimonianze e la declino restituendole un significato diverso, forse l’unico possibile che occhi “distanti” come i miei potrebbero attribuirgli.

I nostri nonni e bisnonni hanno fatto la guerra senza amarla è verissimo così come è vero che non hanno fatto storie e tenuto il broncio per tutte le perdite e il sangue versato ma l’insieme delle loro storie hanno fatto la grande STORIA, e leggere le loro vite non è mai abbastanza…non è mai abbastanza per recuperare quel senso d’identità che eventi di portata mondiale come la Grande Guerra e il secondo conflitto hanno cercato di annientare. Aldo Cazzullo è riuscito, con il suo prezioso lavoro, a farci avvicinare alla forza morale e fisica, al dolore e ai sentimenti della guerra in guerra che i nostri nonni hanno provato sulla e nella loro pelle di cui tutti noi, ancora, portiamo e porteremo, nelle nostre esistenze, i segni. Straordinario.

Aldo Cazzullo: Giornalista italiano. Dopo quindici anni a “La Stampa” di Torino, dal 2003 è inviato speciale ed editorialista del “Corriere della Sera”. Ha raccontato le Olimpiadi di Atene e di Pechino, gli attentati dell’11 settembre, il G8 di Genova, gli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi ad opera delle Brigate Rosse. Tra i suoi libri, pubblicati da Mondadori e incentrati in gran parte sul tema dell’identità nazionale, ricordiamo: Ragazzi di via Po (1997), I ragazzi che volevano fare la rivoluzione (1998), Il caso Sofri (2004), I grandi vecchi (2006), Outlet Italia. Viaggio nel paese in svendita (2007), L’Italia de noantri. Come siamo diventati tutti meridionali (2009), Viva l’Italia! Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione (2010), La mia anima è ovunque tu sia (2011), L’Italia s’è ridesta. Viaggio nel paese che resiste e rinasce (2012), Basta piangere! Storie di un’Italia che non si lamentava (2013) e La guerra dei nostri nonni (Mondadori, 2014). Ricordiamo anche I torinesi da Cavour a oggi, edito nel 2004 per Laterza.

:: Bianca da morire, Elena Mearini, (Cairo, 2016) a cura di Natalina S.

8 febbraio 2016

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“Siedo alla scrivania. Il portatile acceso, un bicchiere d’acqua e trenta pasticche di cinque diversi colori. Ne ingoierò sei alla volta colore dopo colore.”

Porta il nome dell’innocenza e un rigurgito di arcobaleno impigliato nello stomaco la protagonista del nuovo romanzo di Elena Mearini, Bianca da morire, pubblicato da Cairo editore. Si chiama Bianca, ha sedicianni e vive a Milano, una città che le somiglia e di cui Bianca ne è perfetta metafora, perchè anche Milano come Bianca è stata amputata nelle sue parti più vere, anche Milano come Bianca appare candida e pura. Da tre anni frequenta il Liceo artistico, nè per talento nè per interesse, per quel desiderio smisurato di corteggiare l’Immagine e diventare una Star anche al prezzo di stuprare la propria esistenza. È figlia Bianca – di un tempo suo e di un tempo non suo- di una società che gravita attorno al vuoto morale e di una famiglia troppo patriarcale per riservare alla donna il ruolo di una Stella. Forse è proprio questa una delle ragioni per la quale Mearini sceglie, ancora una volta, come nel suo romanzo di esordio, “360 gradi di rabbia”, ed in quello successivo, “Undicesimo comandamento”, di dar voce al sentire femminile, tanto più in un contesto spazio-temporale quotidianamente macchiato di rosa. L’autrice consegna a Bianca carta e penna la quale racconta, in prima persona e attraverso il valore simbolico dei colori, il proprio morso di bestia ferita. Bianca recita dal principio alla fine un monologo da teatrante perfetta, o quasi, senza però riuscire a prevedere la fine. È uno sfogo, il suo, che restituisce a sè stessa la propria identità e a noi la fotografia più autentica di una società che, troppo rapidamente, sta cambiando volto ed è assai lontana dal sapore buono dei frollini della nonna. Bianca ci racconta il male d’esistere degli adolescenti di cui noi adulti siamo attori/spettatori spesso inconsapelvolmente responsabili; Bianca accusa e, nella mancanza di ascolto, risiede la colpa più grande. Ancora una volta, come per Vera e Serena, nei primi due romanzi, l’autrice lombarda consente a noi lettori di avvicinarci alle riflessioni più intime e fragili della sua protagonista, la sveste mettendone a nudo le carni sporche di sangue per restituirla vergine e bianca a nuova vita. Lo fa attraverso un linguaggio che sfiora la poesia e un ritmo che lascia spazio al respiro anche quando le vicende della Storia il respiro lo tolgono e il romanzo si tinge di nero.

Elena Mearini: è nata nel 1978 e vive a Milano. Si occupa di narrativa e poesia, conduce laboratori di scrittura in comunità e centri di riabilitazione psichiatrica. Nel 2009 esce il suo primo romanzo 360 gradi di rabbia (Excelsior 1881, Premio Giovani lettori Memorial Gaia di Manici Proietti), nel 2011 pubblica per Perdisa Pop Undicesimo comandamento (Premio Speciale Unicam-Università di Camerino). Seguono il terzo romanzo A testa in giù (Morellini Editore, Premio Giovani lettori Memorial Gaia di Manici Proietti) e le raccolte di poesie Dilemma di una bottiglia (Edizioni Forme Libere) e Per silenzio e voce (Marco Saya Editore).

Source: libro inviato al recensore dall’autrice.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: La firma del puparo, Roberto Riccardi (collezione Sabot/age Edizioni E/O, 2015) a cura di Natalina S.

12 marzo 2015

pup“Non ho ancora deciso chi sia peggiore, se l’uomo che preme il grilletto o quello che gli ordina di sparare”.

È Rocco Liguori – tenente dei carabinieri conosciuto e apprezzato per le abili operazioni narrate in Venga pure la fine e Undercover. Niente è come sembra – a fornirci l’importante chiave di lettura dell’ultimo romanzo di Roberto Riccardi, La firma del puparo, collana Sabot/age delle edizioni e/o, riportata all’apice di questa recensione. È una riflessione profonda e amara quanto lo squarcio di dolore che il protagonista si porta dentro per la morte di quel fratellino spento innaturalmente, prima ancora che si macchiasse di colpe e che, simbolicamente, abbraccia il potenziale di vite stroncato dai proiettili delle organizzazioni criminali. Chi sia il peggiore tra i due, il sicario o il mandante, il pupo o il puparo, chi può dirlo a netto di un atto tanto atroce?

“…amare qualcuno vuol dire esporlo ai tuoi pericoli. Se vivi di fronte ad una pistola puntata, chiunque ti stia vicino si trova sulla stessa traiettoria.

È questa la consapevolezza a cui giunge il tenente Rocco Liguori, figlio dell’Aspromonte e della giustizia che in questo romanzo si trova a dover affrontare una partita tanto personale quanto professionale: seguire le indagini sulla scomparsa di Michele Sanfilippo, noto giornalista di un quotidiano della Sicilia al quale nome si dovevano le inchieste più coraggiose su Cosa Nostra, e proteggere la famiglia di Nino Calabrò, amico d’infanzia di Liguori, arrestato dallo stesso per narcotraffico, ora intento a collaborare con la giustizia.

dare in pasto alla giustizia la sua storia criminale è per Nino Calabrò una possibile salvezza, se non per lui almeno per i suoi figli affinché una volta tanto si possa spezzare l’anello della catena che porta anime innocenti a sporcarsi le mani in nome dell’Onorata società e non possa più accadere che le colpe dei padri ricadano sui figli.

La narrazione prende forma e procede attraverso un linguaggio semplice e pulito in cui descrizioni e dialoghi si incastrano perfettamente con riflessioni tanto significative quanto disarmanti che conducono il lettore ad interrogarsi sulle azioni dell’uomo senza necessariamente pontificare o emettere sentenza e scoprire che il vero epilogo di questo intenso romanzo non è altro che l’inizio di un cammino personale: “Con le parole si abbatte ogni barriera… scopriamo chi siamo, definiamo noi stessi in rapporto con il mondo.”
Un mondo nel quale possiamo lasciare una traccia migliore della nostra esistenza, sempre e comunque, dopo aver assunto consapevolezza che la linea di confine tra il bene e il male non è sempre netta ma valicabile. Così come accade nel romanzo in cui, in momenti di massima tensione narrativa, nella lotta fisica e ideale tra odio e amore, il bene sconfina nel male fino a rovesciare le priorità di un’esistenza. L’intero romanzo rispecchia questo dualismo, dall’animo inquieto e combattuto del protagonista Rocco Liguori, incerto se redimere o meno quell’uomo di cui ha conosciuto l’innocenza e preservare le nuove generazioni dalle colpe di cui lui stesso porta i segni, alla grande contrapposizione tra mafia e legalità, Cosa Nostra,’Ndrangheta e gli uomini di legge di cui all’infinito si perpetueranno i nomi: Dalla Chiesa, Borsellino, Falcone e + (per non dimenticare nessuno).

Roberto Riccardi: colonnello dell’Arma e giornalista, è nato a Bari nel 1966 e vive a Livorno. Ha lavorato a Palermo negli anni delle stragi e poi in Calabria, a Roma, in Bosnia e Kosovo quale componente dei contingenti di stabilizzazione. Con il personaggio di Rocco Liguori ha già firmato per la collezione Sabot/age delle Edizioni E/O il noir imperniato sul ruolo degli agenti sotto copertura Undercover. Niente è come sembra (2012), che ha vinto i premi Biblioteche di Roma, Azzeccagarbugli e Mariano Romiti, e il romanzo sullo sfondo delle guerre balcaniche Venga pure la fine (2013), candidato al Premio Strega 2014, che ha ottenuto riconoscimenti ai Festival del noir di Serravalle e Suio Terme. Ha inoltre all’attivo due romanzi nel Giallo Mondadori, il primo dei quali, Legame di sangue, gli ha fruttato il premio Tedeschi nel 2009. Ha pubblicato tre libri sulla Shoah per l’editrice Giuntina: Sono stato un numero (2009), La foto sulla spiaggia (2012) e La farfalla impazzita (2013, scritto insieme a Giulia Spizzichino). Con Sono stato un numero, opera premiata da “Adei-Wizo”, l’Associazione Donne Ebree d’Italia, si è aggiudicato il premio Acqui Storia.

:: A testa in giù, Elena Mearini, (Morellini, 2015) a cura di Natalina S.

6 febbraio 2015

a-testaÉ bello provare meraviglia. E lo è ancor più se a suscitarla è un sentimento di sorpresa verso qualcosa di atteso e conosciuto come l’arte di Elena Mearini, scrittrice lombarda dal tratto indiscutibilmente autentico e personale.
Perito delle parole e della loro armonia nei giusti incastri, Mearini, dopo la storia di Vera in 360 gradi di rabbia (Excelsior 1881) e quella di Serena in Undicesimo comandamento (Perdisapop), riappare sullo scenario letterario con un nuovo romanzo, A testa in giù, edito da Morellini.

È una storia dolce, nostalgica, a tratti amara ma ricca di speranza,  quella che l’autrice milanese ci racconta attraverso le voci, in prima persona, di Gioele e Maria, anelli tanto fragili quanto forti di una società complessa, spesso arroccata su convinzioni egoiche e false da sfaldare e sfalsare. Due vite in una sola vita, due storie in una sola storia come il battito delle mani di Gioele, sul volante del suo Maggiolone, nel loro ritmo uno, uno-due, a testa in giù. Vien persino male a parlare di rovescio. Ricorda la pioggia, il vomito, qualcosa che è sverso, non conforme, strano. Come Gioele e il suo muro di silenzi. Come Van Gogh e la sua faccia di pietra scavata. Ma che bello sarebbe se tutti noi provassimo a capovolgere il mondo e ci avvicinassimo ai tanti Gioele e ai tanti Van Gogh che ci stanno a fianco? Scambiare i sassi per le nuvole e credere di camminare in cielo con i piedi in terra ci permetterebbe di guardare la vita dalla prospettiva del prossimo tuo come il comandamento dell’Amore insegna.
…è una storia tenera, melanconica, a tratti aspra ma dal sapore buono quella che l’autrice milanese ci consegna attraverso le parole non dette di Gioele e quelle dette di Maria che al contrario del primo ne ha tante anche perché il silenzio è freddo, un secolo è lungo da abbracciare e storie ne ha da raccontare; come la fame e i suoi morsi da leone, la guerra e le sue ferite, l’egoismo e le sue mediocrità.
In un continuo andirivieni tra passato e presente prende forma l’impalcatura narrativa; un viaggio fisico quanto temperale che da Milano ci porta a Covo e poi a San Giorgio; che dal qui e ora ci porta nel luogo di allora, che come allora non è… non è più, se non nel cuore e nella memoria di Maria.
Bisogna saperle trattare, le parole. Altrimenti ti si rivoltano contro, fino a sciupare la storia che avresti tanto voluto raccontare”. E non v’è dubbio alcuno che la Maria il suo canovaccio l’abbia saputo intessere; un punto a destra e uno a sinistra e la trama restituisce un ricamo perfetto in cui gli avvenimenti non sono pure coincidenze ma coincidenze significative. Questa volta, a differenza dei primi due romanzi, frasi meno serrate fanno si che il fiato non sia soffocato in un ritmo accelerato. Non resta che l’encomio per Elena Mearini, per le parole che ha saputo trattare senza sciupare la storia che voleva raccontare.

Elena Mearini: è nata nel 1978 e vive a Milano. Lavora per diversi anni per una compagnia che si occupa di teatro ragazzi. Conosce poi la realtà del disagio occupandosi di laboratori in carceri e comunità. Nel 2009 esce il suo primo romanzo 360 gradi di rabbia, edito da Excelsior 1881 e vincitore del premio Gaia Mancini, nel 2011 pubblica per Perdisa pop il romanzo Undicesimo comandamento, che vince il premio Gaia Mancinie e il premio Unicam – Università di Camerino. Dal 2010 collabora col settimanale “Vita no profit”, raccontando in chiave letteraria fatti di cronaca. Collabora con la rivista letteraria “Atti impuri” e con la casa editrice NoReplay. Cura la raccolta di racconti Latte, chiodo e arcobaleno per NoReplay Editore, firmando un racconto. Partecipa alla raccolta di racconti Vacanze milane, a cura di Luca Doninelli. Nel 2013 pubblica la silloge Dilemma di una bottiglia per Forme libere Edizioni, nel 2014 la silloge Per silenzio e voce (Marco Saya editore) e partecipa alla raccolta Siria. Scatti e parole (Miraggi edizioni). È finalista al premio Maria Teresa di Lascia e vincitrice del Premio Perelà 2013.

:: Segnalazione di Casa di carne, Francesca Bonafini, (Avagliano, 2014) a cura di Natalina S.

12 settembre 2014

indexCasa di carne, Avagliano editore, è il titolo che Francesca Bonafini – scrittrice veronese- “strappa alle stelle” per descrivere l’essenza di quel pericolo bello, l’amore. L’amore che, appunto, ha volto di sensi, vibrazioni. L’amore che è raro ma accade. L’amore che restituisce libertà, identità.
Ed è il sentire di Angela, protagonista principale del romanzo, a condurci in questo straordinario perigeo di sensazioni. Si sporge al di là del crinale Angela, nuda, spoglia, senza armi e paura. È lei stessa ad insegnarci che lì dove la fragilità non ha timore di mostrarsi e abbandonarsi risiede l’amore, in tutta la sua lealtà e autenticità. Parte, senza se e senza ma. Parte, forse, proprio da quel pezzo che le manca, incerto allo stesso modo di un se ed un ma: la morte dei suoi genitori, che inconsciamente o consciamente la spinge a cercare il grembo in cui sentirsi a casa.
Casa di carne è un peregrinare tanto fisico quanto spirituale; il tentativo di arginare il mare in cui ci sente naufraghi in cerca di un’ancora a cui rimanere impigliati, non per forza però perché l’amore non ha bisogno di costrizioni. La costrizione è illecita come attribuire l’illecito a ciò che illecito non è.
Angela – Francesca – è un’amante della letteratura e lo sa bene che le parole hanno un peso, che sono voci di carne viva, in grado di conferire il giusto significato alle cose, di farti sentire a casa, come l’amore.
Ed io che le parole le amo nel loro matrimonio in frasi d’armonia ricche di significato ho trovato una casa in cui ho voglia di rientrare, nuove mura in cui dimorare.
Storia di viaggi e di attraversamenti sia fisici sia esistenziali, e sulla ricerca di sé. Trieste, Brest, Rio de Janeiro, Lisbona, ogni città è per Angela una frontiera da oltrepassare. Trova finalmente un lavoro stabile come cameriera in un albergo, prepara le colazioni, ma vive con profonda inquietudine e curiosità: ha sempre lo zaino pronto, si innamora di Miriam, incontra Alessio, va a vivere con Tiago e non smette mai di credere nell’amore come unico luogo a cui tornare. Salvo poi prendere atto che la fine di ogni sentimento è un addio preparatorio all’ultimo addio della vita. Tra partenze, amicizie, avventure Angela è pronta a gettare via le sue maschere. Ma a quale prezzo? E sapranno fare lo stesso anche i compagni che incontrerà lungo la strada? Un romanzo che ha in sé tutta la meraviglia e il pericolo dello sconfinamento.

Francesca Bonafini: (Verona 1974) vive a Bologna. Ha pubblicato il romanzo Mangiacuore (Fernandel 2008) e il romanzo collettivo Il cavedio (Fernandel 2011). Numerosi suoi racconti sono apparsi su riviste, quotidiani e antologie, ed è presente nel Dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango 2008) con il lemma “zaino”. Ha scritto di musica italiana e in particolare di Ivano Fossati nel volume Sex machine. L’immaginario erotico nella musica del nostro tempo (Auditorium 2011). Cura la rubrica “Mandibola. I nutrimenti di Bonnie” sulla rivista “Stra Occupati, free press abruzzese.

:: Le Sultane, Marilù Oliva, (Elliot, 2014) a cura di Natalina S.

11 agosto 2014

copertina-okVivono in via Damasco 7, in Bologna, Wilma, Mafalda e Nunzia: Le Sultane. Sono le protagoniste dell’ultimo romanzo di Marilù Oliva, distribuito per Elliot, che della scrittrice ha pubblicato, inoltre, la trilogia della Guerrera – Tu la pagaràs, Fuego e Mala Suerte – e l’antologia dedicata alla problematica del femminicidio, Nessuna più.
É al tramonto della loro esistenza che l’autrice ci proietta, acciuffando, di tanto in tanto, i momenti più significativi di un passato che, al di là della sorte e delle scelte consapevoli, si è degradato, restituendo granelli smussati e privi di coesione.
Siedono al tavolo della senilità per giocare le ultime partite di una vita che non le ha risparmiate in fatiche, privazioni e sofferenze, ingabbiandole in una routine soffocante a cui, nonostante tutto, rimangono appese come le carni flaccide alle loro ossa. Non c’è spazio per i sogni ma, solo, un attaccamento morboso e pateticamente tenero per le frivolezze, il denaro e la fede. Un surrogato di apparenze che non serve ad ingannare nessuna delle tre, ma rendere un po’ meno amaro lo scorrere del tempo che, inesorabile, passa mutando persino le vesti della Bellezza. Una Bellezza che, all’epoca della loro giovinezza, si mostrava indossando le regole della buona creanza e del rispetto verso la saggezza, registrata in ogni singola rughetta.
Quello delle Sultane, è un sodalizio che si cementa e fortifica sui vuoti di ciascuna e il contorno che costella il loro perimetro. Un vuoto che il tempo ha scavato con le unghiette del dolore e non solo – lasciando graffi di cui anche le nuove generazioni risentono – difficile da sopportare. Ma ogni precario equilibrio ha bisogno di una rottura e, di conseguenza, un nuovo incastro, così il romanzo di Marilù Oliva – popolare, di denuncia politico-sociale, psicologico- si tinge di nero consegnandoci la faccia, limpida e pulita, del male che può scaturire dalle ferite individuali quanto da una crisi morale e culturale.
È magistrale il tratteggio che la scrittrice ci restituisce delle Sultane, tanto grottesco quanto straordinariamente umano nella loro fragilità. Con voce autentica e pungente, ci racconta di rapporti genitori-figli imperfetti nella comunicazione e nella frustrazione di non vedere realizzate le loro proiezioni; rapporti che, paradossalmente, risultano adorabili proprio per il loro essere male accomodati con le regole della genitorialità. Eppure esse ci provano a squarciare la dimensione del tempo, cercare di agguantarne un’ultima fetta prima che il naturale decorso della vita segni il traguardo. Nell’intimità del suo racconto Wilma ci consegna la sua, triste e coraggiosa, verità: “la vecchiaia mi ha insegnato che le occasioni perdute difficilmente ritornano. Però puoi tentare di recuperarle, se proprio ci tieni: le devi cercare, legare strette strette con una fune spessa, poi è una prova di forza, basta non smettere mai di tirare. Qualche volta funziona.”. E a loro modo, anche Mafalda e Nunzia tentano di calciare la vita che le intrappola, con uno sbuffo di tenerezza e libertà. Ma diciamolo pure, per una delle Sultane ho provato una sensazione di indifferenza, per un’altra una grande avversione e ad una mi sono terribilmente legata, tanto da volere sapere cosa sarà del suo tempo, prima che il regresso la faccia ritornare di nuovo bambina.
Forse, l’intento dell’autrice è quello di farci assumere consapevolezza dell’amara problematica che affligge il nostro tempo, e lo fa attraverso una sottile ironia restituendocene un quadro stra-maledettamente realistico. Spero di rileggerla davvero presto Oliva e la sua scrittura scorrevole, figurata, sarcastica e leggiadra. Vorrei, inoltre, tanto sapere di Melania e apprendere, un giorno, la sua decisione di non fare più a pugni con la vita, con il suo Tempo.

Marilù Oliva: vive a Bologna e insegna lettere alle superiori. Ha scritto cinque romanzi, di cui tre dedicati al personaggio della Guerrera: ¡Tú la pagarás! (Elliot, 2011), finalista al Premio Scerbanenco, Fuego (Elliot, 2011) e Mala Suerte (Elliot, 2012), gli ultimi due vincitori del Premio Karibe Urbano per la diffusione della cultura latino-americana in Italia. L’ultimo romanzo è Le Sultane, sempre edito da Elliot (2014).
Ha curato l’antologia Nessuna più – 40 autori contro il femminicidio, patrocinata da Telefono Rosa (2013) e ha pubblicato racconti per il web e testi di saggistica, ha collaborato alla stesura di manuali scolastici di storia per le Edizioni Cappelli. Ha scritto un saggio su Gabriel García Márquez: Cent’anni di Márquez. Cent’anni di mondo (CLUEB, 2010).
Collabora con diverse riviste letterarie, tra cui Carmilla, Thriller Magazine, L’Unità online.

:: Segnalazione di La collina del vento, Carmine Abate (Mondadori, 2012) a cura di Natalina S.

26 luglio 2014

indexL’incontro con una prosa capace di darti piacere, gioia, insegnamento, riflessione, conoscenza; in grado, anche e soprattutto, di scavare e ferire, farti soffrire, è raro, come l’amore, ma succede. A me è capitato poco più di anno fa’ quando, casualmente, durante un festival della letteratura, rimasi colpita dal titolo e dalla copertina dell’ultimo romanzo di Carmine Abate, Il bacio del pane. Inconsciamente sentivo che tra me e quel libro, che sapeva di buono, c’era un sottile legame. Dopo qualche mese un mio collega di lavoro, dopo avermi chiesto se conoscevo e apprezzavo l’autore, mi prestò La festa del ritorno, e a Natale, un mio caro amico, mi regalò La collina del vento. Quest’ultimo, che ho appena finito di leggere, volevo gustarlo come si fa con il cibo migliore, che conservi al lato del piatto e così sono trascorsi un po’ di mesi. La collina del vento, edito da Mondadori (come gli altri due citati), vincitore del premio Campiello 2012, a partire dalla prima guerra mondiale, restituisce voce alla storia di quattro generazioni di una famiglia del crotonese incastrandosi perfettamente con le vicende che hanno sfregiato l’Italia intera nello squarcio di tempo considerato. È un omaggio alla cultura di una terra spesso bistrattata dalla cattiva gestione e da chi non ha rispetto per il territorio e il lavoro onesto; a Paolo Orsi, archeologo trentino che, con la sua attività, ha saputo riportare alla luce storie sepolte; a Umberto Zanotti-Bianco, antifascista e ambientalista che insieme a Paolo Orsi fondò la “società della Magna Grecia”; all’antica città greca di Krimisa, distrutta e sepolta a causa di un terribile terremoto o durante la seconda guerra punica, e con esse tutte le città che respirano sotto terra; al dolore causato dalle guerre che continua nelle nostre generazioni; ai migranti che, dall’inizio del ‘900, hanno tracciato una strada che continua ancora adesso, come se la giostra del tempo riportasse allo stesso punto di partenza, non riuscendo ad afferrare il progresso; alla natura e alla sua bellezza; all’amore ed al valore della famiglia; alla nostra identità di cui solo l’uomo può e deve essere custode.

Il custode è più importante di uno scavatore […] conserva la memoria di un luogo, protegge dalle grinfie dei furbi ciò che sta dentro e ciò sta fuori terra, ne difende la dignità.”

Carmine Abate è nato a Carfizzi (KR) il 24 ottobre 1954. Ha studiato in Italia e si è laureato presso l’Università di Bari. Successivamente ha vissuto in Germania e, da oltre dieci anni, vive nel Trentino, dove esercita la professione di insegnante. Il suo primo libro di poesie risale al 1977:Nel labirinto della vita, (Juvenilia, Roma). Come narratore esordisce in Germania con la raccolta di racconti Den Koffer und weg!, (Neuer Malik, Kiel 1984);Lo stesso anno pubblica Die Germanesi, una ricerca empirica socio-antropologica sull’emigrazione svolta con Meike Behrmann (Campus, Frankfurt-New York 1984; ed it., I Germanesi, Pellegrini, Cosenza 1986, ristampata in nuova ed. da Ilisso Rubbettino nel 2006). Dirige la collana “Biblioteca Emigrazione” (Pellegrini Ed.) per la quale ha curato In questa terra altrove (1987), un’antologia di testi letterari di emigrati italiani. Successivamente ha pubblicato una raccolta di racconti Il muro dei muri da giugno 2006 in nuova edizione (Oscar Mondadori, pp. 210, euro 8.40) e nel 1991 è uscito il suo primo romanzo Il ballo tondo, attualmente alla terza edizione (Piccola biblioteca Oscar Mondadori, 2005), pubblicato in prima edizione da Marietti (Genova) e in seconda edizione da Fazi (Roma, 2000).  Nel 1996 pubblica un libro di poesie Terre di andata (Argo). Nel 1999 esce il romanzo  La moto di Scanderbeg (Fazi, Roma 1999; ed. tascabile 2001, Oscar 2008). Nel 2002 esce il romanzo Tra due mari (Mondadori, 2002, Oscar 2005) vincitore di numerosi prestigiosi premi. Nel 2004 esce il romanzo La festa del ritorno (Mondadori, 2004)  vincitore del “Premio Napoli”, “Premio Selezione Campiello” e Premio Corrado Alvaro e di cui sono stati opzionati i diritti cinematografici. Nel 2006 pubblica il romanzo Il mosaico del tempo grande (Mondadori, 2006, Oscar 2007).  Nel 2008 scrive il romanzo Gli anni veloci (Mondadori, 2008)vincitore del Premio Tropea e attualmente alla terza edizione. Nel 2010 scrive il libro di racconti Vivere per addizione e altri viaggi (Piccola Biblioteca Oscar Mondadori) e la raccolta di poesie e proesie Terre di andata (Il Maestrale). Il suo capolavoro, che vince il premio Campiello 2012, è il romanzo La collina del vento (Mondadori, 2012). Nell’ottobre 2012 esce, Le stagioni di Hora (Mondadori) che comprende tre romanzi  – “Il ballo tondo”, “La moto di Scanderbeg” e “Il mosaico del tempo grande”. La sua ultima opera è Il bacio del Pane (Mondadori, 2013). I suoi libri, vincitori di numerosi premi, sono tradotti in Germania, Francia, Olanda, Grecia, Portogallo, Albania, Kosovo, USA e in corso di traduzione in arabo.

:: Segnalazione di Sono stato un numero Alberto Sed racconta (La Giuntina, 2009) a cura di Natalina S.

9 novembre 2013

Sono-stato-un-numero“Le pagine più belle non sono di carta, le scrive il cuore”. Parto da questa frase che, insieme a tante altre contenute nel libro, mi è entrata dentro durante la lettura. La mia testimonianza non vuole essere una recensione, semplicemente un consiglio per avvicinarsi ad una narrazione reale, significativa, profonda, oserei dire, catartica di cui solo il cuore può esserne l’autore. Arrivata fino in fondo, con gli occhi carichi di lacrime, la voce interrotta dal singhiozzo e il cuore strozzato dalla crudeltà di cui il genere umano, quello stesso a cui appartengo, si è reso artista maledetto, sento il bisogno di preservare coloro che non sono pronti ad affrontare una lettura tanto forte, così come lo stesso Riccardi raccomanda. Al contrario, se il vostro cuore si sentisse pronto, apritelo, perché oltre al dolore, in questa historia, è contenuta la freschezza della vita. Al signor Alberto, che lo immagino con il volto buono di mio nonno, il mio grazie perché dall’orrore è riuscito a far sgorgare solo amore come lo stesso De Andrè cantava “dal diamante non nasce niente, dal letame può nascere un fiore”. A  Riccardi, la più sincera gratitudine per aver raccolto e fatto giungere a noi quel cuore che l’Olocausto non è riuscito a sporcare ma intingere di sentimenti più puri.

Questo libro racconta la vita di Alberto Sed dalla nascita ai giorni nostri. Rimasto orfano di padre da bambino, Alberto è stato per anni in collegio. Le leggi razziali del 1938 gli hanno impedito di proseguire gli studi. Il 16 ottobre 1943 è sfuggito alla retata effettuata nel ghetto di Roma. E’ stato catturato in seguito, insieme alla madre e alle sorelle Angelica, Fatina ed Emma. Dopo il transito da Fossoli, la famiglia è giunta ad Auschwitz su un carro bestiame. Emma e la madre, giudicate inabili al lavoro nella selezione condotta all’arrivo, sono finite subito nella camera a gas. Angelica, un mese prima della fine della guerra, è stata sbranata dai cani per il divertimento delle SS. Solo Fatina è tornata, segnata da ferite profonde: ha assistito alla fine di Angelica ed è stata sottoposta agli esperimenti del dottor Mengele.
Alberto è sopravvissuto a varie selezioni, alla fame, alle torture, all’inverno, alle marce della morte. Ha partecipato per un pezzo di pane ad incontri di pugilato fra prigionieri organizzati la domenica per un pubblico di SS con le loro donne. Dopo essere scampato a un bombardamento, è stato liberato a Dora nell’aprile 1945. Tornato a Roma, superate le difficoltà di reinserimento, ha iniziato a lavorare nel commercio dei metalli e si è sposato. Ha tre figli, sette nipoti e tre pronipoti.

Roberto Riccardi (Bari, 1966), colonnello dell’Arma e giornalista, dirige la rivista Il Carabiniere. Ha esordito per Giuntina con Sono stato un numero. Alberto Sed racconta (2009), che ha vinto il Premio Acqui Storia ed è arrivato in finale al Premio dei Ragazzi dell’Adei-Wizo. Con Legame di sangue (Mondadori, 2009) si è aggiudicato il Premio Tedeschi, annuale del Giallo Mondadori. Ha pubblicato racconti per il Giallo Mondadori e per Hobby & Work Publishing.