E dove sono adesso, dove io e Eric siamo seduti, sdraiati, a dormire, a guardare, in questa calda giornata d’estate, tra sei mesi cadrà la neve. Il ghiaccio e il gelo, la brina e la condensa, il vento ululante che arriva dalla Siberia, spinto sopra la Scandinavia a spazzare il Mare del Nord, le acque grigie del mondo e l’aria livida dei cieli. Tutte queste cose poggeranno le loro mani fredde e decise su questo posto e ne prenderanno possesso.
Voglio ridere, o piangere, o tutt’e due le cose, mentre sto qui a pensare alla mia vita, alle mie tre morti. Quattro, ora, visto che la verità di mio padre ha ucciso ciò che io ero.
La fabbrica delle vespe (The Wasp Factory, 1984) libro d’esordio dell’autore scozzese Iain Banks, tradotto da Alessandra Di Luzio, (autrice anche della interessante postfazione da leggere rigorosamente dopo aver letto il romanzo fino all’ultima parola), fu edito per la prima volta in Italia con il titolo La fabbrica degli orrori da Fanucci nel 1996, per poi passare a Guanda e Tea alcuni anni dopo.
Ora, dopo che Alessandra Di Luzio ha rivisto e revisionato la traduzione, approda a Meridiano Zero e inaugura la collana “de te fabula narratur” punta di diamante del nuovo corso della gloriosa casa editrice padovana intrapreso con la acquisizione da parte di Odoya.
In più occasioni definito romanzo di culto La fabbrica delle vespe è un romanzo decisamente surreale e inquietante e per alcuni versi anche scioccante non tanto per gli aspetti macabri e per la violenza descritta fin nei minimi dettagli contro animali e bambini, sottolineata da abbondanti dosi di humour nero, ma per la totale naturalezza con cui il protagonista descrive il suo essere percepito come normale e deprivato quasi da ogni senso di colpa, sebbene abbia la consapevolezza di avere crimini spaventosi sulla coscienza.
Frank Cauldhame, il sedicenne antieroe e narratore in prima persona di questa terribile favola macabra, possiede o è posseduto dal Male nella sua forma più velenosa e eccessiva. La sua infanzia, la sua adolescenza sono dominati da un segreto che verrà rivelata nell’ultimo capitolo, forse nel finale più sconcertante che abbia mai letto.
La tentazione di rivelarvi questo segreto è tanta e la capacità della traduttrice di non fare trapelare nulla durante la traduzione è davvero eroica, per cui cercherò di resistere e di parlarvi di questo libro senza rovinarvi il salto sulla sedia che farete nel leggere di cosa Frank è vittima, fatto che ribalterà probabilmente in parte la pessima opinione che vi sarete fatti di lui o anche se non giustificherà del tutto il suo comportamento perlomeno gli darà una spiegazione comprensibile e quasi razionale.
Dite che è impossibile? Non conoscete il sottile amore per il paradosso di Iain Banks, conosciuto in Italia forse più per i suoi libri di fantascienza con il nome di Iain M. Banks, ma capace di costruire trame contaminate di horror e critica sociale davvero sinistre.
Frank Cauldhame adolescente complicato e fuori dalla società, non ha certificato di nascita né è mai andato a scuola, vive con il padre in una piccolissima isola della Scozia in uno stato di quasi completo isolamento sacerdote di un culto quasi religioso che implica le immolazioni come vittime di piccoli animali e anche di tre bambini, uccisi quando non aveva ancora compiuto dieci anni.
La sua sete di sangue e di dolore sembra avere origini oscure probabilmente legate a cosa succede dietro la porta dello studio di suo padre, sempre chiusa a chiave. La strana normalità in cui Frank è immerso sembra precipitare quando vengono avvertiti che il fratello Eric, piromane da anni rinchiuso in ospedale psichiatrico, è scappato e la polizia pensa che sia stia dirigendo nell’isola per tornare a casa.
Per palati forti.
Iain Banks (Dunfermline 1954-2013), grandissimo scrittore scozzese, è considerato dalla critica e dai lettori l’autore più significativo emerso nella fantascienza britannica contemporanea. Dopo aver girato l’intera Europa in autostop svolgendo i più svariati lavori, negli anni Ottanta è clamorosamente salito alla ribalta letteraria con la pubblicazione del romanzo La fabbrica delle vespe (Meridiano Zero 2012). Fra le sue opere fantascientifiche magistrali sono i romanzi appartenenti al celebre “Ciclo della Cultura”.

Día de los muertos di Kent Harrington è un nero di confine, anzi un nerissimo piccolo capolavoro simile ad un tizzone sputato dall’inferno. Un classico che la Meridiano Zero rispolvera in grande stile in una nuova edizione che farà felici non solo i vecchi appassionati di noir come me, ma anche coloro che si accostano per la prima volta al genere e vogliono iniziare con i capisaldi del noir americano sporco e cattivo per intenderci, quello senza redenzione e senza luce anche se ambientato nell’assolata e bollente Tijuana, città feticcio del genere, da quando James Ellroy (chi non si ricorda di Tijuana Mon Amour), l’ ha eletta capitale mondiale dei disperati, dei maledetti da Dio e dagli uomini.
Immaginatevi una città fantasma di quelle che costellano come chiazze polverose la desolante realtà della provincia americana. Una città che si sviluppa lungo un’unica via, un’ unica spina dorsale, la Main Street, costeggiata da negozi: la bottega del barbiere, l’emporio, la banca, l’ufficio dello sceriffo, la stazione dei pompieri. Edifici che sembrano i resti spettrali di un vecchio set cinematografico abbandonato dove si giravano vecchi western con il sottofondo lagnoso di qualche ballata country. Con un unico bar Skeeter ’s dove si facevano anche hamburger, un vecchio drive-in, il Tropicana, ormai dismesso e in avanzato stato di abbandono, un motel, una stazione di servizio Texaco, un trailer park che si riduce ad essere “uno scalcinato assembramento di una ventina di case mobili” e tanta campagna incolta, coltivata, adibita a pascolo, limitata da ranch.
Stanze nascoste è essenzialmente un libro di memorie, lo sforzo di un uomo che sente avvicinarsi la vecchiaia, forse anche la morte, e vuole fare un bilancio della propria vita ricorrendo ad un’arma a doppio taglio, un’arma impropria in fondo che se mal maneggiata può fare solo danno: l’uso sconsiderato della verità.
Si chiamava Robert William Arthur Cook, ma gli amanti del noir lo ricorderanno come Derek Raymond, pseudonimo con cui firmava uno dopo l’altro i suoi capolavori: E morì a occhi aperti, Aprile è il più crudele dei mesi, Come vivono i morti, Il mio nome era Dora Suarez.























