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::Vini, spezie, pastelli volativi e confetti di zucchero, Davide Chiolero (Graphe.it, 2025) A cura di Viviana Filippini

13 marzo 2025

“Vini, spezie, pastelli volativi e confetti di zucchero. Breve storia della cucina e dell’alimentazione nel Medioevo” è il libro di Davide Chiolero, edito da Grpahe.it, che porta i lettori alla scoperta di come si mangiava in Europa in epoca medievale. Quello che emerge dalla pagine del saggio, non è solo il fatto che nel Medioevo alcuni degli alimenti che oggi utilizziamo in cucina non fossero presenti in Europa. Tra di essi ricordiamo il mais, la patata, il pomodoro, il cacao, i fagioli, il tacchino per citarne qualcuno. Ciò che si scopre è che l’uomo medievale ha definito se stesso e anche il suo mondo pure in base al cibo, a come lo cucinava, condiva, o se era legato a delle ritualità sociali e religiose. Cibo quindi non solo come nutrimento, ma come elemento fondamentale per definire se stessi e il proprio ruolo, o della propria famiglia/casata, all’interno della società. La cosa interessante del saggio è che ci permette di scoprire come, per esempio, in epoca medievale fossero molto usate spezie, non solo per insaporire, ma per nascondere l’odore sgradevole che esso poteva assumere, visto che non c’erano i frigoriferi per la conservazione come ai tempi nostri.  Spezie alla portata di tutti perché avevano costi accessibili e spezie più eleitarie che, invece, potevano essere comprate solo dai ricchi e questo era per loro un modo di dimostrare la propria potenza. A raccontarci però come si cucinava e cosa si mangiava ci sono, e vengono citati in apposita sezione, alcuni antichi trattati che ci aiutano a capire di più, compreso il fatto che esistesse una cucina più ricca di solito per i nobili che, avendo maggiori fondi economici, potevano anche permettersi di acquistare alimenti e condimenti più costosi. Accanto ad essa c’era una cucina povera, non solo perché tipica delle classi meno abbienti, ma perché proprio basata su ingredienti meno costosi. Un esempio pratico, i più ricchi prediligevano prodotti freschi e il pane bianco, i più poveri il pane nero e fonti di proteine alternative alla carne, come le uova. Certo è che oltre al potere economico, il cibo veniva scelto in base alla stagionalità e a quello che essa offriva e alla religione che dettava ieri, più di oggi, basi su come gestire l’alimentazione in rapporto al calendario liturgico. Non solo perché c’era un sistema alimentare ispirato all’epoca romana e uno più vicino ai barbari. La differenza?  Nel caso dei romani c’erano alcuni elementi come pane, vino e olio, mentre quella barbarica aveva al centro carne, lardo e birra. In epoca medievale questi alimenti si mescolarono determinando l’alimentazione del periodo dell’anno mille. Altri due tratti fondamentali della cucina medievale erano, uno, i sapori/ gusti che prevalevano in cucina, principalmente forte-dolce-acido. L’altro aspetto era più legato alla presentazione scenografica del cibo con l’ostentazione della propria ricchezza grazie, per esempio, all’esaltazione dei colori e attraverso  le pietanze di qualità e presenti in gran in quantità, accuratamente preparate e mostrate come gioielli agli occhi dei commensali.  Tra di essi “il pastello volativo”, una torta ad effetto con sorpresa. Altra curiosità è che in un Europa medievale dove era molto diffuso il consumo di carne, il pesce era usato nei monasteri ed era legato al segno di rinuncia e ai pasti di magro. Altri alimenti molto utilizzati nella cucina medievale erano i cereali (segale, avena, sorgo, miglio e panico) e i legumi (piselli, fave, cicerchie) e quando c’erano momenti di carestia, entrava in gioco in modo più consistente il consumo di formaggio come fonte calorica. “Vini, spezie, pastelli volativi e confetti di zucchero. Breve storia della cucina e dell’alimentazione nel Medioevo” di Davide Chiolero è un viaggio curioso e ricco di dettagli nella cultura gastronomica medievale, alla scoperta di un’identità culinaria fatta di gusti, colori, sapori, aromi e cibi strettamente legati alla sopravvivenza e nutrimento umano e alla dimensione socio-culturale-religiosa- econmica del Medioevo.

Davide Chiolero (1991) dopo la laurea magistrale in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Torino è docente di lettere e storia dal 2017. Nel 2023 è diventato titolare di cattedra presso l’istituto di istruzione secondaria di primo grado di Montechiaro d’Asti. Nel 2021 è entrato a far parte della redazione di “Arma Virumque”, rivista universitaria torinese di storia militare, per la quale ha pubblicato “Elmi con le corna e asce bipenni: l’equipaggiamento del vero guerriero vichingo” (2021). I suoi interessi principali riguardano numerosi aspetti della storia culturale e materiale del periodo medievale. È autore de “I vichinghi e la morte. La ritualità funebre scandinava fra migrazione e stanzialità” (sec. VIII-XI) e “Il bestiario del Trésor di Brunetto Latini”, editi  da Il Cerchio

:: Perché leggere Dostoevskij, Antonio Schlatter Navarro (Graphe.it Edizioni, 2024) A cura di Viviana Filippini

7 febbraio 2025

“Perché leggere Dostoevskij” è un saggio di Antonio Schlatter Navarro, con prefazione di Valerio de Cesaris, rettore dell’Università degli Studi di Perugia, dedicato al grande scrittore russo che ha l’intento di indagare i temi presenti all’interno delle sue opere, i quali sono ancora oggi attuali. Non so se sia vero che tutti leggono o hanno letto Dostoevskij, ma questo saggio che lo analizza in modo dettagliato è la  dimostrazione che i temi affrontati dall’autore russo e che hanno al centro il vivere quotidiano, il rapporto con Dio, la fede, sono ancora radicati nella nostra quotidianità e noi, lettori odierni, possiamo confrontarci ancora con essi e, se non lo abbiamo ancora fatto, provare a leggere i libri di Dostoevskij, senza tanto pensare al numero di pagine, ma ai possibili elementi utili che da esso potremmo trarne. Schlatter Navarro si concentra su alcune opere dello scrittore russo considerando i personaggi protagonisti sui quali Dostoevskij proiettava i sentimenti, le emozioni e le riflessioni che lui stesso visse in prima persona e sulla propria pelle. Tra di essi ci sono il senso di colpa, il giudizio e il pregiudizio, il senso del divino che si manifesta nel quotidiano e nel reale che circonda. Trovano però spazio anche quelle tenebre costanti e perenni, presenti anche con la luce, nelle quali i personaggi si muovono quasi sempre nell’attesa della rivelazione o verità che salva. C’è un senso di libertà che ognuna delle singole creature letterarie  cerca e desidera, ma c’è anche il senso di un insieme di persone che formano il  popolo come forza viva e motrice. Queste sono alcune delle tematiche che Navarro analizza, perché esse erano fondamentali per lo scrittore russo che le metteva nei suoi romanzi e nei diversi personaggi impegnati in un lungo processo di ricerca di redenzione e salvezza. Schlatter Navarro sottolinea ed evidenzia poi altri argomenti costanti per Dostoevskij come la fede in Dio, la figura di Cristo e della sua grande capacita di perdonare tutto, il ricercare i suoi/loro insegnamenti nel quotidiano che lo spingevano  all’analisi e all’indagine della realtà che lo circondava e nel suo animo in rapporto a essa. Altra fonte di ispirazione per Dostoevskij furono le sue visioni, quelle che lo affliggevano e tormentavano quando aveva gli attacchi di epilessia e che lo conducevano in una sorta di mondo altro, tutto da comprendere e decifrare. Questi elementi, uniti alle esperienze drammatiche di vita quotidiana minata dai problemi economici, dolori familiari dovuti alla morte prematura della madre, quelli di alcolismo del padre, la morte della moglie, il secondo matrimonio parecchio lontano dalla felicità, e i suoi problemi con il gioco d’azzardo, affiancati a traumi di diverso genere, colpirono Dostoevskij che poi li esorcizzò (o almeno di provò) mettendoli  nelle sue opere letterarie. Quello che emerge dal saggio di Navarro è che la scrittura, inventare trame e intrecci, dare forma a personaggi dall’animo tormentato e in subbuglio, furono per Dostoevskij una vera e propria valvola di sfogo per analizzare la sua dimensione più profonda, il suo  animo e  i tormenti che lo caratterizzavano. Suoi sì, ma comuni anche a tutti gli altri esseri umani del suo tempo e, come ci dimostra Navarro in queste pagine, del nostro. Interessante alla fine del libro anche un “Epilogo” con le indicazioni dell’ipotetico e ideale ordine di lettura degli scritti di Dostoevskij. Con “Perché leggere Dostoevskij”, tradotto in italiano da Natale Fioretto, Navarro ci prende per mano e ci accompagna alla lettura delle opere di dell’autore di “Delitto e castigo” (per citarne uno), proprio per aiutarci a comprendere i suoi testi che a volte paiono cupi e criptici, quasi difficili da decifrare, ma che nascondo illuminanti verità esistenziali per non avere più timore e affrontare il domani.

Antonio Schlatter Navarro, nato a Siviglia, è un sacerdote della Prelatura dell’Opus Dei. Ha esercitato il ministero in diverse diocesi della Spagna: Murcia, Valencia e Saragozza e attualmente a Cordova. Laureato in Giurisprudenza all’Università di Jaén, dove ha esercitato la professione di avvocato, ha conseguito la laurea in Teologia alla Pontificia Università della Santa Croce in Roma e il dottorato in Filosofia all’Università di Navarra. Tra le sue pubblicazioni : “Mero Catolicismo” (Palabra); “A la mesa con Dios”  e “Trabajo del hombre, trabajo de Dios” (entrambe per Rialp); “Murillo con ojos nuevos” (Eunsa); “Miguel Mañara” (Sinergia). “Por qué leer a Dostoyevski” (Eunsa) è il suo ultimo libro e il primo a essere tradotto in italiano.

Source: grazie all’ufficio stampa 1A Comunicazione.

Intervista a Aldo Setaioli curatore de“Canti e leggende dei Ch’uan Miao” (Graphe.it). A cura di Viviana Filippini

17 luglio 2024

“Canti e leggende dei Ch’uan Miao” raccoglie gli affascinanti racconti e le particolari leggende di un popolo senza letteratura scritta. La popolazione è una delle minoranze riconosciute dal governo cinese (i Ch’uan Miao), diventate note al grande pubblico come gli Hmong del film “Gran Torino” di Clint Eastwood. In questa raccolta, curata da Aldo Setaioli per Graphe.it, ci sono alcune leggende del folclore popolare dove, a tratti, è possibile trovare qualcosa di familiare, anche se lontano da noi nello spazio e nel tempo. Ne abbiamo parlato con il curatore Aldo Setaioli.

In base a cosa o come ha scelto le storie inserite in “Canti e leggende dei Ch’uan Miao”? Innanzi tutto vorrei spiegare come sono venuto a conoscenza della popolazione dei Ch’uan Miao. Nel 2000 compii una crociera sul fiume Yang zi, il maggiore della Cina, e all’altezza della piu’ grande delle tre celebri gole del fiume, risalii lo Shennong, un piccolo affluente di sinistra del grande fiume in un sampan tirato a mano dalla riva. Giunsi cosi’ a un villaggio di un’altra minoranza, i Tujia, affine ai Ch’uan Miao, che abitano in prevalenza sulla riva opposta del grande fiume. Li’ per la prima volta sentii parlare di quest’altra minoranza affine. Solo più tardi, nel 2008, mi resi conto che si trattava della stessa popolazione di emigrati negli Stati Uniti del film di Clint Eastwood, Gran Torino: gli Hmong, che è il nome che quella popolazione si da’ nella propria lingua (Ch’uan Miao è il nome dato loro dai Cinesi). Venni in contatto diretto col folklore dei Ch’uan Miao ancora piu’ tardi, in rapporto alla mia attività di filologo classico, che pero’ ha sempre nutrito grande interesse per le culture e letterature orientali. Durante la stesura di un lavoro, presentato nel 2019 a Seoul, la capitale della Corea del Sud, che confrontava le versioni occidentali e orientali della leggenda di Androclo e il leone, dovetti prendere in considerazione, insieme con vari paralleli nella letteratura cinese, alcuni canti dei Ch’uan Miao di argomento simile (anche se, come sempre in Cina, il posto del leone viene preso da una tigre). Consultai perciò l’intera raccolta dei “Canti e Leggende dei Ch’uan Miao” messa insieme negli anni ’30 del secolo scorso dal missionario David Crockett Graham, pubblicata in uno dei volumi della Smithsonian. Incontrai così molti altri canti che mi sembrò utile e interessante far conoscere ai lettori italiani. La raccolta è molto vasta, ma siccome è fondata esclusivamente sulla tradizione orale, esistono numerose versioni della stessa leggenda, e in molti casi si incontrano incongruenze e contraddizioni, che hanno forzatamente ridotto la scelta dei canti da raccogliere nel volume. Ho scelto molti dei canti che presentano affinità col folklore nostro e di tanti altri paesi, sul piano cosmologico e religioso (creazione, diluvio, peccato originale) e favolistico, oltre che con leggende simili ad alcune delle nostre (per esempio quella di San Cristoforo) e anche con l’idea che fa derivare gli uomini da esseri scimmieschi. 

Che idea si è fatto di questa comunità? E’ una comunità rimasta isolata. Fino a verso la metà del secolo scorso non ha avuto alcuna tradizione scritta, ma ha conservato la sua lingua e le sue caratteristiche originali, pur in mezzo alla preponderanza territoriale e politica dei Cinesi, che li ha costretti a ritirarsi in zone sempre più ristrette e periferiche e, nel corso dei secoli, anche a emigrare in altri paesi, come il Laos, il Myanmar e il Viet Nam (da lì provengono gli Hmong del film Gran Torino). Ha inoltre sempre conservato il suo rapporto intimo con la terra (l’agricoltura e’ quasi l’unico mezzo per la sua sopravvivenza) e con la propria religione, che oltre a dei e demoni attribuisce vita e potenza o ogni oggetto, materiale e immateriale (come il tuono, l’eco, l’arcobaleno). Tramanda con musica e canti il suo ricco patrimonio culturale. Un ultimo frammento di umanita’ rimasto in uno stato di autentica originalità.

Quale è il filo conduttore delle leggende e canti presenti nel volume? In parte ho già risposto a questa domanda. Ho voluto che il lettore scoprisse da sè i tanti elementi comuni tra noi e questa popolazione così diversa e lontana. Ma un altro filone importante èil rapporto tra cielo e terra (un tempo uniti da una scala, interrotta per colpa degli uomini), come pure tra le generazioni presenti e quelle passate. E ho anche voluto mettere in evidenza certe idee morali, prima fra tutte l’avversione per il furto, tipica delle societa’ povere piu’ che di quelle ricche.

Ha trovato qualche somiglianza tra la cultura Miao e il nostro folclore? Moltissime: i fratelli ciascuno dotato di capacità straordinarie, il bel giovane nascosto sotto la pelle di un brutto animale, il demone racchiuso in una brocca, l’avidita’ punita, il ragazzo abbandonato nel bosco, i piccoli uomini che vivono sotto terra, il mantello che rende invisibili, sono motivi di tante storie che da bambino mi venivano raccontate da mia nonna, che certamente non aveva mai sentito parlare dei Ch’uan Miao.

Nelle storie tornano spesso elementi naturali, animali, ma anche demoni e figure buone in aiuto dei personaggi principali. Che ruolo avevano nella vita dei Ch’uan Miao questi racconti? Il mondo dei Ch’uan Miao è profondamente unitario. Dei e demoni interagiscono con gli uomini, cielo e terra sono tutt’uno, ed entrambi hanno bisogno di essere tenuti insieme da solidi legami – altrimenti si disgregherebbero. Le forze malefiche sono tenute a fremo dello sciamano, il tuan kung, e gli antenati proteggono se vengono onorati, possono punire se trascurati. Tutti questi elementi fanno parte di un mondo coerente e unitario, dove gli opposti non solo si equilibrano, ma hanno tutti la loro ragione e importanza. Questi canti sono il patrimonio culturale che da’ senso al bene e al male che l’uomo incontra nel mondo.

In alcune storie i Ch’uan Miao si confrontano con i Cinesi, ci racconta qualcosa su loro rapporto? I Ch’uan Miao si consideravano fratelli dei Cinesi. La loro origine, secondo le loro leggende, è comune. Ma i Cinesi hanno approfittato del loro numero e del loro potere per emarginare sempre piu’ i Ch’uan Miao, e a volte per cacciarli in altri paesi. Tracce evidenti di questo risentimento si incontrano nelle loro leggende.

Come è stato svolgere il lavoro di traduzione, che emozioni le ha lasciato il contatto con questa popolazione che sta in Cina, ma è diversa dai Cinesi? Prima della traduzione è stato necessario un vasto e difficile lavoro di scelta, anche a causa della condizione in cui la trasmissione orale ci ha trasmesso questi racconti. Ma una volta operata la scelta, tradurre questi racconti è stato come penetrare in un mondo meraviglioso, in cui l’insolito e il familiare s’incontrano ad ogni passo e mostrano la sostanziale unità del genere umano.

Se dovesse individuare 4 parole rappresentative dei “Canti e leggende dei Ch’una Miao” quali userebbe e perché? La prima: Unità del cosmo. La seconda: Unità fra le generazioni. La terza: Sapienza dei popoli tramandata dal folklore. La quarta: Lavoro e onestà fondamento della vita.

:: Emiliano Tognetti racconta “Behind the Nobel”, dove alcuni premiati si raccontano (Graphe.it 2023) a cura di Viviana Filippini

23 Maggio 2023

Chi sono davvero i premiati con il Nobel? Che vita facevano prima dell’importante riconoscimento? E dopo? “Behind the Nobel” di Emiliano Tognetti, edito da Graphe.it, raccoglie le interviste ad alcuni premi Nobel (Roald Hohfmann, Frederik de Klerk, Richard John Roberts, Peter Charles Doherty, Paul Maxime Nurse, Dennis Mukwege, Didier Patrick Queloz) che hanno raccontato la loro vita prima del premio, le emozioni al momento della chiamata per Stoccolma e quello che è accaduto dopo. Un libro curioso, interessante, dove si scoprono i Nobel e le loro vite non solo per meriti in ambito medico, fisico, matematico, letterario o per la pace. Da queste pagine emerge l’aspetto professionale dei premiati, ma soprattutto quello umano con tutte le emozioni che li caratterizzano.  A raccontarci del libro l’autore Emiliano Tognetti.

In che modo ha contattato i vari premiati? Non è stato facile, ma durante la pandemia ho avuto del tempo per cercare su internet, sul sito della Fondazione Nobel e su Wikipedia, i loro riferimenti e piano piano, contattando le segreterie delle fondazioni, delle università, degli uffici stampa, ho inviato molte richieste di intervista presentando il progetto e quei sette, o meglio gli altri sei, visto che uno mi aveva già dato la disponibilità per un’intervista per il mio magazine “7gifts.org” (www.sevegifts.org), sono coloro che hanno accolto positivamente la mia richiesta e si sono resi disponibili a rispondere alle mie domande.

Come è stato intervistare i premi Nobel? È stato emozionante e costruttivo, perché l’intervista è stata preparata leggendo la loro biografia e i loro studi, e quindi poi è stato affascinante sentir raccontare dalla loro voce le scoperte, il ricordo, l’esperienza di quanto hanno vissuto. Ognuno ovviamente in maniera diversa e personale, ma non per questo, meno importante o sentita.

Tra i sette che hanno accettato l’intervista ci sono delle storie che l’hanno colpita in modo particolare e perché? Premesso che tutte ed ognuna sono uniche, quella che mi ha emotivamente impattato di più, anche per il tema estremamente delicato è quella del dottor Mukwege, che si è trovato, da ginecologo a lottare contro la violenza sulle donne. Poi non posso negare che mi ha divertito molto Rich Richards, che è stato molto gentile e molto divertente ascoltare e poi trascrivere e lui è un esempio chiaro di come impegnare il loro prestigio internazionale per fare del bene verso la società civile e le persone “meno fortunate” sotto tanti punti di vista.

Tra le domande che tornano spesso c’è quella in cui chiede ai premiati dove e cosa stessero facendo quando hanno ricevuto la notizia e come è cambiata la loro vita dopo il premio. Cosa è emerso da esse? È emerso che la notizia arriva in un momento in cui non ti aspetti. Non è un concorso in cui, bene o male, hai un range di tempo nel quale conosci l’esito, ma può arrivare la chiamata da Stoccolma mentre dormi, mentre sei in una riunione o mentre ripari una biciletta. Ogni persona ha avuto il suo brivido, quando meno se lo aspettava e questo forse è l’aspetto più intrigante delle singole storie.

Quanto è importante far conoscere i Nobel come persone e non solo come coloro che hanno ricevuto l’importante riconoscimento? Direi che è fondamentale! Nel senso che sono persone come noi; ognuno di noi è un potenziale “Nobel”, il premio non conferisce loro uno status di “semi-divinità”, se mi è permesso esagerare il temine di paragone. Sono persone straordinarie, nel senso di “fuori dall’ordinario” perché, molti di loro, hanno saputo “guardare oltre” se stessi ed il proprio recinto personale, parlo nel caso dei premi per la pace, oppure perché nel loro lavoro hanno messo impegno e passione e si sono ritrovati, assieme ad altre persone dei team di lavoro, a fare scoperte importanti che si sono rivelate passi avanti nella scienza. Quello che è emerso è che il premio Nobel, ti da una cassa di risonanza mondiale e al tuo pensiero viene dato un peso che prima non aveva. Sta a loro, ad un ognuno di loro usare questo “potere” con responsabilità; come diceva un famoso fumetto “da grandi poteri, derivano grandi responsabilità” e come diceva un famoso romanzo è importante “cosa fare con il tempo concesso”; in queste due frasi, c’è il senso di utilizzare bene la potenzialità del titolo di “Nobel”.

Cosa le ha lasciato questa esperienza e il narrare le vite di questi sette Nobel prima e dopo il premio? Mi ha lasciato un’esperienza grande interiormente e l’aver appreso che anche nel tuo piccolo puoi fare molto ed essere un “premio Nobel per la vita”, cominciando dalla tua vita e da quella delle persone che hai vicino, perché se non sai prenderti cura di te stesso e di chi hai accanto, come puoi pensare di risolvere i problemi del mondo che spesso nascono dalle singole azioni di ognuno di noi? Questa è la grande lezione che ho imparato, o ricordato da loro.

Solo una donna ha risposto all’appello, riesce a trovare una spiegazione? Si chiama libertà. Io ho contattato tutti i premi Nobel, maschi e femmine che sono riuscito a trovare ed ognuno ha risposto come ha voluto. Tanti hanno detto “no grazie”, alcuni “si” ed è loro libertà, rifiutare l’intervista per tantissimi motivi, che poi restano nascosti fra le righe della risposta. Per quanto mi è stato possibile, ho ricontattato soprattutto le donne, ma questo è. Ho lavorato in uno spirito di “parità di genere” nelle richieste e rispettato la parità e la libertà di genere, nelle risposte.

Sarebbe però fattibile un seguito con solo premi Nobel al femminile? Io lo auspico. L’ho scritto anche nel libro che se qualcuno avesse qualche contatto o canale e potesse darmi una mano, sarebbe una cosa gradita ed auspicabile, poter fare un secondo volume con voci femminili o miste, maschi e femmine. Per ora direi che la cosa bella è far vedere la qualità del libro, se piacerà ai lettori, che è sempre la cosa più importante e magari con questo “attestato di merito per il lavoro svolto”, potremmo avere un volume con più voci femminili. A questo proposito, vorrei sottolineare che ho voluto una prefazione “al femminile” e di qualità, cosa che ho trovato in Ana Blandiana, proprio come forma di “riscatto” per non avere un libro con solo voci maschili, che sarebbe stato lo stesso un buon lavoro, ma credo che così possa rendere onore anche al mondo femminile, che è la prima voce che il lettore incontra quando inizia l’avventura del saggio.

Source: richiesto all’editore. Grazie all’uffcio a 1AComunicazione.

L’Omino di Giovinazzo. Fortunato Depero: 1926, passaggio in Puglia, Aguinaldo Perrone, (Graphe.it, 2022) A cura di Viviana Filippini

11 marzo 2022

Sembra un giallo “L’omino di Giovinazzo” di Aguinaldo Perrone, artista, studioso di cartellonismo, edito da Graphe.it. In realtà il libretto è un curioso saggio breve nel quale l’autore cerca di fare luce su un disegno ritrovato a Giovinazzo, in Puglia, dove l’artista Fortunato Depero passò nel 1926 (non a caso il sottotitolo è Fortunato Depero: 1926, passaggio in Puglia). Tra le pagine del testo si cerca ci capire se effettivamente Depero, noto anche come l’artista più futurista dei futuristi, tra i padri del Secondo Futurismo e dell’aeropittura, passò effettivamente a Giovinazzo. Prove certe sembrano non esserci, ma qualche indizio sì. Tra i papabili elementi un disegno su cartoncino leggero dove è disegnato un omino in marcia. Partendo da questo disegno ritrovato durante i lavoro di ristrutturazione di un bar a Bari, Perrone veste i panni di detective dell’arte e svolge un’indagine sul campo per comprendere l’origine del disegno, snocciolando poi tutte le ipotesi relative al possibile passaggio di Depero a Giovinazzo e alla realizzazione di questo schizzo a china. Tra le componenti che inducono l’autore a pensare che si tratti di un disegno di Fortunato Depero ci sono alcuni elementi grafici: un figura umana stilizzata che sta tra il manichino e il robot, una “f” segnata in modo rapido (potrebbe essere l’iniziale del nome dell’artista) o le forme geometriche come le spirali che richiamano alcuni elementi grafici utilizzati dall’artista nei propri lavori. Le pagine de “L’Omino di Giovinazzo” scorrono via veloci grazie ad una scrittura pulita, chiara, che fa viaggiare il lettore nella vita di un artista che nella sua carriera artistica fece anche lo scenografo, il costumista e il designer. Perciò se “del doman non v’è certezza”, come scriveva Lorenzo de’ Medici nella “Canzona di Bacco”, composta nel 1490 in occasione del carnevale,  anche il dubbio sulla paternità attribuita dell’Omino di Giovinazzo a Depero resta, ma Aguinaldo Perrone, attento esperto di cartellonistica, ha tutti gli elementi giusti per formulare la sua indagine sul quell’omino che, vi dovesse capitare mai di passarci, troverete  stampato sui tovagliolini del Gran Bar Pugliese, magari messi al fianco di una bottiglietta di Campari Soda- anche lei futuristica- e in un secondo, non sarà così difficile riscontrare qualche evidente somiglianza tra l’omino e la bottiglietta di Depero. Il libro presenta una prefazione di Domenico Cammorata.

Aguinaldo Perrone (Aguìn), artista, studioso di cartellonismo. Le sue opere sono state esposte in Italia e all’estero: Milano (Biennale Internazionale del libro d’artista), Berlino, Amsterdam, New York, passando dalla 54ma Biennale di Venezia – Padiglione Puglia. Come autore di libri d’arte e di saggi ha pubblicato: Aguìn, disegniChiedete la lunaIl prodotto definitivamente superioreDepero 1926 passaggio dalle PuglieCatalogo Ragionato di Marchi Inutili e Manuale del Cartellonista ModernoDitelo con cartellonismoNell’ipotesi del cartellonismo e, infine, ha curato la riedizione del libro di Arturo Lancelotti Storia aneddotica della réclame (1912). Ha ricevuto premi e importanti riconoscimenti della sua ricerca storico-artistica, tra cui quelli di Steven Heller (su Print Magazine) e di Fusako Yusaki (prefazione al libro Ditelo con cartellonismo). Dal 2014 insegna Storia dell’illustrazione e della pubblicità presso l’Accademia di Belle Arti di Bari. Il suo sito è www.aguin.it.

Source: inviato dall’editore.

:: Breve storia del romanzo poliziesco di Leonardo Sciascia, con una introduzione di Eleonora Carta (Graphe.it 2022) a cura di Giulietta Iannone

25 febbraio 2022

Pubblicato per la prima volta nel 1975 su Epoca in forma di duplice articolo, più tardi confluito nella raccolta Cruciverba edita da Adelphi, il breve saggio riproposto in questo volume consente una preziosa visuale su come apparisse il cosiddetto “giallo” all’interpretazione di uno straordinario scrittore come Leonardo Sciascia. Non che quest’ultimo si riconoscesse come appartenente a tale genere letterario, per alcuni aspetti del quale non risparmia anzi le critiche; eppure i lettori appassionati della sua opera si rendono certo conto di come Sciascia abbia sfiorato e talvolta percorso – a suo modo – le strutture del noir e del poliziesco, e troveranno estremamente interessanti le parole che egli spende sul tema.

La presente edizione è arricchita dalla curatela di Eleonora Carta, che firma la corposa prefazione.

Breve saggio, ma denso di riflessioni, sul romanzo poliziesco di un maestro della letteratura del Novecento, che nonstante ritenesse il giallo (noir alla francese dal colore delle copertine dedicate a questo genere letterario) letteratura di consumo, ne ha comunque capito le potenzialità tanto da far risalire addirittura alla Bibbia la prima storia di detection (Daniele che smaschera i falsi testimoni contro Susanna) o da fare annoverare Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij nel genere.

Ne consiglio la lettura soprattutto a chi vuole dare uno sguardo disincantato e serio al genere poliziesco, ormai forse anche sdoganato a livello di critica, e soprattutto a Leonardo Sciascia, che nonostante non si ritenesse un “autore di gialli”, nei suoi romanzi spesso ne ha ricalcato le dinamiche.

Molto breve, si legge in una mezz’ora, ma forte sarà la tentazione di sottolineare alcuni passi e scrivere note a margine. Da segnalare la corposa prefazione (un saggio nel saggio) di Eleonora Carta, che cura la pubblicazione. Buona lettura!

Leonardo Sciascia (1921-1989), maestro di scuola, giornalista e politico, è considerato uno dei migliori scrittori del Novecento.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Roberto Russo e Anna Ardissone.