Archive for the ‘Uncategorized’ Category

:: Marsiglia 1945 di Shanmei – in prenotazione

27 settembre 2024

La guerra è finita. La Seconda Guerra Mondiale con i suoi lutti e le sue tragedie ha cambiato il volto di Marsiglia, città portuale, crocevia di genti, di suoni e di colori. Mentre Andrè Durand festeggia la vittoria, dopo essersi distinto in imprese eroiche legate alla Resistenza, scopre con dolore qualcosa che gli avevano tenuto nascosto. Ormai è cambiato, ha chiuso definitivamente con il crimine. Ma gli amici di un tempo hanno bisogno di lui e per convincerlo a partecipare a un nuovo ambizioso e folle colpo gli rapiscono la moglie, Camille. In una lotta contro il tempo lui e il commissario Marchal, ormai diventati amici, dovranno fare di tutto per salvare la donna. Ma si può davvero chiudere col passato?

Seguito di Marsiglia 1937 ritroviamo Andrè Durand, il commissario Marchal, Jojo, Marie e per la prima volta il piccolo François in una storia avventurosa e movimentata ambientata in una Marsiglia crepuscolare e labirintica, appena uscita dalle rovine della Seconda Guerra Mondiale.

In uscita il 24 marzo 2025

:: Kali Yuga di M. Caterina Mortillaro (Delos Digital, 2024) a cura di Giulietta Iannone

22 settembre 2024

Non saprei dire in che maniera fosse accaduto, ma era palese che quella civiltà al tempo stesso tanto fiorente e avanzata e tanto spaventosa era stata sconfitta, annientata. Non se ne vedevano che le macerie. Un virus, una cosa tanto infinitesima e tanto nefasta, aveva rigettato il mondo in un cupo medioevo. Vedendo cotanta miseria dilagare per ogni dove, udendo cotanti lamenti, compresi che mai nome era stato più appropriato per quella calamità: Kali Yuga. L’epoca dell’oscurità. E se da un lato il mio cuore spaurito fu ricolmato di pietà per quella umanità sofferente e disgraziata, dall’altro mi chiesi se non fosse un male necessario al compimento della palingenesi. Dunque, lettore, lascio a te il compito di discernere se codesta eventualità sia da sventare o da benedire, perché, come disse il Santo Francesco, è “morendo, che si resuscita a Vita Eterna”.

La donna li esaminò. – Un franco-indiano, un’italiana e due indiani. Decisamente dobbiamo parlare!

Kali Yuga, edito in una nuova edizione digitale da Delos Digital, di Caterina Mortillaro, vincitrice del Premio Odissea 2019, è un thriller fantascientifico adrenalinico e coinvolgente che ci porta per i quattro angoli del pianeta sulle tracce di un pericoloso hacker che si cela sotto lo pseudonimo, poco rassicurante, di Kalki. I protagonisti, due coppie di simpatici personaggi, si trovano così a combattere una funambolica lotta contro il tempo per salvare il pianeta minacciato da forze oscure e distruttive che traggono le loro origini dal passato e dai miti esoterici della mitologia indiana. Come unica guida un romanzo di fantascienza italiana dei primi del Novecento, precedente alla Grande Guerra, (scovato casualmente in un baule appartenuto a una misteriosa contessa italo-russa Anastasia Bagliotti moglie del conte Alberico Bagliotti e membro della Società Teosofica Internazionale), dal titolo quanto mai profetico di Kali Yuga, scritto da un certo Ermes Anastasi (viaggia nel tempo attraverso il corpo di un uomo del futuro) e pubblicato a Milano dalla Tipografia Fratelli Cavazza. Ma si può cambiare il destino? Giulia, la protagonista principale, che lavorava per la Etnorama, una casa editrice specializzata in autori stranieri di Paesi asiatici e africani scopre che sarebbe iniziato un festival della letteratura proprio a Chennai e si fa mandare in India per approfondire le ricerche sulla Società Teosofica e incontra Florien, un affascinante avvocato metà indiano e metà francese con la fama da playboy, e si trova così invischiata in un’avventura metafisica tra realtà e immaginario, dove mistero, suspense e avventura si fondono in un’unica corrente narrativa che l’autrice sa portare avanti con abilità e destrezza, gestendo una storia complessa e nello stesso tempo scritta con stile immediato, agile e non noioso. Un thriller metaletterario in parte, la cui parte più bella almeno per me è stata quella legata ai libri, l’autrice ha fatto ricerca sui testi riguardante la reincarnazione, la trasmigrazione delle anime, e testi più prettamente utopistici e protofemministi (che ho controllato sono tutti testi non inventati ma realmente esititi come Sultana’s Dream di Rokeya Sakhawat Hossain). Bella la descrizione dell’India con i suoi templi, i suoi slums, le sue sacche di povertà, e la sua mitologia che la Mortillaro conosce approfonditamente. La fantascienza italiana ha finalmente una nuova autrice colta, raffinata e capace di gestire storie anche filosoficamente profonde e impegnative con leggerezza, brio e un pizzico d’umorismo. Da riscoprire.

M. Caterina Mortillaro è nata a Milano. Laureata in Lettere classiche, è insegnante, giornalista pubblicista, traduttrice e dottore di ricerca in antropologia. Nel campo della narrativa ha pubblicato un romanzo contemporaneo per ragazzi, Gli amici della torre normanna (Il Rubino) e numerosi racconti di fantascienza, tra cui Quid est veritas?, secondo classificato al Premio Urania Short, Facciamo venerdì?, pubblicato sul Millemondi Urania Distòpia e Mystika, apparso anch’esso su Urania. Ha curato insieme a Silvia Treves l’antologial’antologia DiverGender. Ha al suo attivo anche il romanzo di fantascienza umoristica Cicerone. Memorie di un gatto geneticamente potenziato, il noir Bollywood Babilonia (Premio Delos Passport 2018), il fantasy umoristico La compagnia del Pisello, finalista al Premio Italia 2021. Devaloka. Il pianeta degli dèi, un planetary romance con elementi di antropologia e religione indiana, ha vinto il Premio Odissea 2019. Questi ultimi sono tutti editi da Delos Digital.

:: “Vuoto, nulla, vacuità. Il buddhismo e il pensiero moderno”, di Marcus Boon, Eric Cazdyn e Timothy Morton (Ubiliber 2024) a cura di Giulietta Iannone

30 agosto 2024

Vuoto, nulla, vacuità Il buddhismo e il pensiero moderno (Nothing. Three Inquiries in Buddhism, 2015) è un’interessante saggio composto da tre saggi di tre dei più profondi e innovativi filosofi contemporanei le cui ricerche stanno ponendo un ponte, mai così necessario come oggi, tra Occidente e Oriente. Tutti con all’attivo numerose e importanti pubblicazioni Marcus Boon, Eric Cazdyn e Timothy Morton analizzano parallelismi, similitudini e affinità tra il vuoto come categoria essenziale del buddhismo e il vuoto della teoria critica occidentale gettando le basi di un serio confronto tra le due scuole di pensiero e soprattutto analizzando il buddhismo come base fondativa per rileggere la dimensione politica dell’Occidente, cosa che non era mai ancora stata fatta e che costituisce il nucleo innovativo di questa opera decisamente originale e necessaria che va così a colmare questa grave lacuna nel dibattuto filosofico conteporaneo.

Il saggio di Marcus Boon si concentra sulla politica ed esplora la politica buddhista del periodo della Guerra fredda.

I dibattiti teorici su buddhismo e il marxismo sono oggi il prodotto di questa scissione ideologica (il cui esito non sono necessariamente due distinte ideologie, ma la scissione stessa come ideologia), in Asia forse quanto in Europa e in America. E, ancora una volta, è proprio nel divario o nella distanza tra queste due visioni apparentemente opposte che si possono inquadrare le nozioni di comunità e il problema del buddhismo politico nei termini in cui li intende Bataille.

Il saggio di Eric Cazdyn compara e compendia la categoria buddhista di “illuminazione”, quella marxista di “rivoluzione” e quella psicoanalitica di “cura” giungendo alla conclusione che hanno una funzione simile.

Il saggio di Morton infine è un’esplorazione del fenomeno che l’autore chiama buddhafobia, una “paura del buddhismo” o meglio del nulla che caratterizza una delle principali ansie generate dalla modernità.

Questo volume è anche corredato poi da un glossario introduttivo dei termini buddhisti, compilato da Claire Villareal che aiuterà chi non ha dimestichezza con questi termini a seguire le argomentazioni e i dibattiti via via svolti. Traduzione di Andrea Libero Carbone.

Marcus Boon è scrittore, giornalista e professore di Inglese alla York University di Toronto. Eric Cazdyn è professore di Estetica e Politica presso la Uni-versity of Toronto; è anche regista e artista. Timothy Morton è titolare della cattedra “Rita Shea Guffey” di Letteratura Inglese alla Rice University di Houston in Texas.

:: Trilby, George du Maurier, (Gallucci editore) A cura di Viviana Filippini

30 Maggio 2024

Arriva per la prima volta in Italia “Trilby” di George du  Maurier,  edito da Gallucci, un romanzo con protagonista una giovane, modella Trilby O’Ferrall, nella Parigi dell’Ottocento, che ebbe così tanto successo di pubblico da dare il via al mito della Bohème. Du Maurier è un cognome noto che rimanda a Daphne, scrittrice prolifica, nipote di George, la quale portò avanti con successo l’eredità della passione per la scrittura. George era nato artisticamente come pittore, passò poi all’illustrazione ma, costretto dalla mancanza di vista, optò per la scrittura. Di lui ci sono rimasti alcuni romanzi (tre) tra i quali “Trilby” che lo consacrò al successo.  La storia di Trilby è affasciante, la giovane modella vive nel quartiere Latino di Parigi, posa negli atelier degli artisti e con la sua bellezza riesce a conquistare tutti coloro che la incontrano. Tra di loro c’è Piccolo Billy (inglese come i suoi amici) che ne rimane ammaliato a tal punto da volerla sposare, anche perché pure Trilby lo ama. Purtroppo la vita di questi giovani artisti squattrinati alla ricerca del colpo di fortuna con la loro arte e della modella che tutti amano dipingere, si complica con l’arrivo del nemico di turno, pronto a fare di tutto pure di ostacolare la felicità altrui: Svengali. L’uomo è un violinista, suona il pianoforte, è un grande artista, ma il suo carattere prepotente e scorbutico è quello che gli impedisce di trovare l’adeguato successo a Parigi. Il cupo Svengali oltretutto è esperto di ipnosi, tanto da applicare sulla modella gli insegnamenti mesmerici (Mesmer medico tedesco vissuto tra il 1734 e il 1815) per guarirla da alcuni malanni che la affliggono. In realtà Svengali utilizzerà le sue competenze e astuzie per manipolare e plagiare Trilby  al fine di trasformarla in una grande cantante lirica (anche se lei non lo è), riuscendo a scovare in nella ragazza una voce meravigliosa. Il tutto solo per fare soldi. Questo atteggiamento meschino, velato dall’inganno, porterà il Piccolo Billy ad allontanarsi da Trilby, a vivere la sua vita lontano da quello che era, ed è, il suo amore e sarà proprio tale forza che riuscirà a riunire la coppia. Trilby agisce come un’ automa è sotto il completo controllo di Svengali, le azioni che compie non sono spontanee, ma indotte dal manipolatore che porta la ragazza a fare cose senza che lei non se ne renda conto. Il tutto  fino a quando un improvviso colpo di scena riunirà la coppia e vedrà la sconfitta di Svengali. Tutto sembra tornare alla normalità, ma gli imprevisti e l’abilità narrativa sono sempre dietro l’angolo tanto è vero che un ritratto del cupo violinista cambierà per sempre i piani di Trilby e del suo amore, il Piccolo Billy. “Trilby” è un romanzo avvincente, con colpi di scena inaspettati che ci regala un vero e proprio spaccato della vita nella Parigi ottocentesca. Allo stesso tempo  stesso tempo Geroge du Maurier pone però l’attenzione su alcuni temi attuali ieri e ancora oggi come la sete di potere e denaro; la manipolazione dell ’altro per trarne beneficio considerandolo più un oggetto che una persona con emozioni e sentimenti e quanto ambigui possono dimostrarsi gli esseri umani che nascondono dietro una maschera la loro vera natura, a volte buona, in altri casi (vedi Svengali) crudele e meschina, sempre pronta a sfruttare il prossimo per trarne beneficio. Traduzione Pierdomenico Baccalario.

George du Maurier era nato a Parigi nel 1834, il padre era francese e la madre inglese. Iniziò come pittore, passo poi all’illustrazione per la rivista satirica “Punch”. I seri problemi di visto lo portarono a dedicarsi alla scrittura di romanzi, ne realizzò tre, tra i quali Trilby, che lo consacrò al successo. George du Maurier morì a Londra nel 1896, era lo zio di Daphne du Maurier, anche lei scrittrice di successo.

Source: inviato dall’editore.

:: MARIA TERESA LIUZZO, “PIOGGE VERDI DI SMERALDI”, A.G.A.R. EDITRICE, REGGIO CALABRIA, 2024. S.I.P.

26 Maggio 2024

La prefazione di Mauro D’Castelli, studioso serio ed attento, a questo nuovo romanzo di Maria Teresa Liuzzo è ampia ed articolata. L’autore dimostra tutta la sua profondità d’analisi e il suo acume critico. Sarei tentato di non aggiungere nulla, se dentro di me non fossero maturate nel tempo tutta una serie di riflessioni sull’opera della Liuzzo che incalzano e impongono di essere esplicitate, perché ci troviamo di fronte a una svolta nella letteratura italiana (e non solo) che non può essere taciuta, come lo è stata, purtroppo, fino a questo momento. Troppo isolata nella sua Calabria, troppo estranea ai circuiti letterari dominanti è l’autrice perché il suo «caso» possa imporsi alla critica cosiddetta «ufficiale».

Certo, l’originalità della Liuzzo non è sfuggita a studiosi come Antonio Piromalli, ma siamo in presenza di un critico che non si accontenta (o, meglio, non si accontentava, finché era in vita e operava culturalmente) dei «canoni» consolidati, che cerca e trova l’originalità nel vasto panorama delle lettere con l’entusiasmo che deve animare il vero ricercatore, se è vero, com’è vero, che la ricerca, secondo la felice definizione di Giuseppe Baretti, ripresa da Piero Gobetti, è «frusta culturale e civile», ansia conoscitiva che non può trovare appagamento definitivo. Per dirla, ancora, con Pavese, la cultura umanistica non è una comoda «poltrona» sulla quale adagiarsi, godendo i risultati ormai conseguiti, ma studio inesausto, che si pone continuamente nuovi orizzonti.

Maria Teresa Liuzzo ‒ dicevamo ‒ segna una svolta. E’ rischioso parlare di una «letteratura al femminile», perché ci si scontra con le opposte resistenze delle femministe di professione e dei benpensanti di sempre che, con motivazioni contrastanti, negano questa “specificità”. A noi non interessa la “logomachia definitoria”. Basta inquadrare un fenomeno, individuarne i caratteri in termini di poetica e di estetica, nonché di sociologia letteraria, e lasciare che sia poi il lettore a giudicare, dopo essersi misurato con l’opera in questione.

Il «caso» di Maria Teresa Liuzzo ha una sua originalità e specificità nell’ambito di quello che, solo per intenderci, definiamo «filone femminile» della letteratura. Abbiamo dei precedenti illustri, che meritano tutti la fama e la stima che li circonda. A partire da Saffo, il cui esempio letterario, a nostro avviso, non è stato sinora studiato in tutte le sue implicazioni. L’esperienza del tiaso è multiforme. Si tratta di una scuola d’arte, di formazione ed educazione, di mistica religiosa, impastata di erotismo legato al culto di divinità. Saffo assomma in sé tutti questi aspetti. Ma si muove sempre in una dimensione aristocratica, anche se trasgressiva, e letteraria, nel significato elitario del termine. L’esperienza di Maria Teresa Liuzzo, per converso, non può essere circoscritta entro questi confini, travalica i limiti della posa letteraria, che, che nell’ambito del «filone femminile» che abbiamo individuato, caratterizzano altre esperienze artistico-letterarie novecentesche.

A proposito di Sibilla Aleramo, Antonio Piromalli ha parlato, con riferimento al volume autobiografico Una donna (1906), di «un libro che è una confessione, sul piano dell’arte, di una vita femminile lucidamente e coraggiosamente combattente». Ma anche qui lo “scandalo” è rimasto circoscritto al campo delle lettere, magari allargato a quel settore della cosiddetta «società civile» che lo circonda. In più, va sottolineato il percorso accidentato seguito dalla Aleramo in termini di poetica e di estetica, con l’adesione alle più disparate correnti artistico-letterarie, aventi pur esse carattere elitario, se si esclude lo sbocco neorealista dell’ultima fase, e in campo politico, passando da una posizione estrema all’altra, a seconda dei momenti storici.

A proposito di Alda Merini, Daniele Piccini ha evidenziato «il destino esemplare di una vocazione alla parola d’amore, al canto». Ed ha aggiunto: «Lei stessa parla e scrive di una poesia che si “detta”, come se sorgesse da dentro, da profondità remote, quasi inaccessibili alla stessa coscienza». Ma nella Merini, sempre a nostro avviso, finisce per prevalere, a livello di poetica, una confusa e contraddittoria dimensione mistico-religiosa, nella quale viene ingabbiata a forza la stessa esperienza amorosa, anche nei suoi aspetti trasgressivi e “scandalosi”. Giovanni Raboni, che pure è stato tra gli scopritori del “caso Merini”, parla di una poesia destinata a rimanere oscura.

Se in Maria Teresa Liuzzo esiste una componente religiosa, si tratta di una religiosità di matrice popolare, profondamente radicata nei sentimenti del popolo calabrese, senza connotati mistici, né, tantomeno, “scandalosi”. Così come manca l’esito oscuro, il “mistero” fine a se stesso, che rientra nell’ampio arco ermetico descritto dalla poesia italiana, carico di quella artificiosità che in esso ha ravvisato Cesare Pavese nello scritto teorico Due poetiche, nel quale ha ben evidenziato come i poeti “ermetici” si beino dell’ “arcano” col quale, per la loro forza medianica, hanno avuto il privilegio di venire in contatto e si fermino a questo godimento misticheggiante, guardandosi bene dall’approfondirlo. Essi esibiscono il loro “stupore” e chiamano il lettore a parteciparvi. Tutto si trasferisce sul piano dell’irrealtà, di un “mistero” e di un misticismo artificioso.

La figura femminile che più si accosta a Maria Teresa Liuzzo è Alba Florio, anche lei calabrese. Antonio Piromalli ha rivalutato questa poetessa in pagine molto limpide che meritano di essere citate. In esse leggiamo: «La sua poesia solitaria e drammatica, nella quale si ritrovano motivi psicologici e ontologici della tradizione calabrese: il sentimento dell’assoluto, della giustizia, della vita come frattura e come scacco […].

Nel mondo della Florio i motivi del dolore, della distruzione, della morte si coloravano di mistero, la natura era trasfigurata in un sentimento cosmico. Spesso la morte oscurava l’immenso spazio del paesaggio, nubi di silenzio si diffondevano nel mondo devastato, l’amore esisteva ma come elemento vitale perduto per sempre, l’esilio, il limbo diventano la terra di nessuno nella quale l’umano era costretto a vivere, i fatti e le occasioni si succedevano come per inesorabile svolgimento che si pativa senza potervi contrastare. […]

La sofferenza del dualismo in cui si agita la vita, il rimpianto dell’innocenza e il senso di colpa che la vita ci comunica con le cose incompiute e caduche allargava l’orizzonte etico ed estetico della Florio, senza lasciare adito ad alcuna speranza».

La sofferenza esistenziale della donna calabrese, che investe anche la sfera amorosa, è pure presente nell’opera di Maria Teresa Liuzzo, ma non sfocia mai, a differenza di quel che accade nella poesia di Alba Florio, nel pessimismo assoluto, senza speranza, che ha una componente decadente e, perciò, prettamente letteraria. Ben più complesso è il rapporto della Liuzzo con il destino e questa complessità ci rimanda ‒ come vedremo ‒ a Cesare Pavese. In lei il critico armato di filologismo deteriore (ben diverso dalla filologia, come ha sottolineato Concetto Marchesi) potrà individuare al microscopio qualche “imperfezione”, ma si tratta di un elemento che arricchisce la sua opera, non la impoverisce, ne dimostra l’originalità creativa.

Leonardo Sciascia, in una nota breve ma penetrante contenuta in Nero su nero, sottolinea con acuta ironia come la perfezione stia alla «cretineria» più che all’«intelligenza», la quale, per l’appunto, «ha sempre, come i tessuti dei navajos, una qualche imperfezione o fuga». Le opere «perfette» sono spesso il risultato di sottile plagio, ben dissimulato, dello scimmiottamento di scritti altrui, abilmente mascherati: «Se una scimmia si mettesse a battere sui tasti di una macchina da scrivere, alla fine verrebbe fuori un sonetto di Shakespeare (variante: dodici scimmie, tutti i libri del Museo Britannico)».

E’, allora, il caso di assaporare la preziosa “imperfezione” dell’opera di Maria Teresa Liuzzo, che è, ad essere precisi, una falsa imperfezione, perché, in realtà, si tratta del salutare allontanamento dai «canoni» consolidati, anche a livello stilistico, oltre che contenutistico ed ideologico. La Liuzzo non scrive solo per se stessa, per ammirarsi allo specchio, assumendo pose letterarie e richiamandosi a correnti e scuole estranee al flusso reale della vita, come lo sono state quella ermetica e quella decadente, che hanno avuto tanti epigoni e che sono state riproposte in mille salse. Esprime la vera «gioia» di scrivere, che risiede, come ha ben evidenziato Pavese in un pensiero del suo diario, Il mestiere di vivere (1935-1950), datato 4 maggio 1946, nel «parlare da soli» e, contemporaneamente, «a una folla». Non considera l’arte un «mestiere», che, per l’appunto, è fatto di pose, di atteggiamenti, della recita di una «parte». Anche qui la scrittrice dà inconsapevolmente (cioè spontaneamente) concretizzazione a un pensiero pavesiano, pur esso contenuto nel diario e datato 7 maggio 1949: «In qualunque mestiere e professione si può vivere il cliché del mest[iere] o profess[ione], “facendo” quella parte. Da scrittori e artisti no. Si sarebbe bohémiens, fessi e insopportabili. Perché? Perché l’arte e lo scrivere non sono mestieri. Almeno in quest’epoca».

Un altro elemento accosta Maria Teresa Liuzzo a Pavese: il voler scrivere «da morta». Leggiamo, ancora, in una pagina diaristica di Pavese datata 10 aprile 1949: «In fondo, tu scrivi per essere come morto, per parlare da fuori del tempo, per farti a tutti ricordo». Anche Maria Teresa Liuzzo scrive come «da morta». Infatti, in questo nuovo romanzo, Mary è morta e rivive da questa dimensione la propria, tragica esperienza esistenziale. Il testo narrativo è costruito su un continuo susseguirsi di prolessi ed analessi: si passa da quel che succede a Mary «da morta» alla rievocazione di ciò che le è accaduto da viva. Scrivere «da morta» serve all’autrice per trovare il distacco necessario ad analizzare razionalmente ciò che ha vissuto e patito, non solo «per farsi a tutti ricordo», cioè per proiettare nell’eternità la propria storia, in modo che i posteri (soprattutto le donne che verranno) possano trarne insegnamento per la loro vita, se è vero, com’è vero, che la vera letteratura, come quella della Liuzzo per l’appunto, ha foscolianamente funzione eternatrice dei valori umani.

Mary è proiezione autobiografica dell’autrice, ma va precisato che opera nel romanzo una trasfigurazione letteraria degli avvenimenti della sua vita, che vengono plasmati artisticamente, rielaborati, arricchiti di una componente “fantastica” che contribuisce ad assegnare ad essi funzione simbolica. La capacità artistica sta nel realizzare l’equilibrio tra realtà e simbolo. Scrive Pavese ne Il mestiere di vivere in data 12 dicembre 1939: «Ci vuole la ricchezza d’esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo». E conclude: «Tutta l’arte è un problema di equilibrio fra due opposti». Maria Teresa Liuzzo dà il meglio di sé quando riesce a districarsi tra due polarità opposte, conciliandole dialetticamente, ad un livello di sintesi superiore. Questo meccanismo dialettico le consente di superare continuamente se stessa, di rinnovare la propria opera, superando quelle precedenti e, nel contempo, inglobandole. Così il presente romanzo è il punto d’arrivo, anch’esso provvisorio, di un percorso artistico-letterario sempre in fieri. Non una «saga» tradizionale, né un’opera «seriale», nel senso abusato (ed usurato) del termine, bensì una storia viva che, per l’appunto, attinge questa vitalità dal reale, visto nel suo processo dialettico, e lo trasforma in arte, trasfigurandolo in una dimensione «simbolica». Da questa narrazione fondata sul rapporto dialettico tra realtà e simbolo nasce il «mistero», non costruito artificiosamente, come negli ermetici e nei loro “epigoni”, che abbiamo menzionato, ma reinventato continuamente grazie alla forza rigenerante dell’«angoscia creativa», che è la sofferenza, effettivamente sentita, non simulata, dallo scrittore, nel rivivere una «seconda volta» (anche qui in termini pavesiani) gli eventi della propria vita, nell’avvolgerli nel simbolo, combinando razionale ed irrazionale, conscio e inconscio. Una tecnica narrativa che non imita pedissequamente né i canoni estetici ermetici e decadenti, né il «flusso di coscienza», il «monologo interiore», anch’esso abusato, ma si fonda ‒ come abbiamo già detto ‒ sul sottile equilibrio tra realtà e simbolo, razionalità ed irrazionalità, conscio ed inconscio. Individuiamo qui lontane scaturigini nell’ «ultrafilosofia» del Leopardi, fondata, per l’appunto, sull’equilibrio tra sentimento e ragione, ben individuato da Remo Bodei nel prezioso volume Leopardi e la filosofia, che segna una svolta nella critica, che ha oscillato a lungo nel considerare il Recanatese un «romantico», legato alla «poesia pura», espressione diretta dei sentimenti, oppure, sul fronte opposto, un «filosofo», che distrugge con la ragione le «illusioni» umane, create dalla natura.

Su questo continuo rinnovarsi e “superarsi” dell’artista, sul suo rimettere progressivamente in discussione se stesso e la propria opera, all’infinito, non solo sotto l’aspetto eminentemente “tecnico”, bensì in una visione «estetica» più ampia e «complessa», che implica una genesi non artificiosa del «mistero», che sgorga, per converso, dalla forza vivificante dell’«angoscia creativa», nel suo rapporto dialettico con la realtà effettivamente vissuta, «storica», così si esprime Cesare Pavese in una densa pagina diaristica datata 22 dicembre 1939: «Ogni artista cerca di smontare il meccanismo della sua tecnica per vedere com’è fatta e per servirsene, se mai a freddo. Tuttavia, un’opera d’arte riesce soltanto quando per l’artista essa ha qualcosa di misterioso. Naturale: la storia di un artista è il successivo superamento della tecnica usata nell’opera precedente, con una creazione che suppone una legge estetica più complessa. L’autocritica è un mezzo di superare se stessi. L’artista che non analizza e non distrugge continuamente la sua tecnica è un poveretto». E ancora: «Così è in tutte le attività. E’ la dialettica della vita storica. Ma tanto nell’arte che nella vita, da quando esiste il romanticismo esiste in questa dial[ettica] un pericolo sempre vivo: quello di proporsi deliberatamente il campo del mistero per garantirsi la creazione vogliosa. Nell’arte, l’ermetismo.[…]

Smontare il mistero per servirsene a freddo nell’opera (senza l’angoscia creativa) è lo sforzo di tutta la storia dello spirito. Qui è la dignità dell’uomo ma anche la sua tentazione».

Maria Teresa Liuzzo non «smonta» «a freddo» il «mistero», né se ne serve per «maravigliare», come fecero gli ermetici, in un ritorno di «secentismo», denunciato da Gramsci in una nota breve ma profonda contenuta nei Quaderni del carcere. Lo fa scaturire spontaneamente dalla narrazione, dalla dialettica tra realtà e simbolo, razionale ed irrazionale, conscio ed inconscio. Il lettore rimane “impigliato” nella trama del racconto, coinvolto nel «mistero», non esplicitato dalla scrittrice, ma circondato da quel pizzico di «indeterminatezza» che deve caratterizzare l’opera letteraria, cosicché egli si trova sollecitato ad assumere un ruolo attivo, non meramente ricettivo, a collaborare alla “costruzione” della storia narrativa, ad interpretarla in modo personale e creativo, divenendo, in un certo senso ed entro certi limiti, «coautore», pur senza indulgere all’estremismo di talune «teorie della ricezione».

L’esistenza di Mary è dolorosa, anzi tragica. Anche qui è possibile una lettura «intertestuale» tra l’opera di Maria Teresa Liuzzo e quella di Cesare Pavese. Leggiamo ne Il mestiere di vivere in data 20 aprile 1936: «La lezione è questa: costruire in arte e costruire nella vita, bandire il voluttuoso dall’arte come dalla vita, essere tragicamente». E’ stato Italo Calvino, l’allievo prediletto da Pavese, tanto da essere da lui definito «scoiattolo della penna» per l’agilità e vitalità frenetica della sua scrittura, a dirci che cosa significava per il maestro «essere tragicamente» nella vita e nell’arte. Le riflessioni acute di Calvino sono contenute in uno scritto commemorativo del 1960 intitolato significativamente Essere e fare. Lo «scoiattolo della penna» richiama, per l’appunto, la pagina diaristica da noi testé citata e così la spiega e commenta: «Essere tragicamente vuol dire condurre il dramma individuale ‒ anziché spenderlo come moneta spicciola ‒ a una forza concentrata che impronti di sé ogni tipo d’azione, d’opera, ogni fare umano, vuol dire trasformare il fuoco d’una tensione esistenziale in un operare storico, fare della sofferenza o della felicità privata, queste immagini della nostra morte (ogni felicità individuale, in quanto porta in sé la sua fine, ha una controparte di dolore), degli elementi di comunicazione e di metamorfosi, cioè delle forze di vita». E conclude: «Trasferimento di valori dell’essere nel fare, dalla vita nell’opera, dall’esistenza nella storia. Pavese appartiene a una stagione della cultura mondiale tesa a integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia». E ancora: «Pavese ci sollecita a un modo di lettura di cui purtroppo la letteratura contemporanea ci dà occasioni più uniche che rare: cioè vuole essere letto come si leggono i grandi tragici, che in ogni rapporto, in ogni movimento dei loro versi condensano una pregnanza di motivazioni interiori e di ragioni universali estremamente compatta e perentoria, E’ un modo di inserirci nel reale e viverlo e giudicarlo che abbiamo completamente perduto; e nell’averlo ‒ per sue vie laboriose e solitarie ‒ raggiunto, sta il valore unico di Pavese nella letteratura mondiale».

Maria Teresa Liuzzo non si limita a “piangersi addosso”, a rappresentare il suo dramma esistenziale, attraverso il personaggio di Mary, pur filtrato ‒ come abbiamo già detto ‒ per mezzo della trasfigurazione letteraria, come un unicum da vivere nel proprio isolamento e nella propria inazione, come hanno fatto (e fanno) gli epigoni nostrani dell’ermetismo e del decadentismo. Lo trasforma in un impulso all’azione, all’«operare storico» ‒ per dirla, ancora una volta, con Pavese ‒ , cioè in slancio vitale, che diventa «elemento di comunicazione», non va tenuto per sé, ma trasmesso agli altri, per determinare in se stessa e nella collettività una rivolta etica. S’inserisce, in tal modo, al pari di Pavese, nella migliore tradizione letteraria mondiale, sfuggendo alle deformazioni imitative, agli “scimmiottamenti” dei modelli d’oltralpe che ne hanno sminuito il valore artistico.

Come i tragici greci, la nostra scrittrice ingaggia un “corpo a corpo” con la realtà, con il «mondo grande e terribile» ‒ per dirla con Gramsci ‒ e dal conflitto nasce l’opera letteraria, che è un’opera di denuncia altamente etica.

Dicevamo che il rapporto di Maria Teresa Liuzzo col «destino» è complesso ed articolato. Anche qui ci viene spontaneo citare un altro pensiero diaristico pavesiano, datato 18 ottobre 1942: «L’ubris è il conoscere un oracolo e non tenerne conto». Pavese usa il termine greco ubris nel significato particolare di «sfrontatezza», «rivolta». Maria Teresa Liuzzo, così come lo scrittore langarolo, è ben consapevole dell’esistenza di un «destino», che incombe sugli uomini e sulle donne del mondo, ma non intende accettarlo passivamente, si «ribella» ad esso. La sua è una ribellione etica, affidata alla denuncia letteraria, che ben si distingue dal cosiddetto «impegno» gridato da tanti intellettuali italiani per motivi di successo e poi contraddetto nei comportamenti concreti.

L’inserirsi della Liuzzo nella più feconda tradizione letteraria mondiale spiega il suo successo all’estero, dove è ben conosciuta e apprezzata da studiosi di valore, di contro ad una sottovalutazione colpevole in Italia, che abbiamo stigmatizzato.

Maria Teresa Liuzzo è scrittrice poliedrica e fantasiosa. Assistiamo nel suo romanzo al superamento delle distinzioni artificiali tra «generi» e «sottogeneri», desunti da una lettura schematica di Aristotele, segnatamente tra poesia e prosa, perché siamo in presenza di un testo narrativo molto lirico nelle sue movenze e nella sua musicalità interna, e tra i diversi codici linguistici, in particolare tra la lingua nazionale e il dialetto. Troviamo decine di versi in un dialetto siciliano che va studiato a fondo. Intanto i versi dell’incipit rappresentano una delle più dure condanne letterarie della condizione di miseria, morale e materiale, nella quale le classi dirigenti italiane hanno tenuto il Meridione e, nel caso specifico, la Calabria, che è rimasta quello «sfasciume pendulo sul mare» di cui parlava Giustino Fortunato. Ma per avere una denuncia così forte ed incisiva dobbiamo andare ai versi ormai “remoti” e dimenticati di un altro poeta dialettale, un altro calabrese, Pasquale Creazzo, comunista libertario che scrive ed opera a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Quest’ultimo usa, per l’appunto, il dialetto calabrese. Maria Teresa Liuzzo, pur essendo nata e vissuta in Calabria, ricorre al dialetto siciliano, che è la lingua della madre, originaria di Messina. Pasolini ci ha insegnato quanto sia importante per tutti noi questa forma princeps di comunicazione, che è il tramite con le nostre lontane origini, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano del nostro essere, fino al profondo della sua intimità, conscia ed inconscia. Ma la Liuzzo non si limita a questo ritorno alla «lingua della madre». Essa rappresenta la lingua di fondo dei suoi versi, sulla quale si è innestato, non in una semplice sovrapposizione, ma nell’ambito di un processo di “mescidanza”, di reciproci prestiti ed “interazioni”, di “consonanze” e “dissonanze”, il dialetto calabrese, e, segnatamente, quello parlato nell’area geografica e culturale che circonda, sull’altra sponda, lo Stretto di Messina. Ne è venuta fuori una lingua molto originale, che, però, non costituisce un “idioletto”, una lingua artificiale ed artificiosa, tutta “letteraria”, nata per partenogenesi, senza alcun rapporto fecondativo con la realtà, bensì una lingua viva e creativa, ricca di umori e sapori strettamente legati al territorio geografico di riferimento, che abbraccia i due versanti. Un’operazione certamente “artistica”, quella compiuta dalla Liuzzo, ma che non perde i suoi connotati “reali”.

La scelta del dialetto ha un suo significato specifico. Non è un caso che i poeti, nel corso dei secoli, quando hanno voluto protestare, abbiano fatto ricorso al dialetto: da Giuseppe Gioacchino Belli a Carlo Porta, a Delio Tessa, al già citato Pasquale Creazzo, al siciliano Santo Calì, che ha voluto utilizzare la lingua dei braccianti e dei boscaioli di Linguaglossa, sulle pendici dell’Etna. Anche per Maria Teresa Liuzzo il dialetto ha una funzione di protesta e di denuncia delle condizioni di miseria e di corruzione dilagante che dominano la sua terra di Calabria, come emerge chiaramente ‒ dicevamo ‒ dai versi di esordio (ma non solo da essi).

A differenza di quanto avviene in altri scrittori dello Stretto, come Stefano D’Arrigo, autore di Horcynus Orca, nei versi di Maria Teresa Liuzzo i due codici linguistici, nazionale e dialettale, rimangono su piani irrelati, ma non contrapposti, perché l’autrice, pur senza mescolarli, riesce ad armonizzarli. Il risultato è estremamente musicale e gradevole per l’orecchio del lettore, tanto che il romanzo andrebbe letto ad alta voce, ricordando, lungo la scia di Borges, che la poesia, dapprincipio, fu musica e canto.

Maria Teresa Liuzzo piega il dialetto a tutti gli stili e i registri: dal tragico al comico, all’elegiaco. E’ tragico nel racconto della violenza subita da Mary sin da bambina. E’ sottilmente ironico nella descrizione delle profferte amorose fatte al Principe da un esercito di popolane per il tramite delle rispettive madri. Qui troviamo pure una componente erotica, anch’essa sottile, con l’ostentazione di organi sessuali al vento, nella speranza che il Principe scelga qualche donzella in cambio di adeguata ricompensa.

Siamo in presenza di un erotismo che non è mai volgare, mai esibito per far colpo sul pubblico dei lettori e sulle sue fantasie represse. Maria Teresa Liuzzo non “civetta” mai col lettore, non indulge a «strategie comunicative» funzionali al successo, così come non insegue le mode, né assume pose letterarie, che sconfinino nell’«estetismo» deteriore. C’è in lei uno scambio continuo tra vita ed arte, nel senso buono, in quanto le esperienze esistenziali nella sua opera diventano letteratura, senza perdere, però, il sapore della realtà, che, pur nella trasfigurazione simbolica, rimane attaccata al vissuto come polpa ad nocciolo. In questo senso la sua arte è vita e la sua vita è arte, con una semplicità che, al di là della trasfigurazione e transcodificazione letteraria, rappresenta la cifra fondamentale del suo essere ontologicamente e, nel contempo, del suo “farsi” scrittrice di cose, non di parole vuote. Ci viene da richiamare la distinzione fatta da Pirandello tra Verga come «scrittore di cose», per l’appunto, e D’Annunzio, come «scrittore di parole» (puro “pirotecnico della parola”, aggiungiamo noi). E Maria Teresa Liuzzo s’inserisce a pieno titolo, con le sue peculiarità e con la sua originalità, naturalmente, nella migliore tradizione letteraria meridionale, perché ‒ vogliamo ricordarlo con Sciascia ‒ la realtà del Meridione è così tragica che s’impone allo scrittore, anche a quelli che sembrano distaccarsene, per dar vita ad un mondo tutto “letterario”, anzi “teatrale”, come lo stesso Pirandello.

Maria Teresa Liuzzo ci dimostra che la poesia è davvero principio e, insieme, momento culminante di ogni civiltà (e qui ha ragione Benedetto Croce, laddove riconduce tutta la «letteratura» a «poesia», anche se non condividiamo la definizione restrittiva che il filosofo dà di quest’ultima, prettamente neo-idealistica e neo-romantica, visto che restringe la «poesia» ad «intuizione lirica», espressione immediata dei sentimenti umani). Attraverso la metafora compie il “miracolo” di trasformare le vicende individuali in vicende collettive.

E Maria Teresa Liuzzo, attraverso il suo romanzo, ha fatto vera poesia, ha saputo cogliere quella che Lukács ha definito «eterna umanità ideale», vale a dire, al di là delle concretizzazioni contingenti ed epocali, la vera essenza dell’umanità, così come si articola nei secoli, nella sua gioia e nel suo dolore: quella che Leopardi ‒ da noi già citato ‒ ha chiamato «varietà della natura».

Perciò possiamo dire, in conclusione, che la sua opera varca i confini nazionali e diventa un esempio di letteratura mondiale. E’ bene che la critica italiana ne acquisti consapevolezza, colmando un ritardo inammissibile ed adeguandosi a quella internazionale, che è stata giustamente generosa con Maria Teresa Liuzzo, che merita la sua (e la nostra) attenzione.

:: Quando cala la nebbia di Giancarlo Vitagliano a cura di Massimo Ricciuti

21 Maggio 2024

Emilio Severi, più semplicemente Milo, si è da tempo laureato in Criminologia e cerca di lasciarsi alle spalle quello che lui chiama il fatto, ovvero l’omicidio della madre. Seppur ragazzino, Milo aveva avviato una personalissima indagine per scoprire il colpevole, dando una grossa mano alla soluzione del caso. Diventato adulto, il nostro protagonista era tornato sul campo una seconda volta, insieme agli amici di sempre: Giorgio, capitano del Reparto Analisi Criminologica dei Carabinieri e Clelia, magistrato dai solidi principi. I tre erano venuti a capo del cosiddetto “mistero delle ragazze dai grandi occhi”. Da allora Milo ha giurato a se stesso di limitarsi a tenere corsi universitari e a scrivere saggi. Una sera, però, riceve l’angosciante telefonata di Vittoria, sua ex fidanzata, la cui sorella Nadia è deceduta in seguito a quella che è stata classificata come morte bianca, ossia un incidente sul lavoro. Vittoria e i suoi genitori non credono alla versione ufficiale, ritenendo che la ragazza sia stata uccisa e, perciò, chiedono aiuto a Milo. Quest’ultimo, all’inizio refrattario, prova a coinvolgere Giorgio e Clelia, ma tutto porta in direzione dell’incidente. Milo, allora, s’intestardisce, anche per le pressanti richieste di Vittoria e cerca di ricostruire l’accaduto, parlando più volte con i superiori e i colleghi della vittima. Una brillante e inaspettata intuizione del protagonista capovolgerà la situazione, portando a una verità sconvolgente.

Quando cala la nebbia è il terzo romanzo di Giancarlo Vitagliano incentrato sulla figura di Milo, detective per amore. Insieme a lui ritroviamo Giorgio, Clelia e la sua esuberante figlia, Daniela. C’è anche Francesca, collaboratrice di Giorgio: con lei stava nascendo una forte simpatia, ma proprio alla fine del secondo romanzo ci viene spiegato il perché Milo si sia sentito tradito dalla ragazza. Gli unici familiari rimasti al protagonista sono la zia Lucy e lo zio Mario, sempre pronti ad accoglierlo in casa loro. Centrale è il ricordo della mamma del protagonista, che spesso gli appare in sogno. Una parte rilevante è riservata alla musica, come sempre accade nei romanzi dell’autore: potete trovare, infatti su Spotify la Playlist dei CD citati nell’opera in questione. A Giancarlo Vitagliano va rivolto, inoltre, un particolare plauso per il modo ingegnoso e degno dei migliori giallisti con cui conduce Milo alla soluzione del caso. Anche per il difficile tema trattato, quello delle morti sul lavoro, l’autore dimostra una volta di più la sua profonda conoscenza dell’animo umano e delle relazioni fra le persone. Aspettiamo, dunque, la quarta avventura di Milo, sicuri che non ci deluderà.

:: Review Party: La cripta di Venezia di Matteo Strukul (Newton Compton, 2024) a cura di Giulietta Iannone

2 Maggio 2024

Arriva in libreria un nuovo imperdibile romanzo, per chi ama il romanzo storico con un taglio decisamente moderno, di Matteo Strukul autore internazionalmente apprezzato di diversi best seller tra cui la saga I Medici. Esce infatti sempre con Newton Compton, dopo Il cimitero di Venezia e Il ponte dei delitti di Venezia, La cripta di Venezia, il terzo volume della serie di thriller storici che hanno per protagonista Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto.

Venezia, 1732. Nella cripta della chiesa di San Zaccaria viene trovato il cadavere di una giovane donna. Qualcuno le ha sfondato la bocca con un mattone, incastrandolo fra le mandibole. L’orrore di un delitto così raccapricciante sconvolge la Serenissima tanto più perché la fanciulla è una Mocenigo, la famiglia cui appartiene anche il doge, ormai morente a causa della veneranda età. Al suo capezzale viene chiamato Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto, giacché la brutalità del crimine sembra richiamare i fatti sanguinosi di tre e sette anni prima, quelli commessi da Olaf Teufel, che proprio il grande pittore indagò, suo malgrado, con gli amici di sempre: l’impresario teatrale irlandese Owen McSwiney e il mercante d’arte britannico Joseph Smith.
I tre cominciano a investigare ma quando un secondo cadavere, ancora una volta un esponente della famiglia Mocenigo – ucciso allo stesso modo della prima vittima – viene rinvenuto presso la cripta della chiesa di San Simeon Piccolo, la situazione precipita in un’orgia di dolore e cupa violenza.
Canaletto e i suoi amici dovranno lottare non solo per scoprire la verità ma anche per la loro stessa vita…

Matteo Strukul è nato a Padova nel 1973. È laureato in Giurisprudenza, dottore di ricerca in Diritto europeo e membro della Historical Novel Society. Le sue opere sono in corso di pubblicazione in quaranta Paesi e opzionate per il cinema. Per la Newton Compton ha esordito con la saga sui Medici, che comprende Una dinastia al potere (vincitore del Premio Bancarella 2017), Un uomo al potere, Una regina al potere e Decadenza di una famiglia. Successivamente ha pubblicato Inquisizione Michelangelo, Le sette dinastie, La corona del potere, Dante enigma, Il cimitero di Venezia, Il ponte dei delitti di Venezia, Tre insoliti delitti e La cripta di Venezia. Per saperne di più su di lui: matteostrukul.com

Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto, figlio di Bernardo e di Artemisia Barbieri, nacque nel 1697 a Venezia e istruito alla scuola del padre divenne pittore e incisore di immenso talento. Matteo Strukul l’ha scelto come protagonista di una nuova serie di thriller storici ambientati in Laguna nella prima metà del ‘700. La cripta di Venezia è il terzo volume della serie e ci porta nella Venezia del 1732 quando il Canaletto aveva 35 anni. Nella cripta della chiesa di San Zaccaria, Marietta giovane educanda rinviene il corpo senza vita, orrendamente sfigurato, di suor Polissena Mocenigo, giovane nipote di Alvise Sebastiano Mocenigo Doge della Repubblica di Venezia ormai anziano e in punto di morte. Ad Antonio viene chiesto di indagare e lui di malavoglia accetta per poi trovarsi invischiato in un intricato caso che sembra avere al centro un’antica vendetta e un progetto criminoso coltivato per intere generazioni. E forse anche per chiudere definitivamente la partita con Teufel, che aveva insanguinato Venezia coi suoi barbari omicidi, se è davvero lui l’uccisore della giovane suora. Poi un secondo omicidio insanguina Venezia, presso la cripta di Santa Maria dei Miracoli viene rinvenuto un secondo cadavere quello di Niccolò sempre della famiglia Mocenigo e ucciso sempre con la stessa modalità del primo delitto e questa volta Teufel sembra davvero il colpevole, ma la verità è molto più oscura e complicata e spetterà al Canaletto e ai suoi amici disvelarla. Se amate il thriller storico con lampi e venature horror e un taglio decisamente moderno e le leggende e le credenze popolari magiare tra vampirismo, peste e mangiamorte è una lettura che consiglio e vi farà passare ore a chiedervi chi è realmente l’antagonista del Canaletto in questa vicenda e quale è la mente misteriosa dietro i delitti che sembrano colpire la famiglia Mocenigo. Strukul sa intrigare con le sue trame fitte di misteri e densi enigmi del passato da dipanare. Le tinte sono fosche e le cripte delle bellissime chiese di Venezia divantano scenario dello svolgersi di eventi che hanno echi lontani. Il Canaletto ideato da Strukul è simaptico e coadiuvato da un gruppo di amici che lo sostiene e lo supporta. Venezia è bellissima e oscura, con il suo fitto labirinto di ombre fitte come merletti. E la verità è più oscura di quanto si possa pensare e getta ombre lunghe anche su Venezia, città dai mille volti e punto di congiuntura tra Occidente e Oriente. Una storia ricca di pathos e soprendenti ripercussioni che Strukul sa gestire con il giusto pizzico di suspense e mistero.

:: Il re delle fate d’autunno di Claudio Chiaverotti e Pierluigi Porazzi – Mursia a cura di Nicola Vacca

25 marzo 2024

Dolcezza è un piccolo paese sperduto del Friuli, un puntino quasi dimenticato su qualunque mappa stradale.

Un luogo apparentemente tranquillo dove ha sede la Ekta, una fabbrica che sputa veleni.

Una calma che viene infranta dall’omicidio di Silvia, una diciasettenne dai capelli biondi il cui cadavere viene rinvenuto nei pressi della piazza di Dolcezza.

È il primo omicidio di una serial killer che si fa chiamare il re delle fate d’autunno.

L’indagine è affidata all’ispettore Giulia Foscari, che insieme al suo collega Chiarloni si troverà davanti a un vero e proprio rompicapo.

Chi si nasconde dietro la maschera del re delle fate d’autunno? Perché toglie la vita a giovane ragazze senza usare su di loro violenza? Cosa significa il bigliettino con alcuni versi di una poesia fantasy che fa trovare agli inquirenti in bocca alle sue giovani vittime?

Claudio Chiaverotti e Pierluigi Porazzi con Il re delle fate d’autunno. In fondo alle filastrocche è sempre buio hanno scritto un thriller costruito bene. La storia è un intrigo complicato e mai prevedibile e il personaggio di Giulia Foscari è credibile dall’inizio alla fine della vicenda.

La narrazione è tesa e carica di suspense i due autori si insinuano nelle ombre del nero che si macchia di sangue.

Davanti agli omicidi brutali che scuotono la piccola comunità della cittadina friulana, Giulia Foscari si muova con molta circospezione e si perde in un labirinto suggestivo di situazione fitte di mistero.

Nulla è come sembra. Il personaggio inquietante del re delle fate d’autunno agisce nell’ombra perso nella fitta selva dei boschi, getta nel panico Dolcezza con i suoi delitti efferati.

Giulia Foscari ha fiuto, segue diverse piste e gli enigmi sono tanti: questa figura misteriosa lascia dietro di sé oltre a una scia di sangue un mistero fitto con una serie di problematiche da risolvere.

Chiaverotti e Porazzi sanno coinvolgere il lettore nella storia che già dalle prime pagine si sente recluso dall’atmosfera opprimente che si respira fino alle ultime pagine.

Un’oppressione che è sinonimo di incubo e terrore.

Siamo davanti a una trama in cui si susseguono colpi di scena senza tregua, la narrazione intreccia il giallo e il noir: il risultato è un universo romanzesco che funziona alla perfezione e in cui il lettore si trova intrappolato e coinvolto.

«La vita è un film. Un thriller senza logica, con il finale che crolla in pezzi e si ricompone sulle sue domande. Quando sembra che il colpevole sia stato catturato non è mai così. Quando credi che tutto sia finito, nel bene e nel male, ti trovi tra le caviglie un gap spazio – temporale che prende a calci in culo le poche certezze che credevi di aver raggiunto».

Il re delle fate d’autunno è nascosto nel lato oscuro della coscienza di ogni singolo personaggio di questo romanzo avvincente in cui il macabro e il male scandiscono le ore malvagie di un perenne tempo di uccidere.

Claudio Chiaverotti ha scritto le strisce delle Sturmtruppen, e dal 1989 lavora come sceneggiatore presso la Sergio Bonelli Editore. Ha scritto più di cinquanta storie di Dylan Dog, ha creato il personaggio fantasy Brendon e la serie Morgan Lost, in corso di pubblicazione. Ha diretto il cortometraggio I vampiri sognano le fate d’inverno?, miglior cortometraggio al XXXVII Fantafestival di Roma.

Pierluigi Porazzi ha pubblicato per Marsilio L’ombra del falco, Nemmeno il tempo di sognare e Azrael, premiato come miglior romanzo dell’anno nell’ambito dei Corpi Freddi Awards. Per Pendragon è uscito Una vita per una vita, scritto con il giornalista Massimo Campazzo, e per La Corte Editore La ragazza che chiedeva vendetta, Il lato nascosto, Mente oscura e Ritratti di morte. Ha pubblicato anche molti racconti in varie raccolte e antologie.

:: Liberi di scrivere Award quattordicesima edizione: i vincitori

26 febbraio 2024

Vince la quattordicesima edizione del Liberi di scrivere Award:

Stella di mare, di Piergiorgio Pulixi (Nero Rizzoli 2023)

Certi luoghi sono maledetti. E le persone che ci abitano condannate a un destino che non meritano. Lo sa bene Stella, diciassette anni, l’estate negli occhi e addosso l’esuberanza di chi è giovane. Tutti a Sant’Elia, un quartiere popolare di Cagliari affacciato sul mare, la conoscono, la desiderano e la invidiano: perché lei è splendida, impunita. Speciale. Ma un giorno in cui il maestrale infuria rabbioso, viene trovata morta su una spiaggia, il volto sfregiato come a cancellare la sua bellezza leggendaria. Stella era pronta a lasciarsi alle spalle i palazzoni di Sant’Elia, ma il destino, o meglio, un assassino, ha scritto diversamente il suo futuro. È un’indagine difficile, questa, in cui si moltiplicano i sospettati e le piste: il vicequestore Vito Strega, insieme alla sua squadra di ispettrici, dovrà districarsi nei segreti di un quartiere impenetrabile per la polizia. E, fin da subito, dovrà fare i conti con i fantasmi della gente del posto e anche con i propri, che sperava di aver sepolto per sempre e invece tornano ad affiorare più forti che mai. In questo noir in cui i personaggi, attraverso i loro chiaroscuri, prendono vita come in un’antica tragedia, Piergiorgio Pulixi indaga il senso più controverso della giustizia, fa breccia negli indelebili legami di sangue e interroga le colpe dei padri.

Piergiorgio Pulixi Nato a Cagliari nel 1982, vive a Londra. Ha pubblicato Perdas de Fogu (Edizioni E/O 2008), L’albero dei Microchip (Edizioni Ambiente 2009), Donne a perdere (Edizioni E/O 2010) e la serie poliziesca iniziata con Una brutta storia (Edizioni E/O 2012) e La notte delle pantere (Edizioni E/O 2014).

:: Il delitto della montagna di Chicca Maralfa (Newton Compton 2024), a cura di Patrizia Debicke

12 febbraio 2024

Due anni dopo il trasferimento ad Asiago, al comando della stazione dei carabinieri, il luogotenente barese Gaetano Ravidà, voce narrante della trama, sta cominciando ad ambientarsi.
Certo la distanza fra Bari e Asiago è maggiore di quella scritta sul navigatore. Il freddo poi picchia duro sull’Altopiano dei Sette Comuni, denso di tristi memorie legate alle trincee del fronte più sanguinoso della prima guerra mondiale. E pare anche più pungente soprattutto se confrontato con il tepore pugliese. Ma bisogna adattarsi e di necessità virtù.
La sua nuova vita lontano da Bari e dalle figlie, dopo la separazione dalla moglie che l’ha tradito con il suo migliore amico, comincia a ingranare tramite il rapporto surrogato e segreto con Maria Antonietta Malerba, medico legale? E forse anche per merito della serena “consulenza” ambientale di Lilli Pertile, anziana donna, depositaria degli infiniti retaggi autoctoni e benché non abbia ancora imparato a districarsi bene con il dialetto, in qualche modo si arrangia.
Certo non sono rose e fiori, e sono tanti i problemi e i contrasti su quell’altopiano vicentino, disalberato dalla tempesta Vaia e costantemente sotto attacco per vari reati ambientali. Un paio di vecchie cave di marmo infatti sono state utilizzate come deposito illegale di rifiuti pericolosi e l’assottigliamento eccessivo delle pareti della roccia ha provocato infiltrazioni nel bacino acquifero sottostante.
La sua operazione è stata chiamata ‘Terra di nessuno’…
Il necessario recupero della legna da parte di aziende specializzate e l’inquinamento dovuto alle ex cave sta poi provocando numerose manifestazioni di protesta di gruppi di ambientalisti schierati davanti alle cave con in testa una bella e giovane cittadina, tale Angelica Benedin.
E proprio perlustrando quegli anfratti rocciosi, in un cunicolo, Ravidà e i suoi uomini hanno ritrovato il cadavere mummificato di un uomo, che non è stato possibile identificare.
Dall’autopsia, effettuata dall’amica medico legale, risulta che la vittima è stata uccisa da un colpo di pistola alla nuca, esploso a distanza ravvicinata e che la morte risale a circa cinque anni prima.
Ernesto Costa noto imprenditore locale è l’unico a essere sparito in passato. Ma la cosa più strana è che mai nessuno abbia denunciato la sua scomparsa. Neppure sua moglie, succube e avvezza alle sue costanti fughe e tradimenti, convinta che si trattasse di un allontanamento volontario e il nipote che ha ereditato le gestione dell’azienda.
Che possa essere lui? Era un inveterato giocatore, sempre pieno di debiti. Puzzo di mala? Potrebbero esserci di mezzo i pericolosi tentacoli della mala del Brenta.
Mentre con tutte le adeguate indagini, si cerca di risalire all’identità della vittima, un incendio all’apparenza accidentale, manderà a fuoco la casa di Checo Piovan un ecologista ma anche un rompiscatole e ubriacone, mandando a fuoco l’archivio dell’Arma e mettendo a rischio persino la contigua caserma.
Ma la faccenda è molto più complicata di come parrebbe a prima vista. Anche la sua morte potrebbe non essere accidentale. E come se non bastasse presto ci sarà una terza vittima. I tre decessi/delitti? parrebbero scollegati tra loro… E se invece un invisibile filo riunisse il cold case della mummia alle due vittime più recenti?
Per saperne di più Ravidà e la sua squadra dovranno confrontarsi tanto per cominciare con la consueta e torpida diffidenza della comunità locale.
Una lunga e faticosa indagine condotta da un Ravida, ormai molto più sicuro di sé sulla nuova scena e che gode dell’appoggio del procuratore Pazienza suo conterraneo, nel periodo più freddo dell’anno, durante i gelidi giorni della merla, con tutto il paesaggio completamente coperto dalla neve. Una difficile indagine che, ignorando freddo e intemperie, per arrivare a scoprire la verità dovrà riuscire a superare la riservata e guardinga coltre di silenzio locale e saper individuare la contorta radice del male .
Solo grazie alle vaghe testimonianze, sovrapponendo e confrontando le varie fonti in una complicata e capillare indagine, Ravidà e i suoi collaboratori arriveranno a incrociare i dati e a sospettare legami e possibili connessioni tra le vittime.
Un delitto della montagna che pare voler oscillare fra il presente e il passato. Un cold case che confonde e pare voler mischiare di continuo le carte in tavola.
Una splendida ambientazione, evidenziata dalla grande e solenne bellezza dei luoghi. Una location che, a detta dell’autrice, deve moltissimo a Mario Rigoni Stern, l’idea della pernice bianca che attraversa le pagine del romanzo rimanda alla sua maestosa opera … Nel suo Libro degli animali lui scrisse che le pernici bianche sono: «rimaste a testimoniarci il tempo perché invece di andare tutte verso le tundre del Nord con gli uri e le alci, si erano fermate sulle cime più alte emergenti dell’Europa ancora primigenia, come per farci compagnia».

Chicca Maralfa è nata a Bari, dove vive tuttora. È giornalista e responsabile dell’ufficio stampa di Unioncamere Puglia. Appassionata di musica indipendente e rock d’autore, ha collaborato con la “Gazzetta del Mezzogiorno”, “Ciao 2001” e Music, Antenna Sud e Rete 4. Nel 2018 con L’amore non è un luogo comune ha partecipato all’antologia di racconti L’amore non si interpreta (l’Erudita), contro la violenza psicologica sulle donne. Festa al trullo, pubblicato nel 2018 da Les Flâneurs Edizioni, è il suo primo romanzo.

:: Il tempo corre piano di Enrico Luceri, (Giallo Mondadori 2023) a cura di Patrizia Debicke

31 ottobre 2023

Un drammatico prologo che si svolge a Napoli, nel febbraio 1993 con la signora Lucia Satriano che giace in un letto d’ospedale dopo la perdita del figlio, un bambino che desiderava con tutta se stessa e al quale voleva dare il nome di suo padre Giuseppe, morto giovane. Una donna percossa crudamente nel corpo e nell’anima, talmente sconvolta da rifiutare persino di vedere e parlare con il marito al quale imputa la causa dell’aborto. Con un repentino cambio di scena e un balzo avanti nel tempo di trentaquattro anni, la rincontreremo nel novembre del 2017, ormai sessantacinquenne, morta nel salone del suo appartamento a pianterreno di via Ninfa 3 , una traversa di via Raffaello al Vomero. Nell’appartamento aleggia un’atmosfera tetra, ma non è solo colpa della giornata d’autunno. Al commissario Tonio Buonocore il silenzio delle stanze, appesantite dai grandi e scuri mobili di antiquariato e dal cupo soggetto del grande quadro appeso alla parete, dà subito un’impressione sgradevole. Impressione rafforzata, dopo una prima occhiata al resto dell’appartamento, dal vuoto che salta all’occhio sopra i mobili. Insomma ovunque niente fotografie né soprammobili, i più classici testimoni di una vita familiare.Il cadavere della signora è stato ritrovato seduto su una poltrona di pelle dallo schienale alto, con il busto riverso sul ripiano della scrivania, con un cassetto spalancato in cui si scorgono della carte. Il suo braccio sinistra è posato in grembo mentre il destro pende, abbandonato. A terra, a pochi centimetri dalla sua mano, c’è una pistola di piccolo calibro. Sulla tempia destra della morta risalta, fra i capelli biondi tinti bagnati di sangue, il largo foro scuro dove è penetrato il proiettile. Annotato in penna rossa su dei post it gialli sparpagliati un po’ per tutta la casa un nome, il nome di un farmaco sperimentale usato per gravi e fatali patologie neurovegetative. La donna, considerata da tutti coloro che la conoscevano, una persona rigorosa, riservata, prudente ma intransigente, negli ultimi tempi appariva inquieta, scostante, soprappensiero. A detta poi di chi la frequentava, come la cameriera Raffalella Capasso, detestava il colore bianco che le ricordava un fatto molto doloroso della sua vita. L’ipotesi più scontata appare quella di una ricca e anziana vedova, senza figli e senza eredi diretti che non accetta la sentenza di un inesorabile morbo e sceglie di farla finita. Il magistrato infatti, suffragato dalla versione del medico legale, non ha praticamente dubbi sulla tesi del suicidio. La casa era chiusa. La giovane cameriera madre di tre figli, che veniva ogni mattina per due ore, non riuscendo a passare dalla porta d’ingresso chiave, si presume bloccata dalla chiave infilata nella toppa dalla sua padrona, dopo aver suonato più volte è riuscita faticosamente ad aprire la portafinestra del giardino ed entrare … Il commissario Tonio Buonocore viceversa percepisce subito qualcosa di anomalo in quel suicidio. E questo sarà un problema perché all’inquirente non basterà il suo pur straordinario intuito. .. Servono degli indizi o meglio prove e/o riscontri precisi per smontare la tesi che Lucia Satriano si è tolta la vita e avvallare un’indagine approfondita. Tanto che lui e la sua bella e bruna ispettore capo Lina Garzya, la tecnologica esperta informatica della sua squadra, dovranno impegnarsi alla spasimo e trovare il modo per convincere a non chiudere il caso il sostituto Pierannunzi che, sentite le diagnosi dei luminari medici curanti della donna, si è già lavato la coscienza. E invece, secondo Buonocore, alcuni particolari non quadrano: intanto, a suo vedere, perché qualcuno che ha deciso di suicidarsi prepara la sua cena senza poi mangiarla e si veste con studiata eleganza? E poi perché dal blocco di appunti della signora Satriano è stato strappato un foglio di carta ora introvabile? E perché prima di uccidersi, se l’ha fatto, non ha lasciato qualcosa di scritto per spiegare la sua decisione? Strano no? Bisogna confrontarsi con la realtà ma nessuno della casa e dei dintorni ha sentito lo sparo, o ha visto qualcuno o qualcosa. Insomma dopo aver interrogato la cameriera, il commissario verrà a sapere che la Satriano aveva divorziato da Mauro Mileti e in seconde nozze a cinquant’anni aveva sposato Osvaldo Lubrano, uomo molto ricco e affermato, proprietario della galleria dei Veli che aveva ceduto da tempo a Massimo Picone e morendo aveva lasciato alla moglie il cospicuo vitalizio concordato al momento della vendita sull’utile dell’attività. Buonocore è uno straordinario osservatore e un attento ascoltatore. Con l’indispensabile aiuto dell’ispettore capo Lina Garzya, setaccerà minuziosamente tutte le piste possibili, compreso scavare a fondo nel passato della donna. Per farlo dovrà chiedere particolari ad altri personaggi come il primo marito, un giornalista mai risposatosi dopo il divorzio, ai due medici, il neurologo e lo psichiatra che avevano in cura la Satriano, al nuovo gallerista forse collegabile a commerci poco puliti legati al sinistro quadro del salone e all’unica, pare, attuale amica della morta, una donna colta, molto preparata, conosciuta da poco, alla quale però aveva confidato la recente ricerca di una vecchia amica di gioventù, mai più frequentata. Perché la Satriano doveva ritrovarla? A causa di qualcosa di molto triste e grave che aveva appena scoperto? Sarebbe stata uccisa perché sapeva troppo? O forse perché sapeva troppo poco? O per il suo spietato e crudele egoismo? Uccisa, ma certo! Perché ormai c’è la certezza che si tratti di omicidio. E per risolvere il caso e scoprire il nome dell’assassino a Buonacore ormai basteranno pochi trascurabili elementi quali l’incertezza in una frase, una parola di troppo o magari un gesto istintivo, impossibile da trattenere. Ma anche un’espressione tormentata, celata a fatica possono regalargli una precisa sensazione che, se si rivelasse giusta, potrebbe consentirgli di arrivare alla verità. Una verità che lui ama sempre immaginare come il filo di un aquilone, carico di idee ancora confuse e vaghe intuizioni, sfuggito alla mano di un bambino. Destinato ad allontanarsi e sparire galleggiando alto in cielo, magari per sempre? Ma talvolta invece sarà un qualcosa, il vento o le correnti, a riportarlo indietro, riconsegnandoglielo con il suo prezioso carico. Pronto a fargli trovare la soluzione dell’enigma.Anche stavolta Luceri ci regala un perfetto giallo classico. Un giallo che, dopo la conclusione si è voluto arricchire anche, con un suo racconto “Un gusto un po’ amaro di cose perdute” . Un bel racconto a chiusura del libro con Buonocore in vacanza a Sorrento che, coinvolto dal suo albergatore nell’uccisione di notte, in una stradina del centro di una bella ragazza, risalirà scrupolosamente all’analoga morte di altre due ragazze per scoprire e incastrare il killer.

Enrico Luceri è uno scrittore italiano di gialli. Laureato in Ingegneria, lavora dalla metà degli anni ottanta in società di impiantistica per progetti. Appassionato di Agatha Christie, che è tra i suoi modelli letterari, e del giallo deduttivo, è autore di romanzi, di una settantina di racconti e di sceneggiature, oltre che di saggi sul cinema, tra cui Storia del cinema giallo thrilling italiano presentato a puntate sulla rivista Sherlock Magazine edita da Delos Books.Nel 2008 ha vinto il Premio Tedeschi. Pubblica articoli in appendice alla collana I Classici del Giallo Mondadori, nella sezione “I segreti del giallo.

:: Schwarzenegger, Renditi utile, da oggi in libreria

10 ottobre 2023

Il successo non è questione di fortuna, salvo rare eccezioni. Lo sa bene Arnold Schwarzenegger, che nella vita ha raggiunto sempre il massimo livello in ogni campo in cui si sia messo alla prova. La sua storia inizia il giorno in cui lascia l’Austria per volare in America, con soli duecento dollari in borsa ma un piano ben chiaro in testa. Il suo successo straordinario è il risultato di una visione chiara del proprio futuro, duro lavoro, insaziabile curiosità e la capacità strategica di valorizzare i propri talenti.
Per arrivare esattamente dove si era proposto Schwarzenegger ha fatto suo l’insegnamento del padre, un invito semplice e al tempo stesso miracoloso: renditi utile, a quante più persone possibile e a te stesso prima di tutto. Spaziando da René Girard a Marco Aurelio, passando per lo stoicismo di Epitteto fino ai sorprendenti aneddoti sulla sua vita, Arnold Schwarzenegger compone un vero e proprio Tao dell’autorealizzazione personale che, con poche chiacchiere e molti fatti, si propone di aiutare i lettori a cambiare vita cambiando mentalità.

Arnold Schwarzenegger (1947, Thal) austriaco d’origine, è emigrato in America poco più che ventenne con pochissimi mezzi e ha costruito con determinazione un impero milionario: dai successi nel bodybuilding fino ai ruoli da protagonista in film cult come Terminator e Conan il barbaro e poi il successo in politica come governatore della California, Schwarzenegger è uno dei volti più iconici della storia recente. Sempre disposto ad esporsi su temi sociali anche in aperto scontro con la sua stessa parte politica, oggi continua a lavorare a diversi progetti per piccolo e grande schermo anche come producer: del 2023 la docuserie Arnold e la serie action FUBAR, entrambe su Netflix.