Posts Tagged ‘colonialismo’

:: “Delitto a Dogali” (Les Flaneurs Edizioni 2023), il nuovo giallo storico firmato da Daniele Cellamare a cura di Giulietta Iannone

8 dicembre 2023

Dopo Carlo Lucarelli e Giorgio Ballario un nuovo autore ci porta nell’Africa coloniale, questa volta di fine Ottocento. In “Delitto a Dogali” di Daniele Cellamare, edito da Les Flaneurs Edizioni, ci troviamo nell’afosa atmosfera della Massaua di fine Ottocento alle prese con gli albori dell’epoca coloniale italiana in Africa Orientale voluta da quel Francesco Crispi che, dopo la disfatta di Adua, dove i soldati italiani del generale Baratieri vennero sconfitti da quelli etiopici al comando del Negus Menelik, vide tragicamente tramontare la sua stella. Protagonista del romanzo “Delitto a Dogali” è un capitano italiano di belle speranze Antonio Garofalo arrivato in Africa con il primo contingente che, coadiuvato dal tenente Umberto Palumbo, indaga sul misterioso omicidio di un prete piuttosto chiacchierato, tale padre Adelmo, da anni in terre d’Africa con la sua tonaca logora e unta di grasso. Certo il capitano Garofalo è un militare non un poliziotto ma la situazione si fa spinosa: bisogna risolvere al più presto la faccenda nella speranza che a uccidere il religioso non sia stato un militare italiano cosa che creerebbe scandalo e disonore e intralcerebbe di molto i maneggi politici della nascente colonia. Il capitano un tipo gioviale, leale e rispettoso si mette subito ad indagare e si trova immerso nell’atmosfera afosa e conturbante di un paese giovane che vede gli stranieri invadere più o meno pacificamente le sue terre e portare il tanto decantato progresso. Obiettivo del governo italiano è fare di Massaua un porto cardine nello sviluppo dei commerci ma non tutte le alte sfere militari in Africa si rendono ben conto delle reali criticità del territorio dalla mancanza di conoscenza dei mille dialetti, dalle scarse competenze e conoscenze dei territori, dalla incapacità di valutare la reale tenuta militare di bande di predoni forse mal armati ma temprati dal clima e capaci di rispondere con forte determinazione agli attacchi nemici. Il professore Cellamare, fine conoscitore della storia militare e politica del periodo, con il suo stile piano e fluido ci racconta un pezzo di storia dimenticata e ancora capace di generare interesse e volontà di approfondimento. Certo è un romanzo di avventura investigativa non un saggio ma le date, gli stralci di giornale dell’epoca, il colore locale sono autentici ed evocativi e lasciano nel lettore un senso di inquietudine e curiosa comprensione. Chi avrà ucciso con una coltellata al cuore il sacerdote? Lo scoprirermo nell’ultimo capitolo e non potrà che lasciare nel lettore un senso di amara tristezza come per le cose che avrebbero potuto essere e non sono diventate. Lettura piacevole e densa di notizie storiche e curiosità. Speriamo presto di leggere nuove avvenure coloniali del simpatico capitano Garofalo.

Daniele Cellamare è nato nel 1952 e si è laureato in Scienze Politiche all’università LUISS. È docente presso la Sapienza di Roma e il Centro Alti Studi della Difesa. Autore di numerose pubblicazioni di storia contemporanea, collabora con «Rivista Militare» e altre testate nazionali. Vive a Roma ed è appassionato di studi sulla storia militare. Ha pubblicato i romanzi storici: La Fortezza di Dio, La Carica di Balaklava, Gli Ussari Alati, Il drago di Sua Maestà, Gli artigli della Corona e Delitto a Dogali.

:: Notabili libici e Funzionari italiani: l’amministrazione coloniale in Tripolitania (1912-1919), Simona Berhe (Rubbettino,2015), a cura di Daniela Distefano

11 ottobre 2016

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Cosa rappresentò il colonialismo italiano per la popolazione libica e cosa prefigurò l’assoggettamento della Tripolitania per l’Italia?
Forse può aiutarci questo volume che compie una disamina della legislazione coloniale dal 1912 al 1919, la correda di biografie di coloro che operavano nell’amministrazione coloniale, ne indica le modalità di interazione, tenta anche un approccio di storia sociale fornendo una spiegazione di quel movimento di resistenza libico che tanta parte ebbe negli sviluppi successivi del Paese.
La Libia era (ed è) tormentata da un male: la povertà; tuttavia fu errato il convincimento italiano di trovarsi davanti ad una società immobile che avrebbe accettato supinamente la conquista.
Al contrario, la reazione dei tripolitani sorprese i colonizzatori, impreparati ad un braccio di ferro che si sarebbe rivelato sfiancante per entrambe le parti in conflitto. Quale fu allora il primo passo dei colonizzatori per domare il malcontento? La scelta di Pietro Bertolini, primo ministro delle colonie, di mantenere in vita lo scheletro del sistema istituzionale ottomano aveva permesso di posporre la questione delle strutture amministrative. Andava invece affrontato immediatamente il tema del personale coloniale che avrebbe operato a Roma e in Libia.
Di fatto, emerse un primo, irriducibile, diabolico, problema, vale a dire l’egemonia dei militari. Si impose la cosiddetta “Sindrome delle due teste”, una a Roma e l’altra a Tripoli: due universi distinti, quello militare e quello civile, che faticavano a collaborare, a riconoscersi. La storia seguente fu il tentativo di rendere conciliante il pensiero di questo Giano Bifronte. La coperta era troppo corta, di fatto finì per scontentare le due anime della potenza coloniale italiana. Si arrivò al 1919 quando

la Costituzione sembrava negare ogni principio sul quale si era retto l’ordinamento Bertolini: all’arbitrio si opponevano le libertà civili; il monopolio delle cariche da parte dei funzionari italiani era superato grazie a procedure che favorivano la presenza di libici all’interno dell’amministrazione; l’autorità delle cariche monocratiche era bilanciata dalle assemblee locali e dal parlamento di Tripoli.

La rivoluzione attecchì anche nei fondali della popolazione, la Tripolitania ripiombò ben presto nell’odioso clima di guerra, ancora un conflitto atroce, il fascismo di Mussolini, il resto è storia mondiale che appannò le vicende di questo Paese mai del tutto pacificato. L’autrice sembra a suo agio nel descrivere fatti, retroscena, testimonianze di quello che fu vissuto dal popolo libico come un boccone difficile da digerire. Mancò l’accortezza, la sensibilità nel maneggiare gangli della società civile in continuo stimolo rivoltoso. Ci si voleva liberare, prima dell’oppressore, poi della realtà di un paese ricco di gente povera.

Simona Berhe è storica dell’Università degli Studi di Milano. Fa parte del Laboratorio di Storia, Sociologia e Scienza delle Istituzioni MaTriX, già dottoressa di ricerca in Storia e comparazione delle istituzioni politiche e giuridiche europee (Università di Messina). E’ borsista dell’Istituto Storico Germanico di Roma.

Source: libro inviato dall’Editore al recensore. Ringraziamo Antonio dell’Ufficio Stampa Rubbettino.

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:: L’americano tranquillo, di Graham Greene (Mondadori, 1992) a cura di Giulietta Iannone

22 giugno 2016

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Innanzitutto è bene precisare che L’americano tranquillo (The Quiet American, 1955) non è un saggio di geopolitica. Lo stesso Greene nell’introduzione al romanzo, dedicandolo a René e Phuong, due suoi carissimi amici, dice che non ci sono alcune controparti reali ai suoi personaggi, e che anche i fatti storici sono in parte rimaneggiati, insomma questo è un racconto non un libro di storia.
Ciò non toglie che un racconto di personaggi immaginari possa fare trasparire in filigrana personali convinzioni dell’autore, ovvero molto spesso scherzando si dice la verità, ma appunto distinguere fantasia e realtà in un romanzo non è un’impresa così facile e soprattutto priva di rischi. Si potrebbe iniziare a leggere tutti gli articoli che Greene scrisse come corrispondente di guerra per “The Sunday Times” e “Le Figaro” durante la guerra d’Indocina, facendo raffronti e comparazioni, o le sue lettere private, quasi con l’entusiasmo di un entomologo, ma ne vale davvero la pena? Non che non lo si possa fare naturalmente, ma lasciamo agli storici questo compito, noi accontentiamoci di trascorrere una delle tante sere afose di Saigon.
Un’altra questione che vorrei affrontare, non certo con leggerezza, riguarda le polemiche e le accuse di antiamericanismo, misoginia, e irresponsabilità che gli furono fatte da più parti all’uscita del romanzo (fu pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1955 da William Heinemann Ltd. e solo l’anno dopo negli Stati Uniti da Viking Press). Polemiche sicuramente virulente negli anni ’50, in piena caccia alle streghe, che oggi hanno perso parte dello slancio lasciando in tutti, critici e lettori, la convinzione che Un americano tranquillo è una riuscita opera letteraria, meritevole di apprezzamento appunto per il suo valore artistico. Affermazione quest’ultima forse non del tutto veritiera se si pensa che l’uscita del film di Noyce del 2002, molto fedele al libro (sicuramente più del film di Joseph L. Mankiewicz del 1958) fu ritardata per i fatti dell’ 11 settembre del 2001. Insomma il libro, e i film da esso tratti, hanno ancora oggi una componente di tale portata da essere giudicati pericolosi, o destabilizzanti. Potere della letteratura.
Per avvicinare i lettori a questo libro credo sia comunque necessario inquadrare il romanzo nel periodo storico in cui fu scritto, giusto per ricordare chi furono i Viet Minh, chi fu Ho Chi Minh, in che regioni si estendeva l’Indocina, cosa portò alla battaglia di Dien Bien Phu. Giusto una traccia e uno spunto, insomma, per chi vorrà in futuro documentarsi.
Che nel romanzo si parli di colonialismo francese, comunismo, imperialismo americano, antimilitarismo, terrorismo è indubbio, i temi etici e politici sono senz’altro parte dell’intreccio, anzi ne costituiscono il tema portante, ma non dimentichiamoci che il libro si può anche benissimo leggere senza conoscere niente della situazione del Sud-est asiatico degli anni ’50, che portò se vogliamo alla guerra del Vietnam, e Greene sembra vedere le chiare premesse (sottolinea più volte il concetto di Terza forza) di questa deriva descrivendo le imprese coperte già in atto nel paese, e forse proprio il suo doppio ruolo di giornalista e di spia gli dava se vogliamo una posizione privilegiata per analizzare e interpretare i fatti. Solo molto più tardi, anche in America, si sviluppò un certo spirito critico se non un aperto dissenso verso il coinvolgimento americano nel Sud-est asiatico, disinnescando in un certo senso la portata delle tesi di Greene. E allora le sue parole acquisteranno sì solo più una sorta di preveggenza o per lo meno di attenta lungimiranza.
Ma potrei dire di più, una certa universalità, slegata ai fatti contingenti della guerra del Vietnam, proprio un certo atteggiamento di critica verso la condotta etica e morale, collegabile al kipliniano fardello dell’uomo bianco, di autoinvestitura dell’America come esportatrice di diritto e democrazia, e di cibi energetici, coca cola e armi (come ironizza Greene) ci riporta alla più stretta attualità. L’ America come gendarme del mondo dunque, ruolo che tutt’ oggi ha conseguenze tutt’altro che trascurabili nelle vicissitudini del nostro tormentato pianeta. Detto questo, si può leggere comunque il romanzo anche come una storia d’amore, come un giallo poliziesco, come un romanzo di formazione, un esotico libro di viaggi. Insomma le letture sono molteplici e tutte legittime. Ogni lettore trovi la sua strada interpretativa.
Ma tornando al mio piccolo quadro riassuntivo del periodo storico, innanzitutto partirei col dire che l’ Indocina del 1950 assimilava gli odierni stati della Cambogia, del Laos, della Thailandia, della Birmania, della Malesia e del Vientnam. La parte orientale dell’Indocina, comprendente a vario titolo Vietnam, Laos e Cambogia, rientrava dall’ottobre del 1887 nelle dinamiche colonialiste francesi, dinamiche di sfruttamento economico, sudditanza commerciale e culturale, che Greene certo non approfondisce, ma a cui velatamente accenna. Dopo alterne vicende nel 1946 la Francia riprese il controllo dell’Indocina ma già Ho Chi Minh, a capo di un movimento comunista e indipendentista – nazionalista noto come Viet Minh, pone le basi per la guerra d’Indocina, combattuta dal 1946 al 1955, che portò dopo la battaglia di Dien Bien Phu, alla totale disfatta francese, e alla fine del suo sistema coloniale. Francia e patrioti (o ribelli) vietnamiti, a secondo dei punti di vista, furono i soldati sul campo, ma la vera guerra tra alleanze, aiuti, e balletti della diplomazia, fu combattuta tra Stati Uniti, e Unione sovietica e Cina. Tutti stati seduti allo stesso tavolo della conferenza di pace di Ginevra del 1954. Trattato di pace che lasciando tutti scontenti portò quasi senza logica di discontinuità alla guerra del Vietnam, combattuta dal 1955 al 1975.
Un americano tranquillo uscì nel 1955, dopo una gestazione di alcuni anni, proprio all’inizio di quella guerra che leggendo il libro sembra inevitabile. Tre sono i personaggi principali: Thomas Fowler, cinico e disilluso reporter inglese di stanza a Saigon, voce narrante della storia; Alden Pyle, agente della CIA sotto copertura (ufficialmente lavora per una fantomatica Missione per gli aiuti economici), in Vietnam per creare proprio quei presupposti che avrebbero portato ad un intervento diretto americano; e Phuong, giovane vietnamita amante prima di Fowler, e poi di Pyle, che promette di sposarla e garantirle una vita sicura e onorevole in America.
Il romanzo inizia con la notizia della morte di Pyle, e grazie a una serie di flashback che ci riportano a un passato filtrato dagli occhi di Fowler, ricostruisce pian piano le motivazioni che portarono a questo delitto, scoprendo se Fowler (e in quale misura) fosse coinvolto. Uno schema classico, classico almeno per Greene che già nel Terzo uomo lo presentò: un’amicizia tradita, una donna contesa, un contesto politico difficile. Pyle comunque ha ben poco dell’antagonista Harry Lime, la Vienna occupata, ben poco della Saigon colonialista, ma nonostante tutto lo spirito sembra il medesimo, Greene sembra continuare un discorso precedentemente iniziato, almeno a livello artistico.
Fowler non è un eroe, può in un certo senso richiamare una proiezione dell’autore stesso, forse più che altro per alcuni atteggiamenti, ma resta un personaggio di fantasia, una creazione strumentale all’intreccio, utile alla narrazione e se anche non ci fidassimo delle premesse dell’autore, lo scopriremo durante la lettura, quando il suo doppio e triplo animo si dipana durante la storia, creando un meccanismo perfetto di suspense e dissimulazione, godibile per il lettore, anche il più smaliziato, e ammirevole da un mero punto di vista narrativo.
L’ambiente giornalistico intorno al Continental è sicuramente realistico, nato dai ricordi di Greene, da quel mood cinico e senza illusioni di una comunità di espatriati, riuniti al capezzale di una guerra che sono pagati per documentare con i loro articoli mandati per telegramma, depurati dalla censura, portati sui campi di battaglia come chiassose classi di studenti in gita, assistendo a conferenze stampa pilotate, dove ottenere vere notizie o anche solo disvelamenti è una cosa più unica che rara.
Tutti recitano un ruolo, lo stesso ruolo di Fowler, l’uomo senza opinioni, l’uomo che non si lascia coinvolgere, l’ateo convinto, mosso solo dal suo personale egoismo visto come un’unica ancora di salvezza giustificata dalla disperazione e dalla solitudine.
Il suo stesso amore per Phuong quasi non si spiega. Come lei ce ne sono molte, donne vietnamite disponibili a intrattenere rapporti con gli occidentali. Phuong infondo è una donna senza apparenti particolari qualità a parte la giovinezza e la bellezza. Il suo mistero resta inaccessibile, lo stesso Fowler si stanca presto di cercare di penetrare i suoi pensieri, di vedere cosa si agita nella sua mente. Phuong a tratti può sembrare quasi un contenitore vuoto, che colleziona sciarpe colorate, che ammira la famiglia reale inglese, di cui sfoglia in continuazione riviste e libri illustrati, che lascia un uomo per mettersi con un altro senza drammi, concedendo il suo corpo con indifferenza, preparando le pipe d’oppio priva di morali resistenze. Fondamentalmente ignorante, in questo simile a Pyle, anche se Fowler sembra giudicare l’ignoranza un effetto condizionato della giovinezza, calcolatrice, attenta più che altro al suo benessere materiale, a tratti insensibile, anche se Fowler raccomanda a Pyle di non trattarla come un bel oggetto, di non farla soffrire, perché anche lei ha sentimenti, emozioni, anche se la compostezza tutta orientale che l’anima sembra negarlo.
L’accusa di misoginia potrebbe essere sensata, se non si percepisse, anche distintamente, in questa quasi totale snaturalizzazione del personaggio, il riflesso di un’idea. Phuong non è una donna, ma lo spirito stesso del Vietnam, occupato, colonizzato, sfruttato, diviso. Un paese che cerca di sopravvivere, e si adatta a risorgere dalle sue ceneri. In questo la metafora della Fenice, non sembra limitarsi al significato letterale del nome o alla piacevolezza del suo suono o alla facilità di pronunciarlo per un occidentale come sembra sostenere Greene. Il Vietnam è destinato a risorgere sembra al contrario dirci l’autore, dopo anni di sfruttamento coloniale, alle soglie di una guerra ancora più devastante di quella già in atto, che nessuno può evitare, o forse manco ci si prova.
L’antimilitarismo di Greene è radicale, la guerra è il pianto di un uomo nel buio, potente raffigurazione che colpisce nel profondo il lettore più che la descrizione di corpi dilaniati, cadaveri ingrigiti, e innocenti sanguinanti. Forse più ancora della madre che nasconde con il cappello il cadavere del figlio dopo l’attentato nella piazza di Saigon. Odio la guerra, Greene fa dire con disperazione a Fowler, dopo l’attacco al piccolo sampan, sgretolando definitivamente la sua apparente indifferenza e il suo cinismo. Quando il capitano Trouin ci parla dei bombardamenti al napalm, (Si vede la foresta che va a fuoco. Sa Dio cosa si vedrebbe stando a terra. Quei poveri diavoli bruciano vivi, le fiamme gli arrivano addosso come una marea. Annegano nel fuoco) passano nella mente inevitabilmente i fotogrammi del film Apocalypse Now ponendo fine a ogni riflessione sul concetto di guerra giusta.
Il personaggio di Pyle, a cui Fowler, pur dichiarandosi suo amico e nutrendo del vero affetto, non evita una battuta di vendicativo scherno (mi immaginavo i suoi occhi molli e un po’ canini. Avrebbero dovuto chiamarlo Fido, non Alden) con tutte le sue valenze simboliche e metaforiche, si discosta grandemente dal villain classico. E’ un ragazzone americano giovane, con le gambe dinoccolate, i capelli tagliati a spazzola, e lo sguardo aperto, da studente universitario, (…) incapace di fare del male. E’ serio, corretto, idealista, coraggioso (salva la vita a Fowler a rischio della propria), quando se ne innamora vuole proteggere Phuong, lontano anni luce da molti suoi simili che vedono nelle donne vietnamite meri oggetti di piacere. Ma è tragicamente ingenuo e colpevolmente innocente. Tutto quello che sa dell’Estremo Oriente l’ha imparato dai libri (anche quello che sa del sesso e forse dell’amore l’ha unicamente imparato dai libri). E’ imbottito di concetti astratti sui dilemmi della Democrazia e le responsabilità dell’Occidente, concetti presi di sana pianta dai libri di York Harding (scrittore inesistente, naturalmente inventato da Greene) che racchiude in sé i tanti commentatori politici, apertamente anticomunisti, veicoli di propaganda, più che di convinzioni profonde. E solo l’ingenuo Pyle può considerare York Harding (se cercate un colpevole Vigot, è lui l’assassino di Pyle) un profeta, detentore delle più salde e incrollabili verità. Pyle è totalmente privo di spirito critico, ed è questa fondamentalmente l’accusa che Fowler gli rivolge, la sua assurda innocenza (chi può dirsi innocente a quel punto della guerra), la sua certezza di essere nel giusto, (anche quando donne e bambini cadono sul campo) il suo giustificare la propria inettitudine (doveva controllare che la parata fosse stata rimandata). Nel definirlo un americano tranquillo, (la prima è Phuong a farlo) Greene paradossalmente accentua l’ironia amara che stigmatizza chi fa danni suo malgrado, anzi con le migliori intenzioni, e lo stesso Vigot, della Suretè francese, lo definisce così alludendo al fatto che è freddo e rigido nella sala mortuaria.
E poi c’è il Vietnam che inevitabilmente Greene ama, di un amore capace di far provare nostalgia quando ancora vi ci vive (pur sapendo che molto presto sarà altrove). Il suo clima afoso, le zanzare, le pipe d’oppio, le ragazze in bicicletta con i pantaloni di seta bianca e le lunghe vesti attillate a fiori, le vecchie in pantaloni neri intente a spettegolare, le risaie, il tè servito a ogni ora come forma di ospitalità, le parate variopinte dei caodaisti, i guidatori di risciò, i tavolini all’aperto dei bar, tutto l’esotico scenario già presente nelle sue cronache giornalistiche, che qui riporta fedelmente con lo stesso rispetto e dignità e un velato senso di colpa, (noi inglesi siamo colonialisti di vecchia data tanto quanto i francesi).
Chiudo dicendo che se vi avvicinate a Greene per la prima volta, L’ americano tranquillo, può essere il libro che vi farà innamorare perdutamente di questo autore, con le sue contraddizioni, la sua fede tormentata, la sua lucidità integra e onesta, e la sua capacità di trovare le parole giuste in ogni circostanza, a cui ci si avvicina con una certa invidia, la stessa di Vigot quando cerca le parole sul piano della scrivania, parole capaci di esprimere i suoi pensieri con la mia stessa precisione.
Nuova traduzione di Alessandro Carrera ripresa dalla prima edizione I Meridiani del giugno 2000, pubblicata a partire dalla terza ristampa, condotta sul testo autorizzato della Collected Edition, la serie di volumi che Heinemann e Bodley Head pubblicarono tra il 1970 e il 1982 con l’imprimatur dell’autore.

Greene Graham (Berkhamsted, Inghilterra, 1904 – Vevey, Svizzera, 1991), convertitosi al cattolicesimo intorno al 1926, è tra i narratori inglesi novecenteschi più popolari. Giornalista e inviato speciale, ma anche autore di teatro e sceneggiatore per il cinema, Graham Greene è famoso soprattutto per i suoi romanzi, come Il potere e la gloria (1940), Il terzo uomo (1950), Il nostro agente all’Avana (1958) e Il console onorario (1973). Tutte le sue opere principali sono pubblicate negli Oscar Mondadori.

Source: acquisto personale.

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