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:: Pétronille, Amélie Nothomb (Voland, 2014) a cura di Lucilla Parisi

10 marzo 2015

amAmélie Nothomb torna a parlarci di sé con l’amabile ironia che la caratterizza.
Un dialogo tra amiche ci conduce tra serate al gusto di champagne e viaggi notturni per i locali di Parigi, perché l’amicizia, si sa, è soprattutto condivisione. Ciò che le due amiche hanno in comune, oltre alla scrittura, è la passione per le adorabili bollicine e ogni occasione, dall’uscita di un nuovo romanzo alla discesa da una pista di sci, è buona per farsi coccolare.
L’altra scrittrice, meno navigata e decisamente molto ribelle, è Pétronille Fanto che da ammiratrice e seguace della Nothomb, ne diventa confidente, ruolo che riveste con dissacrante naturalezza. La distanza tra le due donne è però evidente nell’imbarazzo e nell’incredulità che la scrittrice alle prime armi, con fattezze da adolescente, riesce sempre a sollevare nella già famosa autrice belga.
Così la Pétronille che testa farmaci per denaro (con le inevitabili drastiche conseguenze che ne derivano), che gioca con la roulette russa o che decide di attraversare il deserto del Sahara a piedi rimane per la Nothomb un autentico enigma.
Il romanzo ripercorre, attraverso la storia di un’amicizia, le pubblicazioni dei suoi famosi romanzi e la vita di una scrittrice che, nonostante il successo dei suoi libri, deve fare i conti con inevitabili delusioni e incontri decisamente mortificanti, come l’incredibile intervista a Vivienne Westwood, che ricorda, per grado di umiliazione e divertimento, la fallimentare esperienza della Nothomb nella società giapponese Yumimoto, raccontata nel romanzo Stupore e tremori del 1999.
Senza raggiungere i risultati esilaranti a cui ci ha abituato con alcuni suoi precedenti romanzi, con Pétronille Amélie Nothomb continua a farci sorridere.
Non risparmia sferzate al mondo editoriale che ben conosce e di cui ci regala un quadro non molto lusinghiero: la vicenda di Pétronille scrittrice ne è certamente un valido pretesto. Traduzione di Monica Capuani.

Amélie Nothomb Scrittrice belga di lingua francese. Figlia di diplomatici, è nata a Kobe, in Giappone, nel 1967. Nel 1992 viene pubblicato in Francia da Albin Michel il suo primo romanzo, Igiene dell’assassino, che diventa il caso letterario dell’anno: 100.000 copie vendute, due riduzioni teatrali, un film. Nelle edizioni tascabili lo stesso romanzo vende altre 125.000 copie. Da quel momento pubblica un romanzo all’anno, fedele alla stessa casa editrice, Albin Michel, come in Italia è fedele alla Voland. Il romanzo Stupore e tremori (Albin Michel 1999) ha venduto in Francia 400.000 copie. Tradotta in 15 lingue, ha ottenuto numerosissimi premi letterari tra cui il Grand Prix du roman de l’Académie Française e il Prix Internet du Livre per Stupore e tremori (da cui è stato tratto anche un film diretto da Alain Corneau), il Prix de Flore per Né di Eva né di Adamo e due volte il Prix du Jury Jean Giono per Le Catilinarie e Causa di forza maggiore. Sin dal suo primo romanzo Amélie Nothomb ha imposto uno stile: sguardo incisivo, spesso impietoso e crudele, umorismo fulmineo, storie originali che ruotano intorno a sentimenti eterni. http://www.amelienothomb.com/

:: Satyricon a Napoli ’44, Roberto De Simone, (Einaudi, 2014) a cura di Lucilla Parisi

14 gennaio 2015

978880621978GRA“Per caso o per destino l’8 settembre 1943 fu anche la data in cui fu stipulato l’armistizio, ma questa volta la famosa Madonna sembrò uscire dalla storia ufficiale. Ben presto i rifugiati bellici nella caverna mariana si accorsero che c’era poco da stare euforici, anzi che la situazione si era aggravata, né si sapeva attribuire alla Madonna alcun intervento prodigioso. Senza sosta rimbombavano le cannonate. I napoletani, dopo l’ordine di evacuare le zone prossime al mare, erano per strada con le loro misere masserizie disposte su birocci, non sapendo dove dirigersi. Dunque il precristiano antro dedicato a Mitra o a Priapo ospitò nuovi rifugiati, e si delineò una marcata scissione tra arcaica religiosità e incombenze smitizzate. I tedeschi intensificarono le loro azioni di sabotaggio e di terrorismo. Gli americani sbarcarono a Capri […] Mancava l’acqua, mancava il cibo, mancava lo Stato, ma certo non mancava Dio. […] Il senso di rivolta divampò senza programma, senza collegamenti, come un misterioso tam tam che allargò sempre più la propagazione. […] E furono le Quattro Giornate di Napoli e le quattro notti del nazismo, in cui l’umano senso del tutto per il tutto spezzò il ferro spinato che aveva tenuto in abiezione l’anima del mondo.”

Tra il 27 e il 30 settembre del 1943 un moto di insurrezione popolare liberò la città di Napoli dal giogo nazista, lasciando agli alleati che vi giunsero il primo ottobre una città ormai affrancata.
Roberto De Simone, allora ragazzino, racconta in queste pagine colme di episodi di storia e frammenti di vita vissuta una città allo stremo delle sue forze, ma eroica nella sua misteriosa capacità di reinventarsi e sollevarsi, ogni volta.
La Napoli del ’44 porta i segni di una invasione appena terminata e quelli altrettanto profondi di un nuovo invasore: l’arroganza dei nuovi arrivati costringe il popolo sfiancato dalla guerra a una sorta di tacito accordo con i nuovi occupanti, in nome di uno scambio non certo equo tra cibi in polvere e donne da vendere, tra un apparente mantenimento dell’ordine e una sempre più diffusa delinquenza di strada.

“Ciò che allora tutti non meritavamo era il discutibile cibo di cui ci nutrivamo: un cibo ridotto in polvere come gli edifici che ci circondavano, e a tale emblema di distruzione corrispondeva la polvere americana che ci sostentava. Polvere di piselli, polvere di fagioli, di lenticchie, di vegetali, e poi polvere di latte, polvere di uova, in sintonia persino con Polvere di stelle, un commestibile motivetto americano con cui cibare i nostri sogni già holliwoodianizzati.”

Fa da sfondo e da sottofondo una languida sacralità di ex voto e promesse infrante, di santi in volo, vecchi e nuovi, e di miracoli in attesa: la santità e la dannazione di una città profanata, aggredita, violata e santificata si respirano, insieme, dentro a ogni suo vicolo e anfratto.
Roberto De Simone è l’amico del pastoraro Turiuccio (perché Napoli è anche i presepi di San Gregorio Armeno) e di Carmeniello, lo scugnizzo senza arte né parte ma dal cuore grande.
Sono loro il centro di questo romanzo o melodramma – come lo ha definito lo stesso autore – fatto di tante storie, tenute insieme proprio dal racconto a volte lucido a volte visionario del giovane Roberto che, con un salto nel passato di quasi settant’anni, ritorna in una Napoli che non esiste più, ma in cui è facile ritrovare immagini, melodie e luoghi familiari.

“A volte avevo l’impressione che Napoli fosse una insensata serie di fotogrammi senza parole, con il commento sonoro di un pianino munito di osceni pensieri sessuali e di progetti omicidi.”

Visioni che ci rimandano a una città travolta dai suoi stessi fantasmi e dalle più antiche ossessioni: le strade di Napoli sono gironi infernali popolati da dannati e peccatori incontinenti con lo sguardo rivolto verso il cielo in attesa di una grazia qualsiasi. Un labirinto in cui si ripetono situazioni e miracoli e in cui è inevitabile perdersi e tormentarsi.

Eppure la prostituzione, più che elemento trasgressivo, era considerata una ineluttabile necessità, un antico tributo da pagare al liquido spermatico del conquistatore che solo a tale prezzo, da che mondo è mondo, eiacula una scatoletta di viveri mutando l’atto di amore in animalesco sfoggio di maschietà.

La scelta del titolo ci rimanda all’opera di Petronio, un lungo frammento narrativo in cui ritroviamo l’alternanza di prosa e versi, che qui De Simone recupera dalla tradizione orale o da testi musicali mai dimenticati, quasi a scandire la melodia della narrazione. Così ritornano le parole della Tammurriata nera (1944 – A. Nicolardi e E. A. Mario) o di Dove sta Zazà! (1944 – R. Cutolo e G. Cioffi) o della bellissima Munasterio ’e Santa Chiara (1945 – M Galdieri e A. Barberis), per citarne solo alcune.
Così Napoli mette in scena – nella sua delirante e tormentata quotidianità – la tradizione dei canti e delle rappresentazioni popolari, nelle feste comandate o in occasione delle cerimonie religiose in onore di santi come San Gennaro o San Giovanni, nel tentativo di ritrovarsi e di salvarsi.
Quello di De Simone è un romanzo che rende onore alla città partenopea e ai suoi abitanti, più o meno eroici, più o meno santi, sempre rispettoso della sua storia e della sua complessità.
Ha voluto così ricordare nel romanzo una donna in particolare, la madre superiora della cappella del Monastero di San Pietro e Paolo a Pontecorvo – Maria Cristina – la quale sfidando la furia nazista, accolse, pur conscia del pericolo, – nei giorni che precedettero le Quattro giornate di Napoli – un gruppo di giovani che fuggivano al reclutamento del colonello Scholl e pagò con la propria vita la propria coraggiosa scelta.

Munasterio ‘e Santa Chiara…
tengo ‘o core scuro scuro…
Ma pecché, pecché ogne sera,
penzo a Napule comm’era,
penzo a Napule comm’è?!

Roberto De Simone (Napoli 1933), musicista, compositore, regista, autore teatrale, accademico di Santa Cecilia. Ha diretto il Conservatorio di Musica di San Pietro a Majella. Per Einaudi ha pubblicato i volumi: La gatta Cenerentola (1977), Il presepe popolare napoletano (1998 e 2004), Il convitato di pietra (1998), L’opera buffa del giovedì santo (1999), La Cantata dei pastori (2000), Prolegomeni al Socrate immaginario (2005), Novelle K 666. Fra Mozart e Napoli (2006), Cinque voci per Gesualdo (2013) e Satyricon a Napoli ’44 (2014). Ha inoltre curato nei «Millenni» le Fiabe campane e Il Cunto de li Cunti di Giambattista Basile.

:: Il lato oscuro del cuore, Corrado Augias (Einaudi, 2014) a cura di Lucilla Parisi

24 novembre 2014

_il-lato-oscuro-del-cuore-1406216177Si può scambiare con estrema facilità la sanità per follia e viceversa, anche perché non sono infrequenti le distorsioni nell’occhio clinico che indaga il fenomeno. La psicologia, la psichiatria, la psicoanalisi esplorano gli estremi confini di territori proibiti, quelli di cui la borghesia avverte il fascino e il terrore, essendone nello stesso tempo sedotta e respinta.
Clara studia Storia della psicanalisi. Wanda è una donna vinta, sopraffatta dalla vita e dai suoi aspetti più violenti e dolorosi. Due esistenze lontane ma necessariamente complementari nella ricerca della verità.
L’occasione dell’incontro è un omicidio: il marito di Wanda viene crivellato di colpi e sua moglie è sospettata di complicità. Clara cercherà di ricostruire, attraverso le angosciate confessioni della donna, la terribile vicenda umana che ha portato alla morte del marito e al disperato accerchiamento di Wanda. Un viaggio che la condurrà al centro di un mondo spietato e senza regole.
Troppo per l’ordinaria esistenza di periferia della giovane, abituata a confrontarsi con l’oggetto del suo studio, ma non con la reale manifestazione della devianza.
Così la ricerca e l’analisi sulle “grandi isteriche” del passato e dei medici che le ebbero in cura, da Freud a Charcot, regalano al lettore un interessante excursus sulla storia della psicoanalisi, partendo da casi di scuola realmente trattati sino a riferimenti letterari. Si passa così dalla angosciosa vicenda di Dora, di cui Freud cominciò ad occuparsi quando la donna aveva solo diciotto anni, a quella di Else, protagonista della novella di Arthur Schnitzler, La signorina Else, vittime di un “oltraggio sessuale umiliante”. In entrambi i casi il dominio sul corpo e sull’anima delle donne da parte degli uomini è totale, feroce e bestiale. Ma gli esempi sono numerosi.
Come Hedda Gabler di Ibsen, come la signorina Giulia di Strindberg, Else soccombe al maschilismo della società, un tema che solo un artista come Schnitzler aveva saputo individuare e sviluppare. C’è addirittura chi sostiene che la tragica fine di Else sia la risposta data da un artista all’insensibilità dimostrata da Freud nel caso di Dora.
I passaggi della ricerca di Clara si intrecciano con la vita reale: i rimpianti di suo padre Luciano alle prese con un’esistenza sospesa, l’inquietudine del fratello Luigi all’esasperata ricerca di un riscatto sociale e familiare che fatica ad arrivare e l’amore in attesa di Corrado, il giovane che condivide con Clara ideali e passioni. Sullo sfondo una periferia abbruttita dalla mancanza di speranze e dalla criminalità, un non luogo dove presente e passato recente si sovrappongono e si fondono in un futuro senza orizzonte.
Non ci può essere una tale differenza tra quello che uno s’aspetta quando ha vent’anni e quello che ci si ritrova mezzo secolo dopo… Mi sento come se m’avessero fatto uno scherzo, capisci Clara? Come se questa non fosse davvero la mia vita, quella vera deve ancora arrivare, non è vero che sono così vecchio…Invece mi guardo allo specchio e lo vedo: è proprio così, niente da fare. Non mi sembra giusto, era l’unica vita che avevo e me ne sono accorto tardi.
Corrado Augias ci regala un romanzo intenso nella sua necessaria complessità e ci ricorda quanto duro e, a volte, vano sia il tentativo di comprendere la mente umana in tutte le sue più profonde ragioni.
Consigliatissimo.

Corrado Augias è giornalista, scrittore e conduttore televisivo. È opinionista del quotidiano «la Repubblica» e autore di numerosi libri, tradotti nelle principali lingue, e di programmi televisivi di contenuto culturale. Con Mondadori ha pubblicato, tra l’altro, I segreti di New York, I segreti di Londra, I segreti di Roma, e insieme al biblista Mauro Pesce, Inchiesta su Gesú. Nel 2007, sempre per Mondadori, è uscito Leggere. Per Einaudi ha pubblicato, insieme a Vladimiro Polchi, Il sangue e il potere. Processo a Giulio Cesare, Tiberio e Nerone (2008). Il lato oscuro del cuore (2014) è il suo primo romanzo per Einaudi.

:: Lacci, Domenico Starnone, (Einaudi, 2014) a cura di Lucilla Parisi

20 ottobre 2014

lacci“Hai presente-dici- quando si fanno le scale? I piedi vanno l’uno dietro l’altro così come abbiamo imparato da bambini. Ma la gioia dei primi passi s’è persa. […] Le gambe ora vanno su in base ad abitudini acquisite. E la tensione, l’emozione, la felicità del passo sono andate perdute come anche la singolarità dell’andatura. Ci muoviamo credendo che il movimento delle gambe sia nostro, ma non è così, con noi fa quei gradini una piccola folla cui ci siamo adeguati, la sicurezza delle gambe è solo il risultato del nostro conformismo. O si cambia passo- concludi- ritrovando la gioia degli inizi o ci si condanna alla normalità più grigia.”

Aldo e Vanda hanno finito il loro tempo. Così sembra. Dodici anni di matrimonio, due figli e la fine dell’amore. Aldo ama un’altra e se ne va. Abbandona la gabbia della vita familiare per aprirsi al mondo, alla libertà e al sentimento nuovo per una giovane sconosciuta.
A Vanda non rimane che prendere atto del silenzio calato nella sua vita, lì dove non c’è più spazio per le parole, almeno non per Aldo.
I lacci sono i legami che rimangono, nonostante tutto, nonostante la fuga. Sono quelli che riaprono discorsi interrotti.
Il romanzo di Domenico Starnone si apre con le lettere di Vanda al marito infedele, in nome del quale sospende la propria vita e quella dei figli, in attesa – forse – di un ritorno.
Sarà Aldo, nella seconda parte, a raccontare della riunificazione della famiglia, dei legami che non si spezzano, del vuoto da colmare. Non c’è soddisfazione nelle sue parole, ma solo quella rassegnata consapevolezza che prima o poi il passato torna a farsi vivo e, a quel punto, non rimane che scegliere da che parte stare.
Il risultato? Un ritratto delle paure, delle insicurezze, delle infelicità “genetiche” e di quei sensi di colpa che gli individui si trascinano addosso in un girone infernale, attraverso gesti insensati e scelte inutili. Azioni dettate dalla disperata ricerca di soddisfazione, di riscatto, di giustificazioni. Un gioco al massacro in cui non rimane che contare le vittime.
Nel terzo e ultimo libro in cui è suddiviso il romanzo, i figli Anna e Sandro – ormai adulti – diventano protagonisti e – da osservatori esterni – tirano le somme del fallimento familiare di cui i genitori si sono resi responsabili.

Ho un po’ di memoria di quando papà veniva a vederci nel fine settimana. Non ricordo avvenimenti precisi, ma m’è rimasto un sentimento insopportabile di infelicità – quello è sicuro – e non è mai passato.

Domenico Starnone incanta. Le sue parole tolgono il sonno. La voce di Vanda è credibile, la rassegnazione di Aldo palpabile, la rabbia di Anna taglia.
Un romanzo che è uno scorcio sull’Italia di sempre. Un’istantanea sul matrimonio e le sue conseguenze: aspettative disilluse, false speranze e troppi retaggi.
Non ci sono soluzioni né vincitori. Solo prigionieri.

Non mi piaci tu, non mi piacciono loro, non mi piaccio io stessa. Perciò, forse, quando te ne sei andato me la sono presa tanto. Mi sono sentita stupida, non ero stata capace di andarmene prima di te. E ho voluto con tutte le mie forze che tu tornassi solo per poterti dire: ora sono io che me ne vado. Però, guarda, sono ancora qua.

Domenico Starnone (Napoli, 1943) ha fatto a lungo l’insegnante, è stato redattore delle pagine culturali de «il manifesto». Ha pubblicato romanzi e racconti incentrati sulla vita scolastica, editi da Feltrinelli, da cui sono stati tratti i film La scuola di Daniele Luchetti, Auguri professore di Riccardo Milani e la serie televisiva Fuori classe. Si è distaccato dai temi scolastici con libri come Il salto con le aste (1989, ET Scrittori 2012), Segni d’oro, Eccesso di zelo e Denti, da cui Gabriele Salvatores ha tratto l’omonimo film. Nel 2001 ha vinto il premio Strega con il romanzo Via Gemito a cui sono seguiti, sempre per Feltrinelli, Labilità (2005, premio Castiglioncello) e Prima esecuzione (2007). Nel 2010 ha pubblicato per minimum fax Fare scene. Per Einaudi ha pubblicato Spavento (2009, premio Comisso), Autobiografia erotica di Aristide Gambía (2011) e Lacci (2014).

:: Un giorno sull’isola, Concita De Gregorio in viaggio con Lorenzo (Einaudi, 2014) a cura di Lucilla Parisi

4 settembre 2014

978885841328GRAAccade tutto su un’isola. Piccola o grande poco importa. E’ l’isola in cui tutto sembra succedere attraverso le parole. Sono quelle che Concita De Gregorio, insieme al figlio Lorenzo, cerca di rimettere insieme per ritrovare il filo di un discorso interrotto. Sono le storie che il giovane, diversi anni prima, si era divertito a costruire insieme al nonno scrittore, fissate su un taccuino, mai più ritrovato.
Attraverso un viaggio a ritroso, nell’estate dell’isola di un tempo, dove l’autrice aveva vissuto e dove Lorenzo aveva trascorso le sue estati di bambino, prendono forma quelle storie che entrambi pensavano perdute.
Io ti indico un luogo tu fai succedere in quel posto una cosa e vediamo come va a finire”.
Così sulla pagina bianca ritroviamo la vita di un’isola che porta impresse su di sé le orme lasciate dai suoi abitanti o da coloro che l’hanno solo attraversata, che da lì sono partiti per non tornare più.
Basta poco: un faro, anzi due, per chi ha smarrito la via; una locomotiva che vuole ripartire; una vela che cerca il suo vento; un anello perduto e ritrovato e due insoliti compari, un Gatto e un Corvo. Al resto ci pensano il mare, il vento e un orizzonte di attese. Perché sull’isola ci sono sempre nuovi arrivi e inevitabili partenze.
Da poppa si vedeva l’isola, era bella, una cosa viva.
Così l’incontro tra madre e figlio diventa scoperta e condivisione. Le parole si fanno strada e creano l’occasione, colmano l’assenza, si fanno collegamento e pezzo mancante.
Perché non si sbaglia mai, quando si gioca con le parole: l’errore è bandito da questa terra così come la punizione, il giudizio. Le parole fioriscono e diventano quello che vogliono. Inventano terre che non c’erano.

Concita De Gregorio, giornalista e scrittrice, firma storica de «la Repubblica» dove attualmente lavora, è stata per tre anni direttore de «l’Unità». Cura e conduce un programma di cultura su RaiTre, Pane quotidiano. Ha quattro figli. Nel 2001 ha pubblicato Non lavate questo sangue (Laterza). Per Mondadori sono usciti Una madre lo sa. Tutte le ombre dell’amore perfetto (2006) e Malamore. Esercizi di resistenza al dolore (2008). Nel 2010 è uscito Un paese senza tempo. Fatti e figure in vent’anni di cronache italiane (il Saggiatore). Nel 2011 ha pubblicato per Einaudi Stile libero Così è la vita, nel 2013 Io vi maledico e nel 2014 Un giorno sull’isola (scritto con il figlio Lorenzo).

:: Tempo di imparare, Valeria Parrella (Einaudi, 2013) a cura di Lucilla Parisi

1 settembre 2014

indexTu sai cosa significa poggiare gli occhi sulla persona più importante della tua vita, che è la tua vita stessa, e sentire una fitta ogni volta e poi tornare a cercarla e così via, e sapere che sarà per sempre, che quell’occasione una che ci era data, una sola, è andata così?

Valeria Parella, dopo Lo spazio bianco (2008), torna a parlarci – in prima persona – di una madre, di suo figlio e della distanza con il resto del mondo, allora segnata dalla nascita prematura, e ora dalla disabilità.
Come allora, a riempire gli spazi lasciati vuoti dal silenzio delle parole, c’è tutta la forza della rabbia “primitiva” e dell’amore incondizionato.
C’è Lei, la madre, con il suo dolore per l’inaccettabile assenza della normalità e con il carico quotidiano di rifiuti, ostacoli e battaglie per ristabilire delle priorità, delle certezze elementari, delle risposte a domande appese a un filo.
Poi c’è Arturo, un bimbo “che non vede da un occhio” e che fatica a calcolare le distanze, quelle reali, quelle dal mondo che lo circonda.
Le parole entrano a fatica nella loro relazione e Lei, la madre, ci mette tutto l’impegno per infilarcele, tra loro, tra Lui – il figlio – e il mondo che non ascolta. Lo stesso mondo in cui Arturo “deve” entrare anche se vorrebbe andare altrove, guardare altrove, come il suo occhio.

Dici con il tuo essere ciò che tutti nella fatica nascondiamo. E ciò che dicesti fu: Non vorrei essere qui, il mondo è pesante, crescere comporta dolore, dell’altro non mi fido, voglio fare solo ciò che so meglio fare e ripeterlo di continuo, non aspetterò il tuo permesso per chiudermi nell’infinito labirinto che io stesso eressi. Non ho bisogno di indossare ali di cera per vederle rovinare al sole.

La scelta della scuola elementare e l’annuale ricerca di un insegnante di sostegno diventano per la “prima persona” di questo libro un obiettivo, il futuro prossimo venturo, l’occasione per Arturo, per trovare il suo posto.
Quel posto ci sarà nella scuola gialla, quella che affaccia sul mare, dall’altra parte della città – ma che importa –, perché lì ci sono le insegnanti giuste, c’è il tempo di imparare e di ascoltare chi, come Arturo e coma sua madre, ha bisogno di capire.
Le parole più semplici – per spiegare – quelle le ha dette una bambina: “Arturo non parla, però pensa”. I compagni di Arturo ci sono.

La tua stravaganza ti rende affascinante ai loro occhi: gli occhiali, la sveltezza nel leggere, la lentezza nel reagire. […] E quel silenzio ostinato. Ti accolgono, ci sono, ti aiutano. Sono più bassi di te, o più alti, o uguali, hanno già perduto gli incisivi o si fanno ancora qualche volta la pipì sotto.

Quando la disarmonia diventa bellezza e la disabilità “una possibilità della vita”, allora tutto è istintivo, naturale, accettabile, anche se il mondo – quel mondo fatto di burocrazia e cattiva amministrazione – fatica a tenere il passo e genera, con la sua atavica lentezza, l’handicap, rendendo gli uomini “miseri”.
Valeria Parrella raggiunge livelli di pathos impensabili. Lo fa bene, lo fa con tutta la preparazione, l’eleganza, l’attenzione che il mestiere di scrivere dovrebbe avere. Si dà tempo e dà ai suoi personaggi lo spazio che meritano. E’ generosa nel suo costruire, nel suo mettere insieme i pezzi di una storia, che poi sono i pezzi di una, due, decine di vite e altre ancora.
Tempo di imparare è formidabile, commovente, lirico.

Valeria Parrella è nata nel 1974, vive a Napoli. Per minimum fax ha pubblicato le raccolte di racconti Mosca piú balena (2003) e Per grazia ricevuta (2005). Per Einaudi ha pubblicato i romanzi Lo spazio bianco (2008), da cui Francesca Comencini ha tratto l’omonimo film, Lettera di dimissioni (2011) e Tempo di imparare (2014). Per Rizzoli ha pubblicato Ma quale amore (2010), di prossima ripubblicazione negli Einaudi Super ET. È autrice dei testi teatrali Il verdetto (Bompiani 2007), Tre terzi (Einaudi 2009, insieme a Diego De Silva e Antonio Pascale), Ciao maschio (Bompiani 2009) e Antigone (Einaudi 2012). Per Ricordi, in apertura della stagione sinfonica al Teatro San Carlo, ha firmato nel 2011 il libretto Terra su musica di Luca Francesconi. Ha inoltre curato la riedizione italiana de Il Fiume di Rumer Godden (Bompiani 2012). Da anni si occupa della rubrica dei libri di «Grazia».

:: Intervista a Tupelo Hassman, autrice di Bambina mia (66thand2nd – 2013) a cura di Lucilla Parisi

7 aprile 2014

tupelo_bambina_scheda-sitoGentilissima Tupelo, il tuo romanzo è stata un’autentica sorpresa. Era da molto tempo che non leggevo qualcosa di così coinvolgente: sono stata letteralmente risucchiata dalla lettura di Bambina mia, uno di quei libri che ti senti di dover consigliare.

D. Rory Dawn è una bambina straordinaria nell’ordinaria quotidianità della sua vita. Nonostante tutto ciò che le accade intorno, riesce a prendere le distanze dallo “schifo” che la circonda. Così piccola e così forte: è lei la vera “grande” della storia. Come nasce questo personaggio da “alba ruggente”?

R. Sento che ho avuto fortuna con Rory Dawn. Volevo tenerla intrappolata nel suo ambiente ma lei si è rifiutata di rimanervi. Nonostante quello che le accade, Rory riesce a mantenersi libera. Avevo sperato di creare un personaggio che fosse indipendente nel suo modo di pensare: era nelle mie intenzioni, perchè speravo di poter affrontare, attraverso di lei, alcune questioni come il mito del Sogno americano. Rory è diventata più di ciò che sperassi. Non è il prodotto del suo quartiere, la Calle, ma il prodotto di un Paese, gli Stati Uniti.

D. Leggo nella tua nota biografica che hai vissuto a Reno. I luoghi di Rory sono i tuoi luoghi. La tua descrizione di questa città del Nevada è impietosa. La sua periferia, scrivi, è “imbrattata di rum e sperma”. Cosa c’è di autobiografico in questo tuo primo romanzo?

R. Come la maggior parte dei primi romanzi, Bambina mia all’inizio presentava alcuni elementi autobiografici. Rory Dawn e io eravamo molto simili. Nel corso degli anni, lavorando al romanzo è affiorata la personalità di Rory. Ora siamo come care amiche che hanno alcune cose – aspetti fondamentali in realtà – in comune. Come Rory, ho trascorso diversi anni fuori da Reno e, come Rory ero “accademicamente” originale e questo mi ha creato un certo disagio. Credo che sia un aspetto importante nella storia di Rory: anche con questo dono, lei rimane “bloccata” e la sua intelligenza non è per lei un’occasione. Entrambe, infatti, la malediciamo un po’.

D. La discendenza di Rory Dawn è matriarcale. Sua nonna, sua madre e poi lei. Gli uomini della sua vita sono un nonno che conosce a malapena, un padre assente e dei fratellastri che appaiono e scompaiono come fari d’auto nel deserto. Poi c’è l’esperienza di violenza che le toglie la voce. Gli uomini sono personaggi secondari capaci però di segnare irrimediabilmente le esistenze “femminili” del tuo romanzo. E’ così?

Questo è un bel modo di spiegare le cose. E’ proprio così. Gran parte della ricerca che Rory Dawn fa è proprio diretta a trovare una voce da seguire, la sua. Lei è bombardata dalle opinioni che provengono dall’uomo della ferramenta, dall’assistente sociale, dal sistema educativo, da sua nonna e da sua madre. Ricomincerà da zero, fisicamente ed emotivamente. Gli uomini nella sua famiglia (come in famiglie come quella di Rory) non sono lì, ma ciò non toglie che ci siano stati. Vi è, in qualche modo, una grande miseria in questa realtà priva di modelli maschili e in cui si è soggiogati sessualmente prima ancora di riuscire a concepire se stessi come dei soggetti sessuali.

D. La Calle de las Flores, alla periferia di Reno, sembra non lasciare molte speranze per il futuro. Un marchio di fabbrica difficile da togliersi di dosso. I figli sembrano essere destinati a rivivere gli errori dei genitori. Un percorso forzato verso il fallimento. Senza svelare troppo del finale del tuo libro, è possibile per le persone liberarsi veramente dal fardello lasciato loro in eredità dall’ “ambiente” familiare e sociale in cui hanno vissuto?

R. Sembra che io sia pessimista, ma in realtà non lo sono affatto. Comunque la mia risposta è no. Non credo sia possibile. E ciò che speravo di scrivere in Bambina mia era proprio questo, come sia impossibile. Tuttavia credo che si possa andare avanti nella vita con il proprio bagaglio e meravigliosamente. Certo non l’ho sempre creduto. Ero frustrata dal fatto di dovermi trascinare in giro il mio passato. Un giorno, però, durante un lungo viaggio in auto lungo la costa della California ho superato un cartello che diceva: “Peacock Crossing. ” Ho iniziato a pensare ai pavoni! Ho pensato alle loro belle piume e a come servissero alla loro protezione; ho pensato a come fossero animali apprezzati e protetti fino ad avere addirittura dei segnali stradali a loro dedicati. Quindi le piume non sono più necessarie. Ho immaginato che qualcuno suggerisse loro di togliere tutte quelle piume inutili, dicendo: “Quelle appartengono al tuo passato. Ora sei al sicuro. Non c’è più bisogno di portare quelle piume pesanti”. E ho capito così che il bagaglio che odiamo portare con noi è in realtà ciò che ci rende unici e preziosi: queste sono le cose che i nostri cari amano. La domanda è: possiamo farne a meno? Non senza farci del male.

D. Il Manuale delle girl scout per Rory è un vero e proprio vademecum su come sopravvivere alla Calle. Da dove nasce questa idea?

Ho ereditato il manuale di Rory Dawn da mio padre, ma non so perché lo avesse. Non l’ho mai nemmeno aperto fino a quando mi è stato assegnato un esercizio di scrittura da Aimee Bender, una mia insegnante. Dovevamo andare a casa quel giorno e recuperare dal terzo scaffale un libro verde e aprirlo a pagina 47: quindi dovevamo scrivere per cinque minuti. Il primo libro verde sul terzo scaffale era il manuale e sono rimasta letteralmente scioccata dalla sua politica (si tratta di una versione dal 1940), e dal fatto che ogni pagina in cui erano elencate delle attività da fare era stata segnata da qualche appassionata girl scout da chissà quando. Delle bambine avevano amato quel libro. Ho iniziato a scrivere a partire da lì e alla fine quel manuale è entrato in Bambina mia.

Rory è molto brava con le parole. Partecipa a gare di spelling bee in cui riesce a primeggiare. Quello delle parole è in realtà il mondo in cui trova rifugio dal “resto”. I libri sono, in qualche modo, la sua àncora di salvezza. Quale ruolo hanno o dovrebbero avere i libri – e la lettura – nella vita e nella formazione dei più giovani?

R. Posso solo sperare che la risposta sia importante. Certo, io sono di parte, ma credo che la prosa offra più condivisione dei moderni mezzi espressivi, perché il lettore può immaginare se stesso all’interno di una storia attraverso la lettura molto più facilmente. Quando troviamo personaggi con i quali ci identifichiamo possiamo trovare speranza, compagnia o forse solo un modo per affrontare un altro giorno. Cosa potrebbe esserci di meglio?

D. Ho trovato riuscitissimo l’escamotage narrativo che alterna alla narrazione in prima persona, le annotazioni delle scout, le relazioni dei servizi sociali, le lettere e i ritagli di giornale. Come sei arrivata a questa scelta?

R. E’ molto naturale per me per includere molte voci. Forse sento delle voci?! Nel caso di Rory Dawn in particolare, però, la sua è una storia di traumi e fratture. Ci sono tante voci proprio a causa del dramma che si consuma intorno a lei e della sua impotenza di fronte a ciò che accade.

D. Bambina mia è il tuo romanzo d’esordio. Domanda doverosa: stai lavorando a un altro romanzo?

R. Sto scrivendo una biografia dal titolo The scar farmer.

[Traduzione dall’italiano all’inglese a cura di Davide Mana]