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:: Un’intervista con Lorenzo Mazzoni a cura di Giulietta Iannone

19 gennaio 2016

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Benvenuto Lorenzo. Per la terza volta vincitore del Liberi di scrivere Award, un premio in cui la massima soddisfazione è sapere che tanti lettori hanno autonomamente votato per il tuo libro. Premi letterari ce ne sono molti, ma il nostro ha senz’altro la peculiarità che il voto diretto dei lettori proclama il vincitore, non ci sono giurie di qualità, non ci sono rose di libri tra cui scegliere, e autori italiani e stranieri hanno la stessa importanza. Come ti spieghi questo grande affetto che i tuoi lettori hanno nei tuoi riguardi?

Grazie per l’ospitalità. Sono molto felice per questo premio, proprio perché i voti vengono dai lettori e non da una giuria che, molto spesso in Italia, ha un occhio più attento all’editore che sta dietro ai candidati rispetto alla qualità dei testi. Me lo spiego con il grande lavoro di passaparola di amici, colleghi, ufficio stampa di Edizioni Spartaco. Significa che chi è venuto alle presentazioni si è entusiasmato, chi ha letto le recensioni al libro si è fatto incuriosire, che i librai indipendenti mi hanno consigliato utilizzando anche i social network. C’è qualcosa di profondamente libertario e di grande affetto in tutto questo.

Quando le chitarre facevano l’amore”, il libro per cui hai vinto questo premio, edito da un piccolo ma interessante editore di Caserta, ha avuto una buona accoglienza dai lettori e anche dalla critica, ho letto numerose recensioni di critici importanti. Che bilanci ne trai ormai a diversi mesi dalla pubblicazione?

Di essere finito tra le mani di un grande editore. La cura al testo (editing, promozione, incitamento, discussioni, presenza sul territorio) è stata enorme. Edizioni Spartaco ha creduto fortemente in “Quando le chitarre facevano l’amore”, la redazione mi ha confermato, a parole e azioni, che avevo scritto un testo importante. Quando dietro hai qualcuno che non solo crede in te, ma conosce il tuo romanzo come se fosse suo le cose non possono che andare bene. In otto mesi ho portato il libro in giro per tutt’Italia, ho avuto riscontri positivi (il premio lo conferma) e sono molto soddisfatto, anche perché credo sia il mio lavoro più importante. Io se fossi un lettore lo divorerei in mezza giornata.

Che accoglienza hai ricevuto all’estero? Ci sono progetti di traduzione in Europa e nel resto del mondo?

Quest’anno verrà pubblicato da un editore cileno, Edicola Ediciones, “Un tango per Victor”. Riguardo a “Quando le chitarre facevano l’amore” si trova nelle librerie italiane di Londra, Amsterdam e Bruxelles. Ci stiamo muovendo per le traduzioni e guardiamo non solo in Europa ma anche nel resto del mondo. Il mercato asiatico, per esempio, ci piace molto.

Sei uno scrittore viaggiatore? E’ corretta come definizione? Che paesi hai visitato nella tua vita, cosa ti hanno lasciato?

Sì, è una definizione che può essere definita corretta. Ho visitato tanti paesi e ho abitato in diverse parti del mondo. Laos, Vietnam, Yemen, Egitto, Turchia, Marocco, Francia, Inghilterra, Bulgaria, Romania e via andare. Ogni esperienza, che fosse un viaggio o una permanenza duratura, mi ha lasciato tracce indelebili sia sul mio modo di approcciarmi alla scrittura, sia nell’osservazione delle persone. Ho bisogno di andare e lasciarmi assorbire. Qualcosa di positivo ne viene sempre fuori.

Ho già avuto modo di intervistarti riguardo a “Quando le chitarre facevano l’amore”, in questa intervista mi piacerebbe guardare al futuro e parlare di libri. Hai un blog molto seguito sul Fatto Quotidiano in cui parli di libri. Cosa è uscito, o sta uscendo, di interessante in questo primo mese del 2016?

Non voglio parlare di titoli, ma di editori che bisogna tenere d’occhio: Metropoli d’Asia, Il Sirente, Edizioni Clichy, Keller, 66thand2nd, Del Vecchio Editore e naturalmente i miei editori: Edizioni Spartaco e Koi Press. Sono tutti editori indipendenti che lottano per dare ai lettori grande letteratura, riuscendoci spesso. Tra i medio-grandi adoro Il Saggiatore. Difficilmente sono interessato ai grandissimi. C’è tanta letteratura importante nel variegato mondo indipendente, per i grandissimi TV, social network e librerie da centro commerciale fanno già abbastanza. Io dico: tenete d’occhio gli indipendenti, anche nel 2016 usciranno grandi cose.

A febbraio, dal 17 al 21, terrai un workshop di scrittura a Marrakech, in Marocco. Ce ne vuoi parlare? Ci sono ancora posti disponibili? Perché Marrakech, perché ora? E’ una forma di resistenza a tutti i messaggi allarmistici che ci arrivano dal mondo arabo e dal nord Africa?

Perché gli allarmismi li crea chi non esce di casa. Perché Marrakech è uno dei primi luoghi che vidi fuori dall’Europa tanti anni fa ed è una città indimenticabile. Si tratta di un progetto in collaborazione con Mille Battute. Un laboratorio che vuole mettere in primo piano la parte pratica della scrittura rispetto a quella teorica con esercitazioni sul campo e visite guidate della splendida “Città Rossa”. Uno spazio condiviso da docente e allievi, uno scambio di saperi, letture, suggestioni sulle tracce di Elias Canetti, Paul Bowles, Tahar Ben Jelloun, George Orwell, Allen Ginsberg, Ibn Battuta. I requisiti per partecipare al workshop sono: voglia di scrivere, voglia di leggere, voglia di viaggiare, un bloc-notes e una penna. Il noir, l’esotico, la scrittura viaggiante saranno gli ingredienti dell’atmosfera che si respirerà durante le lezioni. Entro la fine del 2016 i lavori (editati e sistemati) verranno raccolti in un eBook, una sorta di romanzo a racconti, che verrà pubblicato da Koi Press. I racconti e le suggestioni narrative, in sinergia con gli scatti fotografici fatti dai partecipanti, saranno pubblicati su Mille Battute. Sì, c’è ancora qualche posto, e sul sito che curiamo io e il fotografo Tommy Graziani, IbnBattuta.viaggi diamo anche indicazioni su voli, alloggio, clima e il piano dettagliato delle lezioni e delle visite guidate.

La crisi generale si riflette anche nell’editoria, non lo nascondiamo, i rapporti ISTAT parlano di un inarrestabile calo di lettori. Cosa si potrebbe fare attivamente per avvicinare la gente ai libri? Un po’ di colpa è anche degli editori che non pubblicano libri interessanti? O la gente ha proprio ormai altri interessi?

Tempo fa scrissi un articolo uscito su Il Fatto Quotidiano, un appello agli editori che ripubblicassero titoli ormai caduti nel dimenticatoio, ne avremmo tutti bisogno. La colpa credo sia un po’ dell’editoria di massa, ma anche dell’impoverimento culturale generale. Se non voglio leggere Fabio Volo ho la scelta di prendere un libro che mi piaccia di più. Fabio Volo non toglie lettori ai Mazzoni di turno, questo premio lo conferma. Il problema è che se tu continui a investire i denari in qualcosa che è decadente ancora prima di essere pubblicato e dai importanti riconoscimenti mainstream sempre agli stessi banalissimi scrittori di genere è ovvio che hai meno finanze da investire per chi potrebbe provare a dare una svolta. Per questo propongo di ripubblicare autori straordinari. Qualche nome? “Il mondo di Suzie Wong” e “L’albero della febbre” di Richard Mason, “La ragazza dai capelli arancio” di Ehrlich Bert,The Warriors” di Sol Yurick, tutta l’opera di Sam Selvon, “Lo stato selvaggio” di Georges Conchon, i testi coloniali di Willem Frederik Hermans,Topkapi” di Eric Ambler, “I commedianti “di Graham Greene, “La nuova Babele” di Morris West…

Che libri consiglieresti di leggere capaci di far diventare book addicted i lettori? Pensi ci siano libri con questo potere?

Certo, la letteratura di liberazione non morirà mai, come il rock and roll. I titoli sopra citati li consiglio tutti. E poi dico: leggete Brian Gomez e Arto Paasilinna e Paco Ignacio Taibo II e Georges Simenon e Liu Zhenyun e Yasmina Khadra e Olivier Rolin e Alain Mabanckou e Ben Fountain e…

Ho seguito la tua carriera letteraria praticamente dall’inizio e ho notato che sei un autore che trova il tempo per leggere. Molti autori che intervisto mi dicono che non hanno tempo, troppo impegnati a scrivere i loro libri, o anche solo per non farsi influenzare. Le contaminazioni invece di genere, temi, riflessioni, sono invece un punto forte della tua narrativa. In fondo siamo tutti nani sulle spalle di giganti, già Omero nell’età antica aveva praticamente detto tutto sulla natura ultima dell’uomo. Come è nato il tuo amore per i libri, come si è rafforzato negli anni?

Mia mamma, mi portava a casa libri da quando io ricordi. Mi leggeva storie. Me le leggeva anche mio nonno, inventandosele davanti a un libro di pittura. Mio padre mi apriva l’atlante e mi spiegava le capitali del mondo. Sono sempre stato circondato da libri. I primi soldi dei lavoretti estivi li spendevo in libri. Io e la mia compagna non torniamo mai a casa senza avere acquistato libri per noi e per nostro figlio. Le case senza libri mi fanno venire in mente un campo di concentramento, le persone attaccate al cellulare in metropolitana mi ricordano la morte, quelle che leggono, fosse anche un Newton da trecento milioni di copie vendute che io non leggerei mai, mi sono tendenzialmente simpatiche. Se devo essere veritiero e attendibile quando scrivo devo leggere, documentarmi. Sono un lettore prima che uno scrittore, amo quello che faccio perché qualcuno in altre parti del mondo, in altre epoche lo ha fatto meglio di me, mi ha fatto innamorare del lavoro più bello che esista. Uno scrittore che non legge è un’immagine di una tristezza sconfinata, chiunque lo faccia credo non sarà mai dalla mia parte.

Ti piace la poesia? C’è qualche poeta che rileggi spesso, che ti accompagna?

Non leggo poesia, leggo testi di canzoni. Bob Dylan, Jim Morrison, John Lennon, Robert Hunter…

Hai vissuto in Turchia, prima di essere giudicato persona non gradita. Quando finirà questa “condanna” pensi di tornarci? I giovani come si ponevano nei riguardi dei libri. C’erano tante librerie? Una vita culturale attiva e crescente?    

Spero di sì, fosse per me tornerei “ieri”. Ho avuto la fortuna di vivere in Turchia prima e durante la grande protesta legata a Gezi Park. Tutto era interesse per quei milioni di straordinari giovani esseri umani, libri e cultura compresi. Istanbul ha una vita culturale dirompente, nonostante il potere faccia di tutto per omologarla al resto del mondo. Librerie ce ne sono tante, sì, sia commerciali ma soprattutto indipendenti, compreso un fantastico mercato dei libri usati di tre piani dove trovare titoli in molte lingue straniere.

Quali sono i suoi prossimi progetti?

Marrakech, in primis. Poi stiamo organizzando altri workshop di scrittura pratica a Londra, Bucarest e Amsterdam. Vorremmo riuscire a farlo diventare un appuntamento mensile. Sto lavorando al nuovo romanzo. Mi sto divertendo. Ho cambiato scenario geopolitico, non più America anni Sessanta ma la Jugoslavia dei primi anni Novanta.

:: Il Resto del Carlino – Liberi di scrivere Award: il miglior libro uscito nell’anno è del ferrarese Lorenzo Mazzoni

19 gennaio 2016

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Ringraziamo ancora tutti i lettori che hanno votato.
Questo è un articolo apparso su Il Resto del Carlino e sono felice di condividerlo con voi. Nei prossimi giorni usciranno le interviste ai vincitori.

:: ‘The Beat Book’, poesie e prose della Beat generation, a cura di Anne Wladman e Luca Fontana (Il Saggiatore, 2015) a cura di Lorenzo Mazzoni

12 giugno 2015

The-Beat-book1In principio c’erano gli hipster, marginali esistenzialisti statunitensi che sentivano in modo oppressivo il peso della società consumistica del dopoguerra e dell’asfissiante standardizzazione delle masse. Accanto a questi personaggi, emersero i beat che diventarono una sorta di movimento che esplose come “una bomba all’idrogeno” (per citare Allen Ginsberg, uno dei massimi esponenti della corrente) nella cultura americana nei primi anni Cinquanta.
Anne Waldman, poetessa e amica di lunga data di quegli scrittori, ha raccolto in un unico volume, The Beat Book (prefazione di Allen Ginsberg, pubblicato in Italia da Il Saggiatore e tradotto e curato da Luca Fontana), alcuni dei loro testi più esemplari. A una selezione dei grandi classici Beat si affiancano prose e poesie più recenti, che dimostrano la persistente vitalità di quell’esperienza.
Particolarmente significativa la presenza di voci femminili come Joanne Kyger e Diane Di Prima, o di poeti di alto valore e fin troppo negletti dalla voga di alcuni anni fa, come Gary Snyder o John Wieners.
Protagonisti di una vera rivoluzione artistica e sociale, compagni di vita e di letteratura, i Beat non solo si battevano in favore delle rispettive opere, ma all’interno di esse parlavano l’uno con l’altro e l’uno dell’altro. Ritmi del parlato americano, ritmi jazz, ritmi dei viaggi in auto e in carro merci, cut-up verbale: se ciò che da sempre attira dei Beat è il mito – i fantastici Sessanta, le droghe, il Vietnam, la musica selvaggia -, dalle opere emerge il loro rapporto viscerale e onnipresente con il linguaggio, che ne ha definito il canone negli anni.
Le note introduttive e una guida dettagliata dei luoghi Beat in giro per il mondo (dalla città natale di Kerouac, Lowell, Massachusetts, dove si svolge il romanzo Il dottor Sax, a Tangeri, dove Burroughs ha scritto parti di Pasto nudo), ne fanno uno strumento indispensabile anche per chi si avvicini per la prima volta al composito mondo Beat.
The Beat Book è il libro che meglio rappresenta quella generazione, che da simbolo della controcultura è divenuta centrale nell’arte del Novecento. Una schiettezza e una generosità imperturbante agiscono all’interno di questi scritti. I Beat cantano contro il cinismo, l’apatia, l’ingiustizia, l’inganno, il compromesso, il razzismo, il consumismo, la guerra, i mali del mondo. Ma è difficile sfruttarli per qualche fine propagandistico: erano, sono e sempre saranno primariamente individui.

Anne Waldman è nata nel 1945. Ha studiato al Bennington College nel Vermont, ma ha vissuto nel Greenwich Village di New York. Ha fondato l’Angel hair books. E’ stata redattrice del progetto poesia della chiesa di St. Mark’s a New York (1966-1978) durante il quale ha pubblicato The world magazine e altre numerose antologie di poesia contemporanea americana. Nel 1947, con Allen Ginsberg, ha fondato la “Jack Kerouac School of Disembodied Poetics”al Naropa Institute a Boulder. Numerose le sue pubblicazioni negli Stati Uniti. In Italia ha pubblicato l’antologia The Beat Book (Il Saggiatore, 1966) e Poesie, Donna che parla veloce (Edizioni City Lights Italia, Firenze)

Luca Fontana, traduttore e saggista, insegna Fondamenti di pratica del teatro e Drammaturgia al corso di laurea in Arti visive e dello spettacolo dell’Istituto universitario di Architettura di Venezia, e al Corso di alta formazione e specializzazione per attori del Teatro Due di Parma. Tra le sue numerose traduzioni per allestimenti teatrali ricordiamo Peccato che fosse puttana di John Ford. Per il Saggiatore ha tradotto le opere di Allen Ginsberg: Saluti cosmopoliti (1996), Urlo & Kaddish (1997) e Poesie scelte (1997). Luca Fontana collabora con Diario.

:: Quando le chitarre facevano l’amore, Lorenzo Mazzoni (Spartaco Edizioni, 2015) a cura di Giulietta Iannone

8 giugno 2015
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Forse pochi (diciamo quasi nessuno, sì lo so esperto di rock che sgrani gli occhi e dici ma come si permette questa) si ricorda dei Ian Dury & The Blockheads, ma sta di fatto che il titolo di una loro canzone Sex And Drugs And Rock ‘N’ Roll è diventato un vero grido di battaglia oltre ad essere il manifesto di una intera generazione di giovani ribelli, (a cavallo tra ’60, e ’70 del secolo scorso, dai facciamo anche ’80) ancora non del tutto omologati al politically correct di questi ultimi (tristi) anni.
Una generazione che sembra trovare voce in un romanzo che parla di Stati Uniti, (con puntatine in Sud America e nel Sud Est asiatico, e altre nella cara vecchia Europa compresa la Svizzera, direte voi ma dai, e invece centra, fidatevi) ma stranamente è scritto da un autore italiano, anzi italianissimo decisamente non convenzionale, con un background culturale sfaccettato e molte tappe sul suo mappamondo personale.
Se non conoscete questo autore, Quando le chitarre facevano l’amore, edito da Spartaco edizioni, è un buon romanzo con cui iniziare. Già dalle prime righe vi direte ma quanta fantasia ha Lorenzo Mazzoni, una fantasia educata da tantissime buone letture i cui echi sono prepotenti nei suoi testi. Mazzoni lo confessa candidamente alla fine del libro, citando libri e autori da cui ha maggiormente imparato l’arte di inannellare parole, il tutto condito dal suo spirito anarchico e rivoluzionario da guerrigliero delle patrie lettere.
In questo romanzo c’è forse meno rabbia e più ironia di altri suoi libri, ma il disincanto resta intatto e feroce, come la critica al conformismo, e ai mali di questa società occidentale così ampliati all’enessima potenza nel universo a stelle e striscie. Ma non è tutto nero, non è tutto senza speranza, ci sono i giovani, c’è la musica, c’è ancora chi ci crede alla libertà, alla bellezza, all’approccio etico con il reale.
Non aspettatevi però un lieto fine, qua molti personaggi moriranno come mosche peggio che in un film pulp di Tarantino, e persino gli eroi della guerriglia musicale del romanzo, i componenti di The Love’s White Rabbits, finiranno chi a fare la guardia forestale chi il commesso viaggiatore, ma una zampata finale vi incoraggerà a pensare che il sistema non ha vito, che si può sparire a Chicago dopo una carica della polizia e far perdere per sempre le proprie tracce.
Quando le chitarre facevano l’amore l’avrete capito è un romanzo surreale e anfetaminico, non esattamente un invito a usare marijuana e LSD (specialmente nella limonata), ma a capire i motivi che ne hanno spinto il consumo in quegli anni confusi e lussuriosi. Ai tempi di Woodstock, delle marce per la pace contro la guerra del Viet-Nam, delle comuni di hippie in cui praticare l’amore libero, delle rivolte studentesche, dei neri e gli ispanici che volevano uguali diritti rispetto ai cittadini bianchi.
Forse mai come in quegli anni l’anarchia e la Rivoluzione fu a un passo da portarsi via il Sistema, ben più radicalmente che il solo Caos strategico, orchestrtato ad arte da rami più o meno ufficiali della CIA.
Se il rischio era quello di perdere il baricentro e creare una massa narrativa poco omogenea, Mazzoni ha avuto l’accortezza di creare un filo conduttore capace di costituire l’ossatura dell’intero romanzo, una caccia, a un “presunto” criminale nazista reinventatosi come amante della pace, e della musica Rock. C’è chi lo vuole uccidere per vendetta, (un vecchio israeliano, che tanto vecchio non è) chi perchè ha celebrato il matrimonio della donna della sua vita con suo fratello (uno stralunato reduce del Vietnam per esempio), chi lo vuole catturare per soldi (un cacciatore di nazisti italiano finito nelle grinfie di una sacerdotessa del Caos).
E poi molti altri lo cercano, tra cui due agenti deviati del Mossad (uno dei quali ha una passione sfrenata per le scarpe rosa coi tacchi) che si spacciano prima per messicani poi per senegalesi, un sosia presidenziale di uno stato sudamericano, un altro israeliano migliore amico del vecchio. E se non bastasse troviamo uno scheletro di un vecchio garibaldino innamorato di Anita Garibaldi, alcuni strumenti musicali molto loquaci, e una tartaruga, per non parlare poi di un taglialegna di forti ascendenze teutoniche.
Dunque ragazzi, io ho detto abbastanza ora tocca a voi. Buona lettura. Peace and Love.

Lorenzo Mazzoni è nato a Ferrara nel 1974. Narratore, saggista e reporter ha pubblicato numerosi romanzi, fra cui “Il requiem di Valle Secca” (Tracce, 2006; finalista al Premio Rhegium Julii), “Ost, il banchetto degli scarafaggi” (Edizioni Melquìades, 2007), “Le bestie/Kinshasa Serenade” (Momentum Edizioni, 2011), “Apologia di uomini inutili” (Edizioni La Gru, 2013; Premio Liberi di Scrivere Award). È il creatore dell’ispettore Pietro Malatesta, protagonista dei noir (illustrati da Andrea Amaducci ed editi da Momentum Edizioni/Koi Press) “Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico” (2011; Premio Liberi di Scrivere Award), “La Tremarella” (2012) e “Termodistruzione di un koala” (2013). Diversi suoi reportage e racconti sono apparsi su “Il manifesto”, “Il Reportage”, “East Journal”, “Il reporter”, “Culturalismi” e “Torno Giovedì”. Collabora con “Il Fatto Quotidiano”.

Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo l’ Ufficio Stampa Spartaco.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Osso di maiale e mani di lebbroso, Mostafa Mastur (Ponte33, 2011) a cura di Lorenzo Mazzoni

5 giugno 2015

coUn anonimo condominio, storie di inquilini che si incrociano, si ignorano, si osservano. Un’intrigante umanità che vive (a volte sopravvive) a Tehran, antica e al contempo moderna capitale iraniana, descritta con una scrittura minimale e cinematografica da Mostafa Mastur nel romanzo breve Osso di maiale e mani di lebbroso (Pubblicato in Italia da Edizioni Ponte33 e tradotto dal persiano da Bianca Maria Filippini).
Utilizzando la scrittura come una macchina da presa, l’autore esplora la quotidianità palpitante di un condominio di Tehran, megalopoli metafisica nella quale si coagulano le contraddizioni irrisolte di un’intera società. Decine di appartamenti di un grattacielo ultramoderno, angusti come celle o risplendenti di uno sfarzo desolante come le vite dei proprietari, costituiscono il fondale di uno spettacolo nel quale il lettore si trasforma in spettatore di un mondo in frantumi, in cui le fondamenta di qualsiasi fede stanno crollando.
Porte e finestre si aprono e si chiudono lasciando filtrare tracce di quella sostanza amara che è la vita. Nonostante i continui riferimenti religiosi, i personaggi di Mastur sono in preda ad un’assoluta mancanza di certezze, scaraventati nel caos della vita fino a sfiorare talvolta il baratro della pazzia. Ad ogni pagina, il lettore viene trascinato in un vortice dove Susan, Nowzar, Malul, Bandar e tutti le altre monadi angosciate di questo microcosmo simbolico di un Iran che non riesce a trovare se stesso, si agitano freneticamente alla ricerca della fortuna come una terra promessa o una patria perduta.
Vincitore del premio come miglior romanzo al Festival di Isfahan nel 2005, Osso di maiale e mani di lebbroso è un breve ma denso romanzo di una delle voci più originali della letteratura contemporanea d’Iran.
Mostafa Mastur è nato ad Ahvaz nel 1964. Ha pubblicato il suo primo racconto nel 1991 e la sua prima raccolta nel 1998. A partire dal 2000, grazie a un crescente successo di pubblico e di critica, testimoniato da numerose ristampe delle sue opere e dall’attribuzione di diversi premi letterari, Mastur viene considerato tra gli scrittori iraniani più interessanti della generazione arrivata alla letteratura seguendo gli ideali della rivoluzione.
Sperimentando forme narrative e linguaggi diversi, Mostafa Mastur si inoltra nei più diversi campi della cultura, passando dalla filosofia, al cinema, al teatro. Fine traduttore, ha fatto conoscere in Iran le opere di Raymond Carver. Da una profonda riflessione sul senso di fallimento dell’uomo rispetto alla vita come esperienza dell’altro, di sé e di Dio, Mastur ha elaborato storie di autentica umanità, ritraendo personaggi complessi e pulsanti che, dibattendosi tra ansie e interrogativi insistenti, raccontano di un Iran vivo e multiforme.

Mostafa Mastur, nasce ad Ahvaz nel 1964. Pubblica il suo primo racconto nel 1991 e la sua prima raccolta nel 1998. A partire dal 2000, grazie ad un crescente successo di pubblico e di critica, testimoniato da numerose ristampe delle sue opere e dall’attribuzione di diversi premi letterari, Mastur viene considerato tra gli scrittori iraniani più interessanti della generazione arrivata alla letteratura seguendo gli ideali della rivoluzione.
Sperimentando forme narrative e linguaggi diversi, Mostafa Mastur si inoltra nei più diversi campi della cultura, passando dalla filosofia, al cinema, al teatro. Fine traduttore, fa conoscere in Iran le opere di Raymond Carver. Da una profonda riflessione sul senso di fallimento dell’uomo rispetto alla vita come esperienza dell’altro, di sé e di Dio, Mastur elabora storie di autentica umanità, ritraendo personaggi complessi e pulsanti che, dibattendosi tra ansie e interrogativi insistenti, raccontano di un Iran vivo e multiforme.

:: Un’intervista con Lorenzo Mazzoni a cura di Giulietta Iannone

7 Maggio 2015

lore1Benvenuto Lorenzo e grazie di questa nuova intervista. È appena uscito per Spartaco Edizioni il tuo nuovo romanzo “Quando le chitarre facevano l’amore” e come tradizione delle tue interviste su Liberi scegli una colonna sonora che ci accompagni.

Grazie a voi per l’ospitalità. Come colonna sonora scelgo l’album doppio “Khantharana Valley Experience” di The Love’s White Rabbits, mi sembra la musica più appropriata.

E di musica si parla molto nel tuo romanzo, già il titolo ci suggerisce il tema, per non parlare di un gruppo rock dal nome improbabile come The Love’s White Rabbits fino a un gruppo di strumenti musicali in cerca di libertà. Che ruolo ha la musica nel tuo romanzo?

Beh, improbabile non proprio. Il nome della band è ripreso da un brano dei Jefferson Airplane e da “Alice nel paese delle meraviglie”, inoltre negli anni ’60 andavano di gran moda i nomi lunghi e complessi nel movimento della musica psichedelica. La musica ha un ruolo fondamentale in questo romanzo. Oltre a portare il lettore dentro a quella che fu la scena garage di Austin, in primis The 13 Floor Elevators e The Golden Dawn, il libro dà spazio anche a Bob Dylan, agli MC5, a The Band, a The Grateful Dead, a The Beatles e, naturalmente, a The Love’s White Rabbits, band realmente esistita in un’altra epoca, di cui io ho fatto parte, e che ho proiettato in quel decennio straordinario. La musica è presente in ogni pagina. La musica delle cavalcate selvagge, quando, appunto, le chitarre facevano ancora l’amore.

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Photo Credit Francesco Montefusco

A che genere appartiene il romanzo, o è una contaminazione di generi dal noir, alla spystory, alla satira di costume?

Un po’ tutto. Noir, spy story, psychedelic book, road book, di avventura… è un grande zibaldone lisergico ricco di colpi di scena.

Come è nata l’ idea di scriverlo, quale è stato il punto di partenza?  

The Love’s White Rabbits. Fu un’esperienza umana e musicale totale, quando si era ancora un Noi e non degli Io. Eravamo cinque amici sempre insieme, disposti a sacrificare tutto per il Divertimento, il Viaggio e la Musica. Volevo parlare di questa esperienza, e ho pensato che associarla a un’altra mia grande passione, il decennio della guerra in Vietnam, della Summer of Love, della Rivoluzione, sarebbe stato più interessante che collocarla dove realmente questa esperienza si è consumata: l’emilia degli anni ’90.

La controcultura americana degli anni ’60 e ’70 fa da sfondo al romanzo. Come non pensare a gente come Allen Ginsberg, Jack Kerouac o William S. Burroughs, e il loro popolo gli hippie, i figli dei fiori, o il Festival di Woodstock, le proteste contro la guerra del Vietnam, le marce per la pace, l’LSD, la rivoluzione psichedelica. Perché hai scelto l’America come scenario, e come ti sei documentato per raccontarla?

L’America è il luogo dove nasce tutto quello che tu hai citato. Il lavoro di ricerca è stato lungo, divertente e complesso: libri, documentari, l’ascolto delle centinaia di vinili e CD che possiedo da prima dell’idea del libro, rilettura di saggi, traduzioni, giornali dell’epoca, film, la mia vecchia tesi di laurea, le mie esperienze sensoriali. È stato un lavoro di ricerca totale.

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Photo Credit Copyright 1997 by The Love’s White Rabbits

Che tu sia un autore anticonformista, non sono io la prima a dirlo, tu scegli un tipo di letteratura di liberazione, dai gioghi imposti, dai preconcetti, da tutte le sovrastrutture che la società odierna impone. Che senso di libertà vorresti che provassero i tuoi lettori una volta finito il romanzo? È davvero possibili essere liberi, anche solo intellettualmente, nella nostra società?

Voglio che si sentano liberi, ma non posso spiegare io a un’altra persona quale possa essere il suo senso di libertà, è troppo soggettivo. Te ne accorgi se sei libero o se sei evaso, con qualche sceriffo moralista alle calcagna. Io credo che sia possibile essere liberi in questa decadente società di mediocri al timone di comando. Un libro ti libera, un disco ti libera, la penna mi libera ogni volta che la prendo in mano.

La trama è complessa, di personaggi bizzarri al limite dell’assurdo ce ne sono tantissimi, alcuni reali altri frutto della tua fantasia, e pur tuttavia riesci a reggere le fila del tuo romanzo con grande naturalezza. Si parte dalla ricerca di un gerarca nazista, scappato presumibilmente in America, per parlare di vent’anni di storia americana e non solo. In che misura è presente il resto del mondo nel tuo romanzo?

È un romanzo dove, spero, si ride molto, si piange, si rimane con il fiato sospeso. È un romanzo totale. Ed essendo, appunto, totale, il mondo è presente per definizione. I personaggi vengono dai quattro angoli del globo: abbiamo un reduce del Vietnam (e quindi ecco il Vietnam), abbiamo Singapore, c’è un sosia presidenziale cieco guatemalteco, un triestino a caccia di nazisti, due israeliani.

Partirà un lungo tour promozionale per il romanzo, proprio come una tournée di una rock band. Quali città toccherai?

Sono già stato a Milano e Piacenza, ed è andata benissimo. La prossima tappa è Ferrara, poi il Salone del Libro a Torino, Roma, Lecco, Pavia, l’Isola d’Elba, Brescia, ancora Milano, diversi festival in giro per l’Italia. Sarò in tour fino a fine anno, voglio che le chitarre facciano l’amore ovunque.

E poi a settembre uscirà la settima indagine della saga di “Indagini di uno sbirro anarchico”. Ci puoi anticipare qualcosa?

Si intitolerà “Il giorno in cui la Spal vinceva a Renate” e, come già recita il titolo, sarà un Malatesta totalmente dedicato alla squadra di calcio di Ferrara, la mia città.

Altri progetti in mente?

Un libro su una mucca e uno su un aereo un po’ particolare.

Grazie della disponibilità, e in conclusione mi piacerebbe farti un’altra domanda legata alla tua esperienza di padre, avere un figlio ha cambiato qualcosa nel tuo essere scrittore, ti ha reso una persona più responsabile? Che futuro augureresti al piccolo Pietro?

Più responsabile credo sia d’obbligo, nei suoi confronti. Come scrittore ha ridotto i miei orari di lavoro, necessariamente. Dormo poco. Gli auguro la libertà di essere se stesso, la forza di non voler emulare nessuno. Grazie a voi.

The Magician – The Love’s White Rabbits – Khantharana Valley Experience

:: Italiani brutta gente, Lorenzo Mazzoni (Koi Press, 2014)

24 giugno 2014

koi pressMalatesta pensò ai giornalisti. Lavoro extra per loro negli ultimi tempi. Una donna rapita. Un barbone bruciato vivo. Tre rom ammazzati a fucilate. Ferrara stava diventando più pericolosa di Ciudad Juárez. A parte la donna rapita, grazie al suo stato sociale, alle sue gambe e alle sue frequenti comparsate in TV, il barbone e i rom sarebbero stati presto dimenticati da tutti. Sarebbe rimasto solo qualche impavido imbrattacarte, di quelli a cui non venivano lasciate nemmeno le briciole delle notizie principali, che si sarebbe gettato sugli approfondimenti strappalacrime di quelle morti assurde. Poi ci sarebbero stati i reazionari, quelli che difendevano l’esasperazione tutta italica contro i morti di fame e gli zingari, e dall’altro lato della barricata i liberal e radical chic, che avrebbero accusato la politica repressiva di aver creato la piaga della disoccupazione e del propagarsi dei campi rom. La solita merda. Malatesta spense la sigaretta sul tappetino ai suoi piedi e guardò una donna, forse la madre, la moglie, la sorella, che piangeva un pianto inconsolabile. La gonna colorata, le calze di spugna rosa shocking, il foulard in testa.

Torna la Ferrara, provinciale e nello stesso tempo multietnica, dello sbirro anarchico Pietro Malatesta nel quinto capitolo della saga intitolato Italiani brutta gente, edizioni Koi Press. Sempre Lorenzo Mazzoni ai testi, e Andrea Amaducci a colorire di immagini un noir che sicuramente nel panorama italico spicca per originalità, irriverenza e graffiante ironia.
Con un pizzico di cattiveria in più, Mazzoni ci narra la storia di un bizzarro rapimento di una nota esponente politica, calcata su un modello facilmente riconoscibile, (ma qui sicuramente troveremo la formula classica in cui si assicura che ogni riferimento a personaggi reali è puramente casuale, e della realtà ha sicuramente il debito della trasfigurazione creativa), Samantha Ripamonti, grottesca caricatura, specchio di una classe politica che nel bene e nel male riflette il popolo che l’ha eletta. Gli italiani dunque, una volta brava gente, ora irrimediabilmente intossicati dalla crisi, dalla disoccupazione, dall’egoismo, dalla xenofobia, dal razzismo.
Samantha Ripamonti, rossa (anzi arancione) di capelli, brianzola doc trasferitasi a Ferrara al seguito di un compagno imprenditore, una volta ministro ora votata alla causa animalista, (arriva a richiedere la cittadinanza per i cani rigorosamente di razza, molto più meritevoli degli immigrati), protagonista scosciata dei salotti televisivi, viene infatti rapita da un gruppo di balordi della zona, capitanati da un ex parà reduce dalle missioni in Somalia, tendenzialmente incapaci, grotteschi quanto lei.
Compito di ritrovarla spetterà al nostro ispettore della Volante Malatesta, surreale rappresentante dell’ordine, insofferente alle gerarchie, sempre sul punto di essere sospeso o mandato a dirigere il traffico, come si soleva dire una volta. Malatesta se ne infischia della realpolitik, del compromesso, dell’ossequiente ubbidienza alla ragion di stato, e proprio per questo è sempre ad un passo dai guai e nello stesso tempo simpatico a chi legge.
Poi la richiesta di riscatto:

La telefonata era arrivata alle dieci e dodici minuti. Avevano chiamato all’ufficio dell’imprenditore. Aveva risposto la sua segretaria. Una voce maschile aveva detto semplicemente: “Abbiamo noi Samantha Ripamonti. Vogliamo tre milioni di euro. Vi diremo dove e quando. Nei prossimi giorni vi invieremo le prove che vi daranno garanzia che l’abbiamo noi. Sta bene”.

E’ l’inizio di un’indagine anarchica quanto Malatesta, coadiuvata da una squadra composta da una specie di Big Jim cinquantenne (con come suoneria del cellulare una frizzante versione di Faccetta nera) in compagnia di un giovane Primo Carnera e di un tenero e imberbe Jean-Claude Van Damm, incaricati, per decreto di chi detiene il potere, di coordinare e dirigere le indagini. Immaginatevi la gioia di Malatesta che già fantastica di tagliare le gomme della loro auto.
Con toni che vanno dalla farsa alla tragedia, (dare fuoco ad un barbone, o le aggressioni ai campi rom sono tragicamente argomenti di cronaca), Mazzoni ci narra uno spaccato di vita di provincia, e trasforma il noir in un impietoso ritratto sociale, pieno di rabbia autentica e di indignazione civile, di un’ Italia allo sbando in cui i confini tra bene e male non sono più così netti.
Un’Italia con ronde di vigilantes, politici che calcano l’onda del risentimento, valori umani calpestati e sovvertiti, ipocrisie più o meno palesi, burocratismo estremo e falcidiante, culto per il denaro, edonismo di bassa lega. Una lettura divertente e nello stesso tempo impegnata, un antidoto ai pregiudizi, alle ipocrisie, al ciarpame che ammorba e intossica il tanto osannato quieto vivere stigmatizzando vizi e difetti. E la rabbia di cui parlavo prima emerge feroce e ci accompagna per tutta lettura. Sarebbe meglio anche dopo.

Lorenzo Mazzoni è nato a Ferrara nel 1974. Narratore, saggista e reporter ha pubblicato numerosi romanzi, fra cui “Il requiem di Valle Secca” (Tracce, 2006; finalista al Premio Rhegium Julii), “Ost, il banchetto degli scarafaggi” (Edizioni Melquìades, 2007), “Le bestie/Kinshasa Serenade” (Momentum Edizioni, 2011), “Apologia di uomini inutili” (Edizioni La Gru, 2013; Premio Liberi di Scrivere Award). È il creatore dell’ispettore Pietro Malatesta, protagonista dei noir (illustrati da Andrea Amaducci ed editi da Momentum Edizioni/Koi Press) “Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico” (2011; Premio Liberi di Scrivere Award), “La Tremarella” (2012) e “Termodistruzione di un koala” (2013). Diversi suoi reportage e racconti sono apparsi su “Il manifesto”, “Il Reportage”, “East Journal”, “Il reporter”, “Culturalismi” e “Torno Giovedì”. Collabora con “Il Fatto Quotidiano”.

:: Un’intervista con Lorenzo Mazzoni, a cura di Giulietta Iannone

4 febbraio 2014

OLYMPUS DIGITAL CAMERAD. Ciao Lorenzo, benvenuto su Liberi di scrivere e grazie per avere accettato questa mia intervista. Finalmente abbiamo con noi il vincitore della quarta edizione del Liberi di Scrivere Award con il romanzo Apologia di uomini inutili. Hai già vinto nel 2011 con Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico, ma se vogliamo questa vittoria è ancora più schiacciante, più di 400 voti,  per un romanzo obbiettivamente difficile, forse ancora più “feroce” di Le bestie – Kinshasa Serenade. Come te lo spieghi? I lettori sono più maturi di quanto si immagini, sono pronti ad affrontare anche storie difficili, dolorose, scomode, sempre che gli scrittori abbiano il coraggio di scriverle?

R. Grazie a voi per l’ospitalità. Intanto ringrazio i lettori per avermi votato. Senza dubbio una vittoria schiacciante su nomi molto importanti, una vittoria insperata. Se è vero che Malatesta poteva contare su lettori affezionati e sul suo pubblico di fedelissimi, la vittoria di Apologia di uomini inutili è stata una sorpresa anche per me. Credo che la vittoria dipenda molto dal tipo di lettori di questo blog, lettori aperti e intelligenti, inoltre l’editore si è mosso molto bene per pubblicizzare che il romanzo era finalista. In generale io credo che i lettori sarebbero prontissimi ad affrontare storie difficili, sono spesso gli editori che fanno il grosso del mercato a propinare carta straccia che spacciano per narrativa, educano i lettori a mangiare cacca.

D. Parliamo proprio del premio, nato da un blog, quindi senza alcuna forma di ufficialità, né sovvenzione, per ora almeno svincolato anche da sponsor, enti culturali, patrocini vari, anche se un pensiero ce l’ho fatto, per farlo crescere, che so chiedere a qualche ditta di penne da collezione, alla Montblanc per esempio, di sovvenzionarci. Tu che ne pensi, perderebbe la spontaneità che ora ha?

R. Io credo di no. Il blog divulga intelligenza, se poi uno sponsor aiuta a crescere, perché non usarlo. In fondo non stai chiedendo fondi a una fabbrica di mine antiuomo o a qualche partito politico.

D. Quest’anno siamo finiti anche sui giornali, L’estense, Il Resto del Carlino, La nuova Ferrara, pensi che stiamo attirando l’attenzione, e soprattutto cosa pensi dei premi letterari in genere, servono agli scrittori e alla letteratura?

R. Non so se le classifiche dei concorsi, così come le classifiche degli store digitali o dei premi letterari diano un orientamento al lettore, penso di sì, almeno in minima parte. Senza dubbio hanno un senso per il mondo editoriale. Quando Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico vinse l’Award nel 2012 fui contattato dal più grosso gruppo editoriale tedesco per la traduzione del libro. E anche in queste settimane, dopo la vittoria di Apologia di uomini inutili nell’ultimo premio Liberi di Scrivere, diversi prestigiosi editori si sono fatti vivi per avere miei manoscritti inediti (ho detto prestigiosi, non grossi…)

D. Vivi tra Milano e Istanbul, questo respiro internazionale, ricordiamo comunque che già da prima eri un viaggiatore, come sta cambiando il tuo modo di vere le cose? Ti stai facendo conoscere anche  a livello internazionale? Ho visto che hanno votato per te dalla Turchia, dalla Germania, dal Vietnam.     

R. Purtroppo a Istanbul non potrò più metterci piede per almeno cinque anni in quanto espulso come persona non desiderata (echi delle proteste di Gezi Park e di quello che ho scritto). Senza dubbio il mio modo di vedere le cose sarebbe diverso se non mi fossi mai spostato da casa, viaggiare implica osservazione e partecipazione, anche culturale e mentale. A livello internazionale è difficile. Porno Bloc è stato tradotto in romeno, Un tango per Victor è stato pubblicato da un editore tedesco, sto tentando di “piazzare” altri titoli in Francia e in Germania, ma è molto dura. Le persone che hanno votato per me da Vietnam, Turchia, eccetera sono amici, colleghi, conoscenti.

D. Da poco è uscito per Koi Press Termodistruzione di un koala, un noir irriverente, scanzonato, alternativo, divertente, un po’ sgangherato poliziottesco anni 70, un po’ critica sociale, un po’ satira anarchica, insomma un pout purri con in sottofondo i Mano Negra, i canti di protesta. Ce ne vuoi parlare?

R. Si tratta della quarta indagine di Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico (in questi giorni è uscito anche il quinto volume: La tremarella). Racconta del Mitico e del Fesso, due balordi squattrinati, che vengono assoldati dai fratelli Marone, veterani dello spaccio di cocaina, per commettere un atto di “sano vandalismo” ai danni dell’Atlantico, un bar notturno a ridosso della stazione di Ferrara. Non hanno però fatto i conti con la mafia russa, che ha da tempo allungato i propri tentacoli su questo locale, e che ha inviato nella città emiliana il Koala, uno dei killer più spietati e pericolosi dell’ex impero sovietico. Toccherà come sempre all’ispettore Pietro Malatesta e al suo sodale compare, il sovrintendente Gavino Appuntato, cercare di evitare un sanguinoso regolamento di conti che potrebbe far esplodere il tranquillo e quasi immutabile deserto sociale di Ferrara.

D. Banlieue ferrarese, (il fruttivendolo nigeriano, l’alimentare eritreo, il market pachistano, la pizzeria dei libanesi, il bar gestito dai cinesi) killer moscoviti, insomma multietnicità e respiro internazionale, sta diventando un tuo marchio distintivo?

R. Sì, insieme ad azione, colpi di scena, humor feroce e grottesco. Racconto quello che vedo e che sento. Soprattutto mi diverto.

D. Bel personaggio il Koala, spietato, cattivissimo, pronto a mordere la mano ai suoi stessi padroni a Mosca. Arriva a Ferrara per riprendersi un koala di peluche in cui ha nascosto qualcosa di molto prezioso per lui. Peluche che finirà nelle mani di alcuni bambini e non dico di più, ma il titolo è abbastanza indicativo. Come è nato questo personaggio?

R. Volevo internazionalizzare la serie malatestiana e ho iniziato a fare ricerca sulle varie mafie in giro per il mondo. Mi sono imbattuto il quella moscovita e questo mi ha aperto nuovi canali di ricerca legati all’Afghanistan e al post-URSS, è nato così, studiando il passato, leggendo reportage, bevendo caffè.

D. Un noir che non sfigurerebbe come fumetto. Ti hanno già proposto di trasformarlo in un fumetto, o per lo meno in una graphic novel? Già Amaducci accompagna le vicende di Malatesta con i suoi bizzarri disegni. 

R. Andrea Amaducci basta e avanza, illustra lui e lo fa egregiamente. L’idea magari è quella di fare qualcosa insieme dove il fumetto prevalga sul testo. Se altri mi chiedessero di fare una trasposizione rifiuterei.

D. Dirigi la collana noir di una casa editrice italo-francese, con sede a Parigi, la Meme Publishers, quale è il bilancio attuale? Come ti trovi nel ruolo di direttore editoriale? Come scegli i libri da pubblicare? 

R. Non so se sono portato per questa cosa, a me piace leggere e scrivere e mi sembra di non riuscire a dedicare tempo per me, però con Meme mi trovo bene, i libri pubblicati sono ottimi, stiamo pensando a grossi nomi internazionali che usciranno fra qualche mese, la collana che io curo ha pubblicato fra gli altri Alessandro Bastasi, Andrea Mariani, Pierluigi Porazzi che hanno scritto cose molto belle.

D. Oltre al corso a circolo Arci Métissage a Milano hai iniziato anche il corso di Scrittura Creativa, Narrativa e Reportage anche a Monza per Corsi Corsari. Ce ne vuoi parlare? Come è nata questa tua nuova attività di insegnante? Hai buoni riscontri?

R. Sono sempre stato scettico sui corsi di scrittura e continuo a esserlo. Più che altro racconto la mia esperienza e cerco di creare interazione fra i corsisti. Al primo laboratorio a  Métissage è nato un romanzo collettivo scritto dai partecipanti, molto bello, una spy story ambientata a Milano. È nata un’amicizia fra me e anche tra i ragazzi che hanno partecipato. I riscontri sono ottimi, soprattutto a livello umano e culturale. Spero vada altrettanto bene a Monza, con Corsi Corsari e nella replica milanese.

D. Grazie Lorenzo della disponibilità. L’intervista è finita, come ultima domanda ti chiederei se puoi anticiparci i tuoi progetti per il futuro, nuovi romanzi standalone, nuove avventure di Malatesta, progetti cinematografici?

R. Con Andrea Amaducci stiamo terminando la nuova indagine malatestiana. È quasi finita la prima stesura. Abbiamo aperti altri sei romanzi, almeno, dello sbirro anarchico, ma ci concentreremo solo su quello dal clima “spallino”. Sarà una storia dedicata alla Spal e ai suoi tifosi. Poi da solo sto scrivendo più o meno cinque bozze. Da una novella un po’ Simenon (con tutto il rispetto), a una spy-story ambientata durante la guerra nella ex Jugoslavia, ad altre storie disseminate tra Istanbul, Tirana, la Brianza, Milano.

:: Recensione di Termodistruzione di un koala di Lorenzo Mazzoni (Koi Press, 2013)

25 dicembre 2013

cover“Porca puttana, sono tutti pazzi”, pensò Malatesta sedendosi a tavola a fumare una sigaretta. Ma’, per confermare la sua tesi, entrò in quel momento nella stanza, si diresse al lavello con un bong di vetro in mano, aprì il rubinetto, riempì la pipetta di acqua e accese il braciere. La nuvoletta di marijuana invase, come bruma domestica, la cucina.

E’ da poco disponibile negli store online in formato ebook, e alle presentazioni in formato cartaceo, il nuovo romanzo di Lorenzo Mazzoni, Termodistruzione di un koala, per Koi Press, che prosegue la saga malatestiana dopo Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico (tre romanzi brevi: Nero ferrarese, Il recinto delle capre e Il cinematografo) e il racconto Malatesta. La Tremarella. Come tradizione a illustrare il romanzo i bellissimi disegni di Andrea Amaducci, schizzi in bianco e nero con un tocco di rosso, che illustrano le fasi salienti dell’azione e aggiungono un tocco ironico e sovversivo ad un’ opera che si differenzia già di per sé dalle storie noir o anche pulp che siamo soliti leggere. Mazzoni con uno stile personale, e una bizzarra e anarchica leggerezza, ci porta nel suo mondo, nella sua Ferrara ben lontana dall’immagine opulenta, tutta Suv e palazzi d’epoca, che spicca dai depliant turistici. E’una Ferrara vista dal basso, da una angolazione insolita e nello stesso tempo non priva di una sorta ci complice affetto. Una Ferrara multietnica e rumorosa, fatta di Banlieue dal sapore parigino: La lunga schiera di condomini e di case popolari era interrotta da due budelli a fondo chiuso e da via Oroboni, cuore pulsante di quella che ormai era stata ridefinita la Banlieue ferrarese per l’alta concentrazione di immigrati: il fruttivendolo nigeriano, l’alimentare eritreo, il market pachistano, la pizzeria dei libanesi, il bar gestito dai cinesi. E in fondo, all’orizzonte, il Grattacielo, la doppia torre della multietnicità ferrarese, che ospitava al suo interno cittadini di trentadue diverse nazionalità. Questa volta il nostro sbirro anarchico se la dovrà vedere niente di meno che con la mafia russa, perché a quanto pare la multietnicità si accompagna anche coi suoi lati negativi e una sorta di internazionalità del crimine, che scardina le vecchie logiche delle sornioni città di provincia di una volta. E il nostro Malatesta tra un romanzo di Simenon e di Alain Mabanckou,  i vecchi LP dei Clash e degli Skiantos, i telefilm di  Starsky&Hutch, visti con il suo videoregistratore scalcagnato, sopravvissuto di un’epoca meno tecnologica, si trova a vedersela con il Koala, Vladimir Bogdanov, ex militare in Afghanistan e appartenente alle prime bande criminali russe nate dopo la caduta del Muro, uno spietato e pericolosissimo killer assoldato dalla mafia russa, una brutta faccia. Sulla quarantina, il viso lungo, gli zigomi sporgenti, i capelli neri e tagliati corti, il naso talmente schiacciato da sembrare disegnato sulla foto da un caricaturista. Gli occhi erano grigi, vigili e attenti, eredità ingombrante dell’ex impero sovietico, giunto a Ferrara in cerca di un peluche. Infatti tutto sembra avere avuto inizio quando due balordi della zona sempre a corto di soldi, il Mitico e il Fesso, (bizzarro il modo da cui presero questi soprannomi) vengono assoldati da delinquenti locali, (Duccio e Glauco Marone)  per dare fuoco (be’ con risultati abbastanza infelici) all’ Atlantico, un locale notturno di zona Arginone a ridosso dei binari ferroviari, meta di divertimento per danarosi fighetti della vicina Facoltà di Ingegneria (che appunto i Marone volevano comprare, anche qui con infelici risultati). E mentre Luigi Tenco canta Tu non hai capito niente Malatesta si vede piombare tra capo e collo il Koala, sulla cui strada inizia a disseminarsi una scia di morti, e salvare il salvabile e impedire un vero e proprio massacro diventa la sua unica priorità. Con la verve di un western alla Sergio Leone, e il grottesco divertimento di un poliziottesco anni ’70, Mazzoni gioca con gli stili e i generi, tirando le fila di una storia pericolosamente in bilico tra cronaca e leggenda metropolitana, uno spazio autogestito in cui con sprezzo per il politicamente corretto e una punta di romantico disincanto ci parla di quelli che difficilmente diventano protagonisti di un romanzo in un affresco corale giocato sui toni del bizzarro e dell’assurdo. Grandi delinquenti, capitalisticamente asserviti al dio denaro e piccoli disperati, alcolisti, tossici, prostitute, poveracci che non farebbero male ad una mosca, si stagliano prendendo i riflettori su di sé e intanto tra colpi di scena e azione pulp, sorridiamo, riflettiamo e intanto il romanzo è già finito. Forse troppo breve, unico rammarico.

Lorenzo Mazzoni ha pubblicato numerosi romanzi, fra cui Il requiem di Valle Secca (Tracce, 2006), Ost, il banchetto degli scarafaggi (Edizioni Melquìades, 2007), Le bestie/Kinshasa Serenade (Momentum Edizioni, 2011), Porno Bloc. Rotocalco morboso dalla Romania post post-comunista (fotografie di Marco Belli; edizione bilingue italiano/romeno; Lite Editions, 2012). E’ il creatore dell’ispettore Pietro Malatesta, protagonista dei noir (illustrati da Andrea Amaducci ed editi da Momentum Edizioni) Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico (2011; Premio Liberi di Scrivere Award) e Malatesta. La Tremarella (2012). Diversi suoi reportage e racconti sono apparsi su “Il manifesto”, “Il Reportage”, “East Journal”, “Il reporter” e “Torno Giovedì”. Cura la collana internazionale Atlantis per la casa editrice Lite Editions. Collabora a “Il Fatto Quotidiano“.

:: Recensione di Apologia di uomini inutili di Lorenzo Mazzoni (La Gru, 2013) a cura di Giulietta Iannone

16 luglio 2013

uomini inutiliAncora deserto sporco di pubblicità non degradabili, cartelloni stradali in inglese e arabo, con nomi di hotel, ristoranti, locali per turisti. Il mare sfregiato dalle costruzioni dei verdi, gialli, rossi villaggi turistici; una curva, una barca da pesca lasciata in un vicolo sterrato a bloccare il traffico, un dedalo di viuzze sporche, motorini, bambini che chiedevano la carità, e ancora uno stradone impolverato percorso da decine di pulmini scarburati. Case lasciate lì a marcire, costruite fino al primo piano e poi abbandonate, odore di mafia, cartelli politici. Infondo alla strada la moschea.  

Apologia di uomini inutili, edito da La Gru e scritto con sofferta partecipazione da Lorenzo Mazzoni, è un romanzo fatto di scene che si susseguono veloci, alternandosi e seguendo la vita di tre personaggi, tre nerissime caricature di occidentali dolorosamente assorbiti nel loro nulla, nella loro inutilità. Un collage di storie quindi, unite da un unico filo conduttore, un’ unica direttrice. Un’amarissima parabola discendente, testimone di un fallimento, di un doloroso vuoto etico ed esistenziale, prima che politico od economico. Paco, Jerry, Mauro, sono gli antieroi di questa farsa tragica. Le loro vite a perdere, non presentano spiragli di redenzione, o salvezza. Ambientato principalmente tra Sana’a e Urghada, luoghi dove l’autore ha realmente vissuto, Apologia di uomini inutili è un ritratto impietoso, che non tenta di giustificare, un’ umanità colpevole e vuota, incapace di ergersi sugli abissi della sua inadeguatezza. Paco, il più duro, il più deciso dei tre, è un mercenario, un avventuriero che gira il mondo e organizza attentati per tenere vivo un clima di instabilità, voluto da un servizio segreto esclusivo, alla faccia dello Stato e del Sismi. Le sue vittime non sono innocenti, non sono migliori di lui, ma l’indifferenza con cui organizza le loro morti è assoluta, neanche spiegata o giustificata da ideologie o fanatismi. Non ha memoria del passato, non ricorda neanche il suo nome, ma sa di non avere futuro. L’organizzazione si libererà di lui con la sua stessa indifferenza, appena sarà inutile, appena sarà un peso morto. Ingranaggio difettoso in un meccanismo spietato e disumano. Jerry lascia l’Italia per sfuggire ad un amore disperato e non corrisposto, per non sentire più nella sua mente le sue ultime parole: “Non sono innamorata di te. Ti voglio bene ma non ti amo.” Per sfuggire ad una città di provincia, vuota, noiosa, che lo faceva sentire parte di una generazione inutile in un mondo inutile. Diventa così animatore turistico in un resort sul Mar Rosso, a contatto della stessa umanità tamarra e assurda dalla quale sperava di fuggire. Erano arrivati il giorno prima con i voli dall’Italia. Certi erano dei veterani delle vacanze da sogno, altri verginelle sciocche e cadaveriche pronte a lasciarsi trascinare dal loro nulla. Ometti inutili ingannati felicemente dal mito scadente della mobilità a poco prezzo; rapiti dalla magica formula del last minute, dei sette giorni- sei notti, tutto compreso; succubi dell’animatore turistico, il loro tutore della felicità. Infine Mauro, il più fragile a modo suo, quello la cui coscienza gli impedisce di continuare a vivere senza cercare di fare qualcosa, di uscire dalla sua neutralità. Venditore di attrezzi di ferramenta, per una ditta con filiali in tutto il mondo. Venditore per l’Egitto grazie alla sua laurea in Lingua e Letteratura araba. Dopo una sera alcolica finisce a casa di Damiano, conosciuto in un bar dei Navigli. Ed è allora che succede. L’irreparabile. Damiano gli mostra dei video amatoriali girati in Thailandia. Immagini di un bordello di Chumphon, dove bambine Bamar, profughe del Mianmar venivano stuprate e alla fine uccise. L’equilibrio di Mauro va in pezzi,  e non può far altro che uccidere Damiano e iniziare una vita da fuggiasco, finendo infine nello stesso resort di Jerry. Non è una lettura facile, chiariamolo subito. Lorenzo Mazzoni non è uno scrittore commerciale, che utilizza la retorica per attirare consensi, che sposta il baricentro narrativo ad uso e consumo di una letteratura usa e getta, banale, edulcorata, perbenista. C’è una genuina rabbia nei suoi testi, un’ autentica e viscerale nausea e ripugnanza che rendono la sua onestà intellettuale scomoda e provocatoria al tempo stesso, difficilmente classificabile in categorie e generi. Mi stupisco che nel panorama letterario italiano, piuttosto monocorde e conformista, un libro così abbia trovato spazio, e non mi riferisco solo al tipo di autocensura che potrebbero provocare le pagine dolorose e piuttosto traumatiche in cui lo scrittore descrive la visione di filmati in cui si consumano abusi e violenze su bambine thailandesi. Il turismo sessuale e le perversioni legate agli abusi sui minori sono ancora temi tabù, e forse non unicamente per ipocrisia. Possono urtare davvero la sensibilità dei lettori, e fare male. Non certo male quanto quello che viene fatto alle piccole vittime, comunque. Ma proprio allo spirito anarchico che si respira, al desiderio di fare qualcosa, di cambiare qualcosa, di svegliare dall’apatia i lettori. Nostalgia per una letteratura partecipata, figlia di ideali politici e ideologici, così fuori moda, così in disuso. Pandiani ha definito questo romanzo una spy story di denuncia, genere che sembra congegnale all’autore, già in Le bestie Kinshasa Serenade le colpe dell’occidente, e i danni causati dal colonialismo più selvaggio, erano temi sentiti e virulentemente combattuti. Ma a dire il vero molta della sua produzione precedente sceglie le vesti della spy story già dai tempi di  Il banchetto degli scarafaggi. Mazzoni non ha mai nascosto i suoi debiti letterari nei confronti di Kapuscinski, Hartley e Greene. Il Greene soprattutto de I commedianti e Il potere e la gloria. La spy story è un ottimo veicolo per denunciare i mali di questa società contemporanea sempre più indifferente, violenta, disgregata, in disfacimento. Il respiro internazionale (spie e delatori da sempre si sono mossi in scenari esotici, variegati, altri) permette di individuare le cause, di tutto ciò di vedere come tutto sia connesso, in questa società così tragicamente, spropositatamente globalizzata. Un bellissimo libro, amaro e vero, mi sento di consigliarlo, pur avvertendo del linguaggio crudo e forte di alcune pagine.

:: Lorenzo Mazzoni intervista Andrea Camilleri

27 gennaio 2010

1Con sottofondo di Boca Colora, di Joe Vasconcellos

E’ uscito nel maggio dell’anno scorso La danza del gabbiano, il quindicesimo con protagonista il Commissario Montalbano, un Montalbano disilluso, sempre più vecchio nell’animo, stanco. Ha voglia di parlarci di questo romanzo? La crisi di Montalbano sembra nascere da un pensiero sulla morte che sempre meno abbandona il personaggio, Lei stesso tempo fa ha dichiarato: “E poiché è avanzato con gli anni, si lamenta ed è stanco di lavorare, ma non potrà sfuggire al suo destino.” Questo riguarda solo il commissario o, in qualche modo anche il mestiere di scrittore?

A Montalbano capita quello che capita a molti uomini passata la cinquantina e a molte donne passata invece la quarantina. Cioè di diventare grandi. Il fisico inizia a cedere, la memoria perde qualche colpo, la grinta viene meno sempre più spesso e inizia un lento distacco dall’immagine giovanile  che si aveva di se stessi. Inoltre bisogna a calcolare che Montalbano è usurato dal mestiere. Soprattutto perché ritiene di avere a che fare sostanzialmente con degli stupidi. Il mio caso di scrittore è invece ben diverso. Io ho a che fare con i miei lettori, che mi creda, spesso sono i critici più attenti, scrupolosi, ed intelligenti che possa augurarmi.

Da dove nasce il personaggio del Commissario Montalbano?

Come ho detto diverse volte nasce da una mia esigenza di ordine narrativo. Il romanzo giallo in questo senso mi ingabbia dentro regole ben precise. Il successo del primo Montalbano mi ha poi felicemente “obbligato” a scriverne altri.

Quando ha iniziato a scrivere utilizzando espressioni del dialetto e del parlato siciliano pensava potesse avere così grande successo? Inizialmente ha avuto difficoltà nel presentarlo agli editori?

Neanche lontanamente, sono stato sconsigliato anche da Sciascia. D’altronde non potevo fare diversamente: è l’unico modo che ho per comunicare, anche se passati gli 80 cerco di scrivere qualcosa in italiano.

Quanta importanza ha il linguaggio cinematografico nel suo lavoro narrativo?

Tanta, ma ancor di più ha importanza il dialogo teatrale.

Oltre a lei, moltissimi autori, italiani e non, hanno creato personaggi polizieschi: Khadra, Izzo, Lucarelli, Carlotto, Montalbàan, Taibo II, Macchiavelli, Willeford, Arjouni… C’è qualche autore di genere che le piace particolarmente?

Simenon, Izzo, Durenmatt, Gadda, Chakri e tanti tantissimi altri. Tra tutti Sofocle con l’Edipo.

Quali sono, secondo Lei, le qualità per essere un buon scrittore? C’è una giornata tipo nei periodi di lavoro creativo?

Non conosco regole per essere un buono scrittore. Purtroppo non ne conosco neanche per la buona o cattiva giornata. La mia giornata è sempre la stessa, o almeno tento di fare in modo che sia la stessa, di una monotonia esasperante.

Pensa che in Italia ci sia una reale crisi del libro? Quali potrebbero essere gli strumenti per risolverla?

Non c’è nessuna crisi del libro. C’è la crisi dei lettori. In Italia c’è una fioritura di romanzieri e narratori di grande livello. Purtroppo mancano i lettori.

Sta lavorando a qualche nuovo libro?

Fino a quando ne avrò la forza io lavorerò  sempre a qualche nuovo libro.

Grazie, buona giornata e buon lavoro.

:: Intervista a Michelle Nouri, di Lorenzo Mazzoni

19 Maggio 2008

Ci parli un po’ del suo libro, La ragazza di Baghdad

Il mio libro è un autobiografia che narra la mia infanzia in Iraq e nella ex Cecoslovacchia comunista…  Racconta di come si sono conosciuti i miei genitori (padre irachèno e madre dell’ attuale Repubblica Ceca) così diversi fra di loro, sia dal punto di vista somatico che culturale e religioso. Ma l’amore con la A maiuscola sembrava sconfiggere queste differenze. Per qualche anno almeno. Finché al situazione non è precipitata… l’odio che provava la famiglia di mio padre nei confronti di mia madre ( straniera ), ha preso il sopravvento ed è stato la causa della loro separazione. La ragazza di Baghdad narra anche l’epoca di Saddam degli anni ottanta, la lunga guerra con l’Iran, la vita sociale degli irachèni ecc.

Un’opera fortemente autobiografica, ma che analizza un problema molto ampio: quello dei rapporti fra due culture. Pensa che la narrativa contemporanea si occupi in modo ampio di questa problematica?

Recentemente sì. Forse perché negli ultimi anni sono riaffiorati queste problematiche legate al oddio razziale e religioso, causati spesso da conflitti e sete di potere. Credo sia fondamentale illustrare attraverso i libri o i documentari come vivono le altre popolazione nel mondo. Questo sistema non guarirà l’ostilità che si sta sempre più creando fra le varie culture e religioni ( spesso volute e mirate ) ma per lo meno può aiutare a riflettere e a comprendere la varie ragione e le loro problematiche. Questo è uno dei motivi per i quali ho deciso di scrivere La ragazza di Baghdad. Attraverso il mio percorso personale, e al costo di raccontare situazioni intime e riservate della mia famiglia, ho voluto in qualche modo contribuire a fare conoscere un mondo – cioè quello irachèno – quasi semi sconosciuto all’opinione pubblica italiana. Uno spaccato di storia ma anche il modo di vivere e di pensare dei vari componenti della famiglia di mio padre.

Negli ultimi anni sono state stampate diverse autobiografie scritte con magistrale piglio narrativo, penso soprattutto ai bellissimi Shantaram di Gregory David Roberts e a Il forziere di Zanzibar di Aidan Hartley. Pensa che quello della biografia sia un canale intelligente e innovativo per dire qualcosa al lettore?

Direi proprio di sì. Anzi, ne sono convinta. Shantaram è un libro fantastico. È pieno di emozioni e allo stesso tempo racconta l’India, specialmente Bombay in tutte le sue sfaccettature. Fa’ riflettere sulla povertà delle persone che la abitano e sul forte senso della loro immensa umanità. Ho tanto amato il personaggio di Prabaker.  Inoltre adoro il popolo indiano. Hanno dignità nonostante la povertà.  513C39TKTSLPrediligo le autobiografie perche’ mi piace leggere storie e fatti realmente accaduti di persone realmente esistite.

Lo scambio culturale a livello letterario e personale con Paesi non occidentali, è molto difficile. Pensa ci possano essere dei canali che indirizzino i lettori italiani verso letterature diverse da quella nazionale e soprattutto da quella di stampo americano?

Certamente. Il problema è uno. I libri di autori italiani di rado arrivano all’estero. Sono forse un po’ snobbati dalle case editrici estere. E questo mi dispiace. Mentre paradossalmente il contrario,  funziona. Tutto ciò che arriva dal estero, Stati Uniti o Inghilterra in Italia ha successo. Forse qui gioca un po’ una mancanza di fiducia in se stessi…

Nagib Mafhuz, Tahar Ben Jelloun, Tawfiq al-Hakim, ‘Ala al-Aswani, Yasmina Khadra (per citarne solo alcuni) sono grandissimi scrittori del mondo arabo che hanno avuto e hanno un certo seguito anche in Italia. Cosa pensa di questi autori? Delle tematiche che mettono in atto nei loro romanzi? C’è qualche autore del mondo arabo che ama particolarmente?

Ho avuto il piacere di incontrare Tahar Ben Jelloun. Ho realizzato un’intervista con lui. Beh, è un personaggio simpatico e disponibile. Mi era piaciuto il suo libro “Il razzismo raccontato a mia figlia”.  Tutti questi autori provenienti dal mondo arabo, cercano di dare un contributo alla società italiana o quella che sia. Ognuno a modo suo.  Riescono a cogliere le esigenze dei lettori ed indovinare gli argomenti da trattare. Li ammiro tutti.

Yasmina Khadra ha scritto due anni fa un libro bellissimo. Le sirene di Baghdad. in cui riesce, a mio parere, a raccontare la tragedia dell’Iraq attuale senza cadere in preconcetti o in inutili patetismi. Ha letto il libro? Pensa che Khadra sia riuscito a rappresentare in modo sufficientemente obiettivo il suo Paese e la situazione che sta vivendo?

Sono desolata ma non ho avuto il piacere di leggerlo.

Sua madre viene da Praga e suo padre da Baghdad: cosa le ha dato, a livello letterario, questa interculturalità?

Tantissimo. Riesco a vedere le cose in maniera più obbiettiva e senza preconcetti. Capisco entrambe le culture e le loro radici e motivazioni, a volte.  Mi sento una persona fortunata ad averle ereditati entrambe. Qualche volta però mi sento smarrita. Sento un senso di non appartenenza.

Cosa pensa del giornalismo italiano ed europeo? Qual’è la sua impressione sul come vengono date le notizie su realtà altre, fra cui l’Iraq ma anche altri Paesi che appartengono al mondo arabo?

Credo che quella che dovrebbe essere la libertà di espressione a volte viene soffocata. Non tutti i media riescono ad essere obbiettivi e imparziali. La stampa italiana ad esempio è un po’ influenzata dal proprio editore. Seguono una linea che ritengono sia giusta. La stessa cosa vale anche per la stampa estera. Ma la realtà è spesso diversa da come viene presentata ai lettori.

Lei è cresciuta nella Baghdad degli anni Settanta la Baghdad della sua infanzia oramai non c’è più,  ricca, cosmopolita, moderna, pensa che in futuro tornerà così?

E’ un’ utopia. Purtroppo. Baghdad non ritornerà mai quella che era una volta. La spaccatura interna fra la popolazione è talmente profonda, l’odio è talmente viscerale che è difficile da ricomporre. Indipendentemente da chi la governa. Questo è un mio grande rammarico. Per quanto la possano ricostruire, ridare la libertà di espressione e di movimento alla gente, oramai è un terra che è stata ferita nel profondo del suo animo. A volte di fronte ad una situazione del genere, ci si sente davvero impotenti.

Qual è il più importante scrittore iracheno? C’è una rinascita culturale irachena?

Non ne conosco. Ma Jounes Taufìk, che ora vive a Torino, è un buon scrittore irachèno a mio avviso.

I giovani come stanno agendo nel processo di ricostruzione del paese, c’è determinazione, collaborazione, un impegno condiviso? Collaborano con giovani di altri paesi?

Si, la voglia sicuramente c’è. Ma sono giovani che hanno sofferto tanto e sono un po’ disillusi nei confronti della vita. Sono però anche il futuro del nuovo Iraq. La stessa sensazione la provano anche i giovani del Libano. Assistono alla distruzione della loro nazione da anni, e sanno che è una situazione che loro stessi non possono controllare. Mi dicono sempre : “ God bless this Country  “. Dio benedica la nostra terra.

La percezione che l’occidente ha del mondo musulmano pensa sia corretta, quali sono gli errori più frequenti?

Non è corretta naturalmente. Ma alcuni leader musulmani hanno interesse di fare apparire il mondo musulmano in questo modo. E’ l’occidente non fa’ nulla purché questa situazione cambi.

La società irachena era fortemente matriarcale, nei suoi racconti ci sono madri, sorelle, mogli, nonne, zie, donne forti e punti di riferimento all’interno delle famiglie; ha trovato più maschilismo in occidente?

Paradossalmente, sì.  Al incontrario di quello che si possa pensare, in Iraq a comandare erano sempre le donne. Astute e determinate. Mentre ho riscontrato molto maschilismo in Italia. Buffo, no ? in teoria l’Italia è un Paese aperto e libero. Ma solo in teoria.

Esiste una sorta di femminismo musulmano?

Esiste un fondamentalismo femminile.  Si. Questo però avviene nei Paesi dove domina una forte etica religiosa. Ma di fondo ha a che fare con la propria cultura. Come sempre.

Il conflitto tra sciiti e sunniti non pensa che sia una questione interna? Gli occidentali secondo lei capiscano realmente il problema e negli equilibri dei rapporti tra clan, pensa agiscano correttamente ?

Il conflitto negli anni ottanta o comunque durante l’epoca di Saddam non è mai esistito. Il fatto di essere sciita o sunnita non faceva alcuna differenza. E’ una problematica che si era sviluppata negli ultimi anni. Chissà il perché ?… forse un Paese unito è meno facile da controllare che un Paese diviso. Sarà…