Posts Tagged ‘autobiografia’

::The  Woman in Me, Britney Spears (Longanesi 2023) A cura di Viviana Filippini

19 marzo 2024

Britney… e “Baby one more time”… sono passati anni, era il 1998 quando Britney Spears irrompeva nelle classifiche mondiali con questa hit, una delle tante che l’hanno consacrata a Reginetta del Pop. Un successo dopo l’altro, poi la caduta e un limbo dal quale Britney sembrava non riuscire ad uscire. “The Woman in Me” è l’autobiografia della cantante, edita da Longanesi, che si racconta, anzi narra la sua vita da bambina, adolescente, adulta, madre, mostrando aspetti esistenziali non sempre noti. Nel senso che noi vediamo e conosciamo l’immagine che ci arriva dai media, ma dietro di essa c’è un vero e proprio mondo da scoprire e non è detto che quelle luci brillanti della superficie incarnino la perfezione. Il libro della Spears è una racconto a ruota libera di una vita nella quale la cantante narra diversi momenti dove si alternano gioia, felicità, ma anche dolori come il rapporto altalenante e variabile con la famiglia;  la fine della relazione con Justine Timberlake, e si capiscono un po’ più a fondo le motivazioni del loro allontanamento anche con dettagli che magari non tutti sanno;  o c’è l’episodio di quando la Spears si rapò a zero i capelli (tra le pagine si scopre il perché), o quel suo bisogno di fare la mamma che le è stato ostacolato in ogni modo possibile. Dietro alla facciata di perfezione e successo, Britney narra il suo lavorare in modo costante e continuo fatto seguendo le direzioni e le volontà altrui, senza poter esprimere il suo estro o avere voce in capitolo sul proprio essere artista, ma anche donna e mamma. Sì perché nel libro la Spears narra anche del Conservatorship, un provvedimento legale deciso dal tribunale con il quale si affida la tutela fisica e economica di una persona adulta a un’altra, spesso legata a lei tramite parentela e per la Spears  fu il padre. Esso è uno strumento utilizzato quando gli individui non sono più capaci di prendere decisioni per se stessi per motivi gravi (soprattutto di salute). Britney fu sottoposta al Conservatorship dal 2008 fino al 2021 e leggendo il libro ci si rende conto del controllo serrato che la cantante dovette subire, perché riguardava ogni aspetto della sua vita, dalla dimensione pubblica a privata, al lavoro, fino agli integratori che prendeva, tanto che nel libro la cantante dice che cominciò a sentirsi come un robot. “The woman in me” di Britney Spears, è un memoir nel quale l’artista con una scrittura ironica si mostra in modo completo, mettendosi a nudo a noi lettori e permettendoci di comprendere come a volte dietro una vita di successo possano esserci tanto dolore e sofferenza, che evidenziano quanta fragilità si possa nascondere in una persona che, indipendentemente dalla notorietà, è sempre un essere umano con sentimenti ed emozioni. Traduzione di Paolo Lucca e Giuseppe Maugeri.

Britney Jean Spears  è una cantante, ballerina,attrice, cantautrice, personaggio televisivo e stilista statunitense. È tra le più celebri e premiate artiste della storia della musica pop ed è entrata nei Guinness dei Primati per 13 volte e le è stata dedicata una stella nella Hollywood Walk of Fame all’età di 21 anni.

Source: del recensore.

:: Ma io in guerra non ci volevo andare  Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954), Antonio (Nino) Zorco, (Oltre edizioni 2023) A cura di Viviana Filippini

21 giugno 2023

Credo che il fare memoria del passato, di chi non c’è, di quello che le persone hanno vissuto sulla propria pelle sia importante, non solo però nelle date segnate sul calendario. Credo che ogni momento possa essere importante e anche utile per fare memoria e per conoscere quelle parti della Storia, in questo caso quella dei fiumani italiani costretti ad andarsene dalla loro terre e non ancora abbastanza note. Scrivo questo, perché vi voglio raccontare di “Ma io in guerra non ci volevo andare  Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954)” di Antonio (Nino) Zorco, un libro di memorie nel quale l’autore mette nero su bianco tutta la sofferenza provata nel campo di concentramento e appena tornato a casa. Andiamo con ordine, perché Antonio Zorco detto Nino, originario di Fiume, narra l’improvviso cambiamento della sua esistenza con l’arresto avvenuto nell’agosto del 1944 per mano dei tedeschi. Una volta catturato il giovane, che aveva evitato qualsiasi leva militare, venne spedito con altri compagni a Mühldorf, in Germania, dove rimase in un campo di concentramento per i lavori forzati (Todt) dal 9 settembre 1944 al 4 agosto 1945. Pagine di dura vita, fatta di lavoro, di paure e necessità di sopravvivenza. Per sua fortuna Nino tornò a casa, anche in modo rocambolesco, malato e bisognoso di cure. Quello che il giovane reduce nato a Fiume da genitori istriani di Visignano d’Istria, trovò nel tentativo di arrivare a Fiume, fu qualcosa di ben diverso dalla pace. Al posto di scovare una situazione sociale dove poter ricominciare a vivere e ricostruire quello distrutto dalla guerra dentro e fuori di lui, Zorco dovette confrontarsi con altri militari, i soldati titini, che nel frattempo avevano occupato la città imponendo le loro regole. Zorco visse un senso di sradicamento dalle proprie radici, nel senso che Nino non solo venne prima deportato, ma tornato a casa trovò  una Fiume svuotata dei fiumani che aveva conosciuto (amici e parenti compresi) e piena di persone nuove arrivate dell’ex Jugoslavia, che imposero negli anni usi, costumi, tradizioni diverse da quelle che Nino aveva appreso. Una situazione spiazzante per l’autore che si rese conto di non avere più dei punti di riferimento italiani precisi, tanto da sentirsi un po’ alla Jacopo Ortis, ossia “uno straniero in casa propria”. Zorco spaesato e minato ancora da problemi di salute, chiese più volte alle autorità jugoslave di partire per l’Italia ma sempre gli venne negato il permesso. Nonostante questa impossibilità a raggiungere i suoi cari partiti (anche non volontariamente) per altri luoghi, Nino rimase a Fiume lavorando come tecnico di raffineria e trovando pace  grazie all’amore della moglie Daniza. “Ma io in guerra non ci volevo andare  Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954)” di Antonio (Nino) Zorco  è la storia di un giovane uomo portato via dalla sua terra natia e una volta tornato a casa sconvolto da quanto essa fosse cambiata. Il libro di Zorco è la storia di un fiumano che provò sulla propria pelle e nell’animo il vuoto lasciato dall’allontanamento dei propri cari e dalla trasformazione della propria terra occupata da altri. La testimonianza del fiumano Nino è una voce singola e, allo stesso tempo, la voce di un popolo, che con il proprio vissuto incarna quella perdita di capisaldi e quel senso di vuoto/mancanza dovuti all’allentamento forzato o, come nel caso di Nino Zorco, al doversi adattare, perché impossibilitati a partire, ad un mondo nuovo completamente diverso dalla terra istriana di un tempo. Il libro presenta un’introduzione di Diego Zandel, scrittore  nipote di Nino e la postfazione di Roberto Spazzali.

Antonio Zorco, detto Nino, classe 1925 era nativo di Fiume. I genitori erano istriani di Visignano d’Istria. Renitente a qualsiasi leva, nel 1944 venne arrestato dai tedeschi e costretto, come civile, a entrare nell’organizzazione di lavori forzati Todt in Germania, nel campo di concentramento di Mühldorf, dove restò fino alla fine della guerra e da dove tornò con mezzi di fortuna e malato in Italia, nell’agosto del 1945. Lavorò per tutta la vita come tecnico nella raffineria di Fiume, dove morì nel 2003.

Source: grazie all’ufficio stampa 1A di Anna Ardissone  e Raffaella Soldani.

Acid for the children. L’autobiografia del bassista dei Red Hot Chili Peppers, Flea (Harper Collins 2021) A cura di Viviana Filippini

21 settembre 2021

Un po’ funk e un po’ rock è l’anima dei Red Hot Chili Peppers ed essa riecheggia anche in “Acid for the children.” l’autobiografia di Flea, il bassista della band dei Red Hot Chili Peppers, pubblicata in Italia dall’editore HarperCollins. In questo libro il lettore si si divide tra l’Australia dove il protagonista, il cui vero nome all’anagrafe è Michael Peter Balzary, visse per una prima parte dell’infanzia, fino a quando i genitori divorziarono e la madre prese i figli per andare in America. Per un periodo Flea abitò a New York dove il nuovo compagno della madre era un musicista jazz che aprì un mondo nuovo al nostro narratore. Qui il piccolo Flea (pulce tradotto in italiano) imparò a conoscere la musica jazz che approfondì poi una volta trasferitosi a Los Angeles imparando a suonare la tromba. Da questo libro di memorie quello che viene a galla è l’amore viscerale per la musica, ma anche un vivere non sempre facile con le persone che Flea aveva accanto, perché se con e la sorella tutto filava liscio, il musicista nel libro scrive: “Sono cresciuto terrorizzato dai miei genitori, e in generale dalle figure paterne, che mi hanno causato molti problemi più tardi nella vita”. Accanto ai genitori a creare altri problemi a Flea furono i compagni di scuola che lo scelsero come il bersaglio dei loro scherz,i perché troppo basso, perché vestito in un modo che gli impediva di inserirsi in qualche gruppo, perché sempre con quel velo di malinconia sul viso che, nonostante una felice serenità presente in lui, impediva alle persone che gli stavano attorno di comprendere il suo vero stato d’animo. In questa narrazione di vita, ritmica e a tratti sincopata, Flea racconta le emozioni, i momenti di gioia e felicità, ma anche la perdita della retta via che lo portò per un certo periodo a compiere furtarelli di vario tipo da solo o con gli amici. Nelle parole del Flea adulto emerge la consapevolezza di aver esagerato da ragazzo, di essersi messo in situazioni dove la sua vita fu davvero messa a rischio e in bilico, come quando dalla semplice fumatina di erba passò a droghe molto più pesanti. A 14 anni l’incontro con Anthony Kiedies, anche lui adolescente e anche lui tossicodipendente, con il quale ci fu subito sintonia su più fronti (situazione familiare, uso e abuso di sostanze tossiche, la musica). Fu però proprio l’amore per le note a permettere ai due amici di dare vita ad una della band funk rock più amate al mondo: i Red Hot Chili Peppers. “Acid for the children.” ha un ritmo incalzante e mentre lo si legge si ha la sensazione di essere davvero in compagnia di Flea che ti racconta la sua vita tra alti e bassi, tra cadute, risalite e ammaccature (avete presente il video dei RHCP di “Scar tissue”?), evidenziando una sensibilità emotiva tutta da scoprire. Traduzione Stefano Chiapello.

Flea è un musicista e attore nato in Australia e cresciuto in America. È conosciuto come bassista e cofondatore dei Red Hot Chili Peppers. Da ricordate che è anche il fondatore del Silverlake Conservatory of Music.

Source: richiesto all’editore. Grazie all’ ufficio stampa HaperCollins

:: La libraia di Auschwitz di Dita Kraus (Newton compton 2021) a cura di Giulietta Iannone

26 Maggio 2021

A soli tredici anni Dita viene deportata ad Auschwitz insieme alla madre e rinchiusa nel settore denominato Campo per famiglie (tenuto in piedi dalle SS per dimostrare al resto del mondo che quello non fosse un campo di sterminio): quello che conteneva il Blocco 31, supervisionato dal famigerato “Angelo della morte”, il dottor Mengele. Qui Dita accetta di prendersi cura di alcuni libri contrabbandati dai prigionieri. Si tratta di un incarico pericoloso, perché gli aguzzini delle SS non esiterebbero a punirla duramente, una volta scoperta. Dita descrive con parole di una straordinaria forza e senza mezzi termini le condizioni dei campi di concentramento, i soprusi, la paura e le prevaricazioni a cui erano sottoposti tutti i giorni gli internati. Racconta di come decise di diventare la custode di pochi preziosissimi libri: uno straordinario simbolo di speranza, nel momento più buio dell’umanità. Bellissime e commoventi, infine, le pagine sulla liberazione dei campi e del suo incontro casuale con Otto B Kraus, divenuto suo marito dopo la guerra. Parte della storia di Dita è stata raccontata in forma romanzata nel bestseller internazionale “La biblioteca più piccola del mondo”, di Antonio Iturbe, ma finalmente possiamo conoscerla per intero, dalla sua vera voce. La vera storia di Dita Kraus, la giovanissima bibliotecaria di Auschwitz, diventata un simbolo della ribellione, finalmente raccontata da lei stessa.

Otto e Dita Kraus, marito e moglie, entrambi insegnanti e scrittori, sono tra i pochi sopravvissuti ad Auschwitz. Già basta questa semplice frase per capire l’importanza e il valore di testimonianza dei loro scritti. Otto Kraus è noto per il romanzo Il maestro di Auschwitz ispirato alla sua esperienza nel campo di sterminio, mentre il libro edito quest’anno da Newton compton, La libraia di Auschwitz, scritto dalla moglie Dita Kraus non è un romanzo ma una vera autobiografia, più vicina alla saggistica che alla fiction. Dita nel suo libro, diviso in tre parti, ci parla nella prima parte della sua infanzia, della sua famiglia, dell’amore per i libri maturato in una famiglia intellettualmente vivace di socialisti cecoslovacchi che dava grande importanza all’istruzione, anche femminile; nella seconda parte ci parla del suo internamento ad Auschwitz; e nella terza della sua vita dopo la liberazione. Quello che colpisce di questo libro è l’assoluta mancanza di artifici retorici. Il volume è infatti caratterizato da una scrittura semplice, piana, diretta, frasi brevi ed essenziali che narrano un vissuto senza la volontà nè di commuovere nè di stupire. Dita ci narra semplicemente se stessa, con grande dovizia di particolari semplici, umili, quotidiani. Il linguaggio stesso è quotidiano, normale. E quando commuove, perchè ci sono frasi che colpiscono nel profondo, quasi non se ne accorge e con levità e grazia passa oltre. Se il cuore del libro è senz’altro la seconda parte dove viene narrato il periodo di internamento prima nel ghetto e campo di concentramento di Terezin, poi ad Auschwitz, poi in altri campi di lavoro in Germania, quello che mi ha davvero colpito, il vero messaggio del suo libro è il grande valore e l’importanza che ha l’educazione dei bambini e ragazzi. Quando le leggi razziali vietarono ai bambini e ragazzi ebrei di frequentare le scuole fortunosamente i genitori cercarono di far proseguire le lezioni in forma clandestina, fin quando era possibile, fino dentro ad Auschwitz stesso, come testimonia anche Otto Kraus nel suo romanzo, per cui non trovo fuori posto il titolo italiano dato al libro, (l’originale è A Delayed Life) sebbene nella realtà la parte dedicata a questa piccolissima biblioteca clandestina all’interno di Auschwitz sia molto limitata, giusto un accenno, ma significativo e importante. L’importanza dei libri, dell’educazione è fondamentale in qualsiasi circostanza, anche nei terribili frangenti che visse Dita tra persecuzioni, internamento, e lavori forzati. Il messaggio di questo libro quindi trascende il personale vissuto e si proietta oltre facendoci capire l’importanza di coloro che si dedicano all’insegnamento e alla cura dei più piccoli (i veri eroi di Auschwitz come li definisce l’autrice). Ne consiglio la lettura, specialmente nelle scuole, e a tutti coloro che vogliono conoscere meglio e più da vicino cosa fu l’Olocausto e che portata ebbe nelle vite di tante persone e famiglie. Traduzione di Laura Miccoli.

Dita Kraus nata a Praga nel 1929, è una soprav­vissuta all’Olocausto ed è la vera bi­bliotecaria di Auschwitz. Dopo la morte del marito Otto Kraus, autore di Il maestro di Auschwitz, avvenuta nel 2000, ha continuato la sua impor­tante opera di diffusione della verità. Vive in Israele.

Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Antonella dell’Ufficio stampa Newton Comptron.

Il tramonto birmano. La mia vita da principessa Shan di Inge Sargent (Add Editore, 2016) a cura di Maria Anna Cingolo

20 ottobre 2018

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Quando nel 1953 Inge arriva a Rangoon insieme a Sao non immagina neanche lontanamente che il bel giovane conosciuto in Colorado e suo neo-sposo sia un principe Shan. In queste bellissime pagine edite da Add Editore, Inge racconta in terza persona gli anni in cui è diventata Thusandi, Mahadevi di Hsipaw, e, mettendo a nudo il bianco e il nero dei suoi sentimenti, meticolosamente ridà vita alle sue memorie più care.

Gli Shan rappresentano una minoranza nell’Unione Birmana e sono governati da prìncipi ereditari con poteri feudali. Sao Kya Seng, principe di Hsipaw, è un liberale e, dopo il soggiorno di studio negli Stati Uniti come ingegnere minerario, in lui si accende il desiderio di trasformare democraticamente gli Stati Shan. Non sopporta di avere un potere assoluto sui suoi sudditi, le riverenze alla sua presenza lo affliggono, vuole trasformare l’agricoltura e creare un’industria mineraria shan. 

Gli Shan avevano diritto di esprimersi e di prendere parte alle decisioni che riguardavano la loro vita. E lui era deciso a dare loro quest’opportunità.

Per queste ragioni e per il suo governo illuminato, il popolo shan ama moltissimo il suo principe ed è pronto ad amare con la stessa forza la sua principessa austriaca. Sposando Sao e andando a vivere nel nord dell’Unione Birmana, Inge rivoluziona completamente la sua vita: deve governare un Paese, rispettare le responsabilità e i doveri di una principessa, imparare tradizioni e lingue totalmente diverse dalle proprie. Eppure Thusandi non fugge spaventata, decide di restare accanto all’uomo che ama e proprio da questo suo amore prende forza ogni volta che sente la terra tremare sotto i suoi piedi.

Quando si guardò nello specchio a tre ante, Thusandi stentò a riconoscersi. L’abito rosa, giallo e bianco, fittamente ricamato con l’emblema del pavone d’oro, avvolgeva la sua figura alta e sottile. La fusciacca rosa e la collana di diamanti incastonati in oro riprendevano il motivo del pavone. I lunghi capelli castani, raccolti nella pettinatura tradizionale di corte, le facevano da corona naturale, cui davano risalto un pettinino tempestato di diamanti e un solitario di cinque carati. Il luccichio degli orecchini, dei braccialetti e degli anelli di diamanti dava il tocco finale a quell’immagine da libro illustrato. Thusandi si domandò sbigottita che cosa avesse in comune quell’apparizione esotica con la semplice ragazza austriaca che scalava le montagne e andava a scuola sulla bicicletta del padre.

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Inge diventa una vera principessa, la Mahadevi di Hsipaw, e si impegna a sfruttare la sua posizione privilegiata per dare forma ai progetti democratici del marito. Infatti, l’obiettivo numero uno di Thusandi è prendersi cura delle donne e dei bambini di Hsipaw e per realizzarlo la principessa fonda la Maternity and Child Welfare Society. Questa associazione assume il controllo della clinica poco attrezzata del Paese, rinnovandone le strutture e portando le proprie iniziative nelle strade dei villaggi. Grazie all’impegno di Thusandi il tasso di mortalità natale diminuisce radicalmente e le donne si sentono meno sole nei mesi precedenti e successivi al parto. Thusandi fonda anche una scuola trilingue, permettendo così l’educazione locale dei bambini shan, tra cui le sue due figlie.

Inge Sargent racconta una storia vera della quale chiunque sia a corrente delle vicende politiche dell’Unione Birmana conosce già il triste epilogo; chi non è informato sulla recente storia birmana può comunque percepire fin dalle prime pagine che tutti i colori della famiglia di Thusandi e di Sao sono destinati a sbiadire. Infatti, nel 1962 il generale marxista Ne Win si fa leader di un colpo di Stato e Sao è tra i numerosi prigionieri politici del reazionario regime di terrore.

Si maledisse per la sua cecità, per non aver capito che il Paese scivolava verso la dittatura militare. Se fosse stato più realista, se avesse capito meglio l’ambizione di Ne Win, ora non sarebbe stato in prigione. E l’angoscia per la moglie e per le figlie non l’avrebbe tormentato in quel modo. Non temeva per sé, il pensiero della tortura e della morte non lo preoccupava più. Ma se pensava al destino di Thusandi e delle figlie, si trovava a fare i conti con la disperazione più nera. 

Dopo due anni senza vedere Sao né avere sue notizie, Thusandi e le sue bambine riescono a lasciare l’Unione Birmana in viaggio verso un nuovo futuro, libere. Inge nel 1968 sposa Howard Sargent e sarà proprio il suo secondo marito a spronarla a raccontare in un libro la verità su Sao. Nella dedica di questa autobiografia si legge: “Questo libro è dedicato alla memoria di Sao Kya Seng, principe di Hsipaw”. Inge continua ancora oggi a cercare la verità sulla morte di Sao e ogni anno scrive al governo birmano perché ammetta di essere coinvolto nella sparizione del principe di Hsipaw. Ogni anno non riceve risposta ma non si è ancora data per vinta e leggendo Il tramonto birmano è chiara la motivazione di questa strenua resistenza: l’amore vero non conosce resa. Thusandi e Sao hanno vissuto una storia d’amore intensa e autentica, una relazione le cui fondamenta erano costituite da fiducia, rispetto e ascolto, oltre che da attrazione, passione e affetto.

Attraverso quest’autobiografia Inge Sargent racconta la sua scoperta dei colori, degli odori e dei sapori di un Paese tanto lontano e diverso dall’Occidente e mediante una narrazione in terza persona si pone sullo stesso livello del lettore, come lei occidentale e ignorante di tradizioni e costumi comunemente definiti “esotici”. Mano nella mano con chi legge, Inge per la prima volta gusta i migliori piatti shan, si avvicina al buddismo e alla meditazione, si diverte alla Festa dell’acqua, conosce da vicino leopardi e cobra; l’autrice ha però vissuto realmente ogni attimo descritto e ogni sensazione, dalla più piacevole a quella più dolorosa.

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Elisa Talentino impreziosisce l’edizione italiana attraverso bellissime tavole dal segno minimalista, illustrazioni di grande effetto che rendono con successo paesaggi e atmosfere birmane: decisamente un tocco in più alla grafica del libro.

Leggendo queste pagine così importanti per la storia birmana e per la diffusione della democrazia, conoscendo così da vicino la vita che Sao e Inge hanno vissuto insieme, è impossibile non lasciare una parte di sé a Hsipaw. 

Inge Eberhard Sargent nasce in Austria nel 1932. Negli anni Cinquanta grazie ad una borsa di studio si reca negli Stati Uniti dove conosce e sposa Sao Kya Seng senza sapere che è un principe regnante. La coppia si trasferisce a Hsipaw, capitale dell’omonimo Stato Shan in Birmania e ha due figlie. Nel 1962 il giorno del colpo di stato Sao viene fatto prigioniero e Inge perde completamente sue notizie. Due anni dopo lascia la Birmania e si trasferisce con le figlie negli Stati Uniti. Qui nel 1968 sposa Howard Sargent con il quale nel 1999 fonda un’organizzazione di soccorso per i profughi birmani, Burma Lifeline. L’anno successivo riceve il Premio Internazionale per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.

Source: libro comprato dal recensore.