Posts Tagged ‘recensione dei lettori’

:: Il figlio maschio, Giuseppina Torregrossa (Rizzoli, 2015) a cura di Rosy Franzò & Piero Pirosa

13 Maggio 2016
Torregrossa.-Il-figlio-maschio

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Sicilia, 1924. Don Turiddu Ciuni sente che la vita gli scappa via, e allora Che può fare un uomo per garantirsi l’eternità, se non passare il testimone al figlio maschio? Uomo forte e ruvido: Che tocca allo stesso modo il corpo di sua moglie e la terra del feudo di Testasecca, è legato alle tradizioni e avverso a qualsiasi innovazione, per non essere travolto dalla fiumana del progresso. Turi  è stato sempre convinto che “la terra … si sa, rende sani e forti” e, altresì, persuaso, sul letto di morte, che gli stenti e la fatica di un’intera esistenza “non gli pesavano quanto il tradimento della sua famiglia”. Ma a quale tradimento allude? A quello della moglie Concettina Russo, che figlia “d’allittrati ” e positivisticamente fiduciosa  in un riscatto dalla roba, dall’immobilismo isolano d’ancestrale fatalità, ha fatto studiare tutta la sua  numerosa progenie, ragazze comprese, strappandola ad  un destino già scritto.
La delusione più cocente, per il padre,  si rivela Filippo, il figlio erede di tutto il patrimonio: intelligente e bello, meritava un futuro migliore (…), le sue belle mani bianche non erano fatte per la zappa ma per la penna.
Inizia così la storia di cent’anni di editoria siciliana, che da Filippo Ciuni,  che pubblica, in pieno “ventennio”, nonostante egli fosse un editore fascista, Benedetto Croce, arriva alla realtà odierna dei librai-editori Cavallotto, guidata dalla signora Adalgisa  e dalle sue tre figlie.
E’ un romanzo che narra storie d’amore, di contrasti,  del tramonto di un modo di guardare e interpretare la vita e l’alba di un altro possibile, alternativo e, forse,  migliore. C’è un sottile filo rosso, un fil rouge  che percorre trasversalmente tutto il romanzo, il coraggio e la capacità di resistere dei personaggi femminili , veri attori,  apparentemente non protagonisti della storia, perché: I libri è vero che li pubblicano i maschi, e magari li scrivono pure loro, ma le storie le raccontano le femmine.
E’ una visione di una Sicilia intraprendente, imprenditoriale, libera e indipendente da quegli ominicchi e quaquaracquà  di sciasciana memoria, annidati nelle sicure stanze della burocrazia dello stato,   capace di farcela con le proprie forze umane ed economiche, “anni  luce” da quella  onirica  del principe  Fabrizio di Tomasi di Lampedusa: Il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare.
La Torregrossa racconta, con una scrittura ricca di espressioni dialettali, la sua Sicilia, e come il suo volto si è evoluto nell’arco di un secolo. La verde isola Trinacria, dove pasce il gregge del sole è sempre presente, protagonista, una tela che trasuda dei suoi profumi, della sua storia, della sua gente, pregna di contraddizioni, di pregiudizi, ambiguità e  miserie, eppure  capace di slanci improvvisi quanto isolati,  perché: Chi nasce qui è marchiato a fuoco per sempre. Questa terra, non può essere solo semplice ambientazione o effimero contorno.
La Sicilia assume una dimensione quasi  onirica e allora  come non essere d’accordo con Sciascia quando nel suo Candido scriveva: Sai cos’è la nostra vita? La tua e la mia? Un sogno fatto in Sicilia. Forse stiamo ancora lì, e stiamo sognando.

Giuseppina Torregrossa è nata a Palermo, vive tra la Sicilia e Roma, ha tre figli e un cane. Ha esordito nel 2007 con L’assaggiatrice, cui sono seguiti, tra gli altri, Il conto delle minne (2009), Manna e miele, ferro e fuoco (2011), Panza e prisenza (2013) e La miscela segreta di casa Olivares (2014).

Source: proprietà del lettore.

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:: Le streghe di Lenzavacche, Simona Lo Iacono (EO/2016) a cura di Rosy Franzò & Piero Pirosa

11 Maggio 2016
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La prima volta in cui ti vidi eri talmente imperfetto che pensai che nonna Tilde avesse ragione. Avrei dovuto mettere sotto la tua culla otto pugni di sale, bere acqua di pozzo e invocare le anime del purgatorio. Poi dire tre volte: Maria Santissima abbi pietà di lui, affidarti alle mani del primo angelo in volo e assicurarti al collo una catena della buona morte .

Così l’incipit dell’ultimo romanzo di Simona Lo Iacono, “Le streghe di Lenzavacche” (E/O edizioni), magistrato “prestato” all’arte della scrittura. L’autrice narra due storie che corrono parallelamente, anche se temporalmente si dipanano indipendentemente l’una dall’altra, apparentemente destinate a non incontrarsi tra di loro, che invece, attraverso un semplice meccanismo narrativo, diventano complementari e complici,  sapientemente raccontate su piani letterari perfettamente scorrevoli e intriganti.
Al primo approccio il lettore si trova dinanzi ad una architettura composita, ad un labirinto di personaggi e vicende umanamente complesse, dove  il valore funzionale  del singolo  è determinato e valorizzato dall’interagire, intersecarsi, scontrarsi, sovrapporsi con gli altri, all’interno di un tutt’uno, che dopo un iniziale  caotico mosaico,  troverà esplicitazione  nella linearità  di una  tragica  storia di solitudine, emarginazione, ignorante pregiudizio.
Con una costruzione narrativa intensa, appassionante, struggente, “condita” con raffinatezza poetica , l’autrice  ci conduce per mano  tra le stradine, le trazzere del piccolo e sperduto, borgo siciliano di Lenzavacche : Un piccolo centro che gravita intorno a una chiesa e a una piazza, sospeso fra mare e terra , nomen omen,  dicevano i Padri latini,  colorandolo qua e là,  con sapienti pennellate di un suggestivo “realismo magico”  meno ingenuo e spirituale di quello sudamericano, anni luce dal mondo fiabesco di Cent’anni di solitudine.
Corre l’anno 1938, l’Italia il sabato veste  alla “balilla”, i ragazzini cantano “Fischia il sasso” ed anche a Lenzavacche : Ululano le sirene che inneggiano al fascio. Ed è proprio in questa atmosfera oscurantista, che esalta  la teoria del darwinismo sociale, la purezza della razza, la forza, la prestanza fisica, la salute,  che dal ventre, sacro e profano, di mamma Rosalba,  nasce Felice, tra le fragranze dell’ ibiscus,  e le tisane di camomilla e cardamomo per il sonno, di aloe e valeriana per la fantasia,  di  nonna Tilde, esperta di erbe officinali di cui  ne conosce  i più reconditi  e oscuri segreti e principi curativi, “pioniera ante litteram” della  moderna fitoterapia.
In una famiglia matriarcale, declinata al femminile, Felice  vive  oggettivamente da  infelice o, come si dice oggi, con un sottile e perfido velo di ipocrisia, da “diversamente felice”. Un bambino malformato, punito dalla “fatal sorte”, destinato ad una eterna solitudine, ad una esistenza che nega qualsiasi speranza di riscatto umano piuttosto che sociale:

Ovunque si faceva il vuoto, Felice.  A qualsiasi orario rincorrevo per te la vita, e la vita fuggiva, si scansava lesta al tuo passaggio, era intuitiva e feroce, la vita, ti fiutava come una bestia pericolosa e – inesorabilmente – ti lasciava indietro(...)

eppure, come un piccolo Ulisse: (…) fatti non foste a viver come bruti (…),  è assetato di conoscenza, ama ascoltare le storie.
Il marchio del diverso, la “lettera scarlatta” della vergogna, nella società omologata del fascio littorio, lo seguono  come fedeli segugi, non solo perché deforme e senza parola, ma colpevole discendente di:

un gruppo di “streghe” del Seicento, che erano in realtà un gruppo di mogli abbandonate, donne gravide, figlie reiette o emarginate,  riunitesi in una casa ai bordi del paese e bruciate come seguaci del diavolo. Sono le “escluse”, “le dimenticate”, le “ultime” per eccellenza. Ma nel gruppo trovano forza, comprensione, condivisione. Iniziano quindi a vivere una esperienza comunitaria.

Ritorna in mente, lo stesso cupo clima di caccia alle streghe, di un grande romanzo  dei primi anni novanta, di Sebastiano Vassalli, La Chimera. Due donne a confronto, Antonia e Rosalba, “innocenti colpevoli” l’una per la propria bellezza, l’altra per la sua innata indipendenza, per essere una folle visionaria sognatrice:

La prudenza non si addice all’amore, è una nemica dell’improvvisazione, guasta lo slancio, la fantasia, la felicità,

e in mezzo? Un “popolino”, né buono né cattivo, solo ignorante e pericoloso, incline ad una pazzia collettiva, schiavo della sua superstizione  che ne condiziona il modo di pensare e di agire, che sfocia in un fanatismo religioso e di intolleranza culturale.
Tilde e Rosalba sono vittime di un  perfido antifemminismo che impone di fuggire la donna “arma del demonio, causa prima della nostra perdizione:

Sono tollerate la moglie che assicura la progenie, la madre che alleva i figli, la tessitrice operosa, la contadina instancabile, la vecchia fidata e silenziosa, la suora murata nella sua clausura… ma tutte le altre sono sospette, in particolare le giovani, belle e libere,  che suscitano odio e (…) inconfessabili desideri.

Con un “pizzico” di teatralità pirandelliana e il senso critico e illuminista di Manzoni, l’autrice “confeziona” un romanzo storico, dove finzione e verità si mescolano, si confondono, s’intrecciano in una favola dalla morale amara, dai contorni sfumati, meravigliosamente indistinguibili. La scrittrice entra nel romanzo,  ne prende parte, sceglie con chi stare perché ha la capacità di saper ascoltare, ode le strazianti   “urla del silenzio” di Felice,  di sua madre,  degli ultimi, i diseredati per antonomasia della Storia,  sente la loro voglia di vivere in pienezza, di conoscere, leggere storie….e allora, che fa? Semplice, gli dà voce, gli dona  metaforicamente  la parola, il potere della parola, per avere : (…) un’opportunità di riscatto, di raggiungere una conquista interiore, (…) per ribaltare il destino, contrapponendo lo spirito anarchico, libero da ipocriti e vili legami, delle “streghe”, a quello miseramente acritico, moralmente “bacchettone”,  della massa inerme, senza energia, senza vita, sottomessa alla imperante “comunicazione” del regime totalitario dell’epoca.
In una società dogmatica e autoreferenziale, che non contempla, disprezza, aborra la diversità e se potesse, ricorrerebbe al Monte Taigeto,  come metodo di selezione naturale per una razza superiore, non tutti “abbassano la testa”, ci  sono  “angeli umani”,  paladini di giustizia, che vanno al di là delle apparenze, che valorizzano  le più impensabili “variazioni della natura umana”, perché “risorse”, portatrici dei  valori universali di solidarietà,  accettazione dell’altro, amore verso il prossimo, che forse la “rivoluzione del cristianesimo” ha smarrito.
Ed ecco il  plot twist, che cambia la storia, che sovverte la rassegnazione, che imprime energia cinetica ad un mondo d’ancestrale staticità, fa sobbalzare il lettore, lo coglie di sorpresa: mamma Rosalba, mette la toga dell’avvocato, e va alla ricerca di una legge, mai applicata, che permette a Felice, figlio di un  “Dio minore”, di frequentare la scuola, seppure in classi “differenziali”, dandogli una chance, una seconda possibilità di riuscita.
Qui, la sua storia s’incrocia con quella di Alfredo, maestro elementare, che con l’allievo disabile arriva al numero minimo necessario per tenere la classe che altrimenti verrebbe cancellata:

E’ un incantatore: racconta storie per commuovere ed emozionare. Non vuole fare dei soldati, ma degli esseri pensanti, responsabili. Aiutare i piccoli a trovare la loro vera vocazione .

L’autrice crea un triangolo che funge da “protesi” per il bambino, al cui ultimo vertice colloca “U dutturi Mussumeli”, mente aperta, stravagante e libertino, capace di assaporare, succhiare  la vita fino al midollo, perché la: normalità è questione di postazione e varia a seconda della trincea dietro la quale ci acquattiamo.
Nel romanzo, la Lo Iacono dà un ruolo da protagonisti ai libri, alla letteratura: finestre sul mondo e farmaci per l’anima, per capire, conoscere, interpretare, tradurre, le innumerevoli e cangianti, sfaccettature della realtà: Coltivo questa idea oltraggiosa che la letteratura possa fungere da corazza, che sia la coltre dei cento nodi, il manto del re nudo.
Nel registro linguistico  passa  con “galateo letterario”  dall’io narrante all’epistola, ad una polifonia di voci, colonna sonora di una  storia dal retrogusto  apparentemente fiabesco, pregna di suoni, odori, colori mediterranei, mescolati  a  trame esoteriche, a leggende misteriose che si perdono nella notte dei tempi,  come i “cunti”,  lentamente declamati, nelle afose notti siciliane, da nonnine  eternamente ammantate a nero o da  vecchi saggi con la coppola, nei cortili, nei vicoli, nelle piazzette di una Sicilia che non c’è più.

Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970. Magistrato, presta servizio presso il tribunale di Catania. Ha pubblicato diversi racconti e vinto concorsi letterari di poesia e narrativa. Sul blog letterario Letteratitudine di Massimo Maugeri cura una rubrica che coniuga norma e parola, letteratura e diritto, dal nome “Letteratura è diritto, letteratura è vita”. Il suo primo romanzo, Tu non dici parole (Perrone 2008), ha vinto il premio Vittorini Opera prima. Nel 2010 le sono stati conferiti il Premio Internazionale Sicilia “Il Paladino” per la narrativa e il Premio Festival del talento città di Siracusa.
Nel 2011 ha pubblicato Stasera Anna dorme presto (Cavallo di Ferro), con cui ha vinto il premio Ninfa Galatea ed è stata finalista al Premio Città di Viagrande. Nel 2013, sempre per Cavallo di Ferro, ha pubblicato il romanzo Effatà, vincitore del Premio Martoglio e del premio Donna siciliana 2014 per la letteratura.
Attualmente conduce sul digitale terrestre un format letterario dal nome BUC, trasmissione che mescola al libro varie discipline artistiche, e cura sulla pagina culturale della Sicilia la rubrica letteraria “Scrittori allo specchio”. Presta inoltre servizio presso il carcere di Brucoli come volontaria, tenendo corsi di letteratura, scrittura e teatro, tutti mezzi artistici con i quali intende attuare il principio rieducativo della pena sancito dall’art 27 della Costituzione.

Source: proprietà del lettore.

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:: La Forma Fragile Del silenzio, di Fabio Ivan Pigola (Edizioni della Sera, 2016) a cura di Gabriella Volpini

28 aprile 2016
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Ho un figlio di quindici anni, al quale una cugina insegnante consiglia le letture. E’ stata lei a segnalarmi questo romanzo. “Pensa al Giovane Holden” mi dice, “ma più verosimile. Cioè gli togli i lunghi monologhi e gli innesti l’umorismo“. Il mondo che disegna l’autore, infatti, è un mondo di cui l’intima fragilità splende anche di fronte alla durezza degli uomini.

«Nel mio mondo di mali inferiori, non faccio in tempo a trovare le risposte che già cambiano le domande. L’ultima l’ho sentita gridare a vocali stracciate da Tea, mia sorella, ed era una sola parola: perché. Con i perché riempi l’infanzia, o spezzi la vita agli adulti».

Il protagonista del romanzo ha sedici anni, un mattino scopre che l’udito si riduce e non c’è modo di tornare indietro. Allora che fa? Si adopera per vedere la perdita di uno dei sensi non come una tragedia ma come un cambio d’uso. Sullo sfondo ci sono interni familiari e uno splendido lirismo urbano, situazioni plausibili e una scrittura così bella da mettere in imbarazzo. Su tutto pesa la consapevolezza che i suoni spariranno, eppure non c’è traccia di resa. C’è piuttosto la robusta volontà di trasformare il guaio in qualcosa che guaio non è. E poi la scuola, gli amici, la chitarra, i dispetti, la solitudine, la scoperta dell’amore, consegnate senza stereotipi, senza addobbi e inutili dettagli, perché il dettaglio lo mette la fantasia del lettore catturato in una grande storia. Una storia di conoscenza e di ricerca interiore del sé attraverso un handicap che non è dolore, ma forza ribelle.

Storie di dolore ne leggiamo ogni due per tre, storie di zucchero per aspiranti diabetici anche; qui invece è tutto diverso, nuovo, visto con uno sguardo chiaro e pulito, che porta con sé i suoni insieme ai colori, alle sensazioni, all’animo degli uomini. Ho dato il libro a mio figlio che all’inizio non voleva saperne. “Hai una band,” gli ho detto, “anche qui ce n’è una” e forse un po’ l’ho incuriosito. Mentre leggeva ho pensato a Ingmar Bergman, al senso della felicità presente nei suoi primi lavori da regista. L’allegria si muoveva tra disastri e conflitti, e case calde e accoglienti sembravano dire che la felicità si può portare addosso anche in mezzo al nulla, e ricordarla, registrarla, per non perderla mai. L’adolescenza è l’età in cui lo scopri davvero, per quanto complessi ed ambigui possano essere i rapporti con gli adulti (nel libro non mancano confronti, imbarazzi, metafore esilaranti e sonore pernacchie). Ebbene, nonostante ciò, la loro scoperta nell’opera di Pigola non è cupa né grave. La vicenda ha i toni di un’alba, perché fino a quando credi in un sogno il giorno è tutto da vivere, gli occhi hanno sguardi di stupore e mai di congedo.
A fine lettura, mio figlio è venuto a cercarmi. “Mamma” ha detto, “è bello come un film“. Poi mi ha abbracciata. L’ho stretto forte e lui ha ricambiato, dandomi tutta la forza che non so mai di avere. Con la mente cono andata a pagina 82:
«L’abbraccio è un nodo che stringi a braccia intorno alla vita di una persona, è un dialogo di cuori che battono l’uno nel petto dell’altro, è uno scambio di protezione dato coi visceri, di muscolo. L’abbraccio è quando cadi dal mondo e qualcuno ti tiene saldo sui piedi, fermando l’equilibrio sul sentimento (…). Per questo la Terra è una sfera bislunga, con milioni di nuvole per la testa: molti l’hanno abbracciata sul serio. L’abbondanza di falsi non l’ha ingannata né scalfita, si è lasciata plasmare dalla verità. Con un abbraccio puoi esprimere il trionfo o gettarti tranquillo nel sonno, là dove gli incubi sono vinti dall’unione, perché la paura è codarda e teme chi la affronta in maggioranza». 

Ci sono romanzi che cambiano la vita. Questo è uno dei pochi.

Fabio Ivan Pigola a Milano, è responsabile di “kultural.eu” e ghost writer letterario. Studioso di scienze sociali, politiche e storiche, ha pubblicato i saggi Emancipazione della Ragione (Eclettica Edizioni, 2015), e Lo Spazio Spirituale (Solfanelli, 2015).

Source: acquisto del lettore, dopo segnalazione dell’insegnante.

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