Archive for the ‘Racconti’ Category

:: Barbara, il lapillo di Dio di Daniela Distefano

14 dicembre 2025

Hai le braccia così sottili, mio Amato. Una riga di sangue si raggruma in un lago di detriti di pelle e terra. Ti tengo stretto il tronco, non arrivo su in cima, fino al capo che sembra un cesto di vimini da cui fuoriescono dense lave di plasma.  Le orecchie non odono più le dolci nenie materne, non parla più la tua bocca impastata d’oro candìto e profumata di nardo. I tuo occhi, che hanno trasmesso al Creato la dolcezza di Dio, sono serrati, gonfi, come conchiglie che nascondono una bellezza per me, per noi, ancora inaccessibile. I tuoi piedi, uno sull’altro, fissati con un chiodo che li trapassa e li contorce. Le tue guance, che non sono più, mio Amato. Le tue chiome, sbrindellate.. Perché mi sorridi allora? Perché? Come fai a vedermi, così ridotto? Piango di dolore dolce, di gioia di fuoco, di gratitudine.  Sono mesi che vivo in questo palazzo solitario, le giornate erano terribili all’inizio. Tremavo tutta, non passava mai il tempo, volevo compagnia, la mia mamma, i miei fratelli in Cristo, le mie sorelle in Cristo, la cara balia che mia ha nutrita da piccola.. Mio padre. Già, papà… Quanto scoraggiamento ho visto nelle sue pupille mano a mano che crescevo…Quanta esaltazione intorno alla bellezza di sua figlia, quanti guai potevo dargli….Meglio isolarmi dal mondo, meglio farmi perdere il contatto con gli essere fatui, scoraggiare i miei cari precettori cristiani…. Eccomi qui. Quanto lo ringrazio il mio babbo oggi che sono felice della sua scelta scellerata. Ci sei Tu con me, mio Amato. C’è la Tua Mamma. Ci sono tutti i vostri Amici, gli Angeli, Gli Arcangeli, e ogni giorno ringrazio Dio Padre di questo dono.                               

Al mattino mi sveglio prima della campana della chiesa, è lontana dalla Torre ma si ode distinta nei suoi rintocchi. Quanta pace assieme al cip di un uccellino che attende l’apertura della mia finestruola. Passeranno ore prima che venga qualcuno a portarmi il desco, qualche indumento, e i molti libri di scoraggiamento che attendo senza  trepidazione. Le ore della giornata sono scandite dalla preghiera incessante, continua, laboriosa. Da anni. Non ho mai pianto per me, questo carcere di lusso mi è stato foriero di grandi delizie. O Gesù Amato, mi hai rincorso, come rincorrevi sant’Agostino, e mi hai catturata come una farfalla. E adesso sono Tua, Tua e della Mamma del Cielo, Maria Santissima.

Amato mio Gesù, io perdono tutte le mattine e tutte le sere, perdono questo padre che mi ha tolto l’euforia della giovinezza per poi pentirsene. Non la rimpiango, la gaiezza spensierata non è  vera felicità. La vera felicità Signore siete Voi, Voi nella solitudine, Voi nel focolare, Voi in Cielo, Voi in Terra.                                         

Ed è un vero peccato per me non essere umile ancora come Te e la Mamma. Sono maldestra anche nelle mortificazioni, vado imparando da quello che mi arriva in briciole del Tuo immenso Amore. Non sono pronta per il Pane intero della Vita. Non credo al destino, perché il destino lo fai Tu. Allora dimmi, mio Re, unica sorgente di letizia sconfinata, come potrò oppormi ad un matrimonio che non voglio?                                                                                             

Perché questo corteo di scribi, filosofi, dotti di ogni risma invitati a distogliermi dalla mia Fede, Dono di Dio? Avverto concitazione, voci, sussurri, e poi urla. E’ pazza!!! Io sono il suo padrone e farà quello che le dico! O mio Amato Gesù, è appena iniziato il mio calvario. Ero già fuggita in un bosco per sottrarmi alla sua volontà, fu allora che feci la mia consacrazione.

Non farà che avvicinarmi ancora di più a Te, adesso sono davvero in catene. Condotta come <<pecora al macello>>.

Gli angeli mi districano i boccoli, pronti per fare spazio alla lama, quando avverrà il mio giorno. Adesso supplizi, minacce, torture, adesso la Mamma del Cielo spalanca la Porta del Paradiso al mio futuro.

Conto le ore, nessuno mi tiene più legata a questo mondo, i compagni di preghiera piangono lacrime di dolore, sanno che non mi rivedranno più. Mi rende triste la sofferenza del prossimo, eppure mai sono stata così riconciliata con la vita mia.

Ho dovuto lottare contro le tentazioni della carne, quanta pazienza hai avuto di me Signore. Non hanno vinto, erano nani del mio intelletto venuti a mettere in subbuglio l’anima già rivolta al suo Padrone come cosa interamente Sua. Poi è giunta la tentazione contro la fede, più forte. Il prefetto mi ha interrogata a lungo, fino allo sfinimento, ero esausta nel vederlo snervato. La sentenza brutale alla fine del mancato comprendonio: devo essere eliminata. Così il Calice è colmo, e l’Angelo è qui con me mentre lo bevo.

Amato mio Gesù, un ultimo sforzo e non sono più. Mi hanno tagliato le mammelle, sono una capra senza latte.

Non ho più i vestiti, mi fanno camminare nuda per le vie cittadine, e non sono ancora sazi.

Così è arrivata la spada sul mio collo, fredda, asettica, un attimo di circostanza ed un fulmine per lui che stava a guardare. Padre e figlia, lui giù, io su beata tra nuvole, canti, inni e meraviglie. Il perdono ma anche la giustizia. Poi la memoria e tutto il male in un oblìo eterno.

“In un lago di baci,

Ti ho incontrato mio Gesù;

Li raccolgo col secchio della Tua infinita pazienza.

Mi sono dissetata del Candore di Maria,

oggi sono pronta per volare via nell’Eterno.

Non solo fuoco stavolta, ma rugiada d’Amore

nel vederVi, adorarVi, benedirVi, lodarVi, ringraziarVi

di tutto cuore”.

:: Profumi di Daniela Barone

14 dicembre 2025

Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l’aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente. Non c’è modo di opporvisi.’

Patrick Süskind

Il primo ricordo olfattivo è quello dei salumi e delle grosse provole di una botteghina di San Giovanni Rotondo vicino al Santuario di Padre Pio. Non avevo ancora compiuto tre anni ma l’urgenza del lungo viaggio fu dettata dalla malattia della mamma che vedeva nel frate la soluzione ai suoi problemi. In realtà le  fobie di mia madre avrebbero necessitato piuttosto di uno psichiatra ma papà aveva voluto accontentarla.  Quel viaggio si rivelò un fiasco: il fraticello con le stigmate fu duro con lei al punto di cacciarla dal confessionale, apprendendo che lei non partecipava mai alla messa domenicale per la sua salute cagionevole.

   Un altro odore vivido nella mia memoria è legato ai detersivi usati dalla mamma per pulire i pavimenti, in particolare quello penetrante dell’ammoniaca. A nulla servivano le mie rimostranze: per lei era un’azione imprescindibile usare quei detergenti che mi costringevano a trovare riparo nella mia stanzetta.

   Che dire però del profumo inebriante dei petali di rosa a maggio, quando lei comprava da una contadina quei fiori per farne uno sciroppo denso e soave? La casa era pervasa da quell’odore dolciastro ma soprattutto dalle sue chiacchiere allegre: non era facile rendere contenta la mamma, sempre assorta in chissà quali pensieri, talvolta addirittura incupita. Anche papà era coinvolto nelle operazioni di selezione dei petali e di bollitura del liquido rosa che gorgogliava nelle pentole: una vera festa per le orecchie e le narici.

   Della mia infanzia ricordo anche l’odore del sapone di Marsiglia che la bisnonna Giuditta adoperava per lavare montagne di bucato a casa nostra. Veniva da noi per dare  una mano alla mamma, perennemente e misteriosamente ammalata. Per tenermi occupata era sufficiente darmi una pezza o un fazzolettino che io insaponavo con energia nel tentativo d’imitarla, in piedi sopra uno sgabellino traballante che mi permetteva di arrivare al grande lavello di marmo.

   Il profumo che più mi ricorda mia madre  resta però quello del ragù domenicale. Ancora nel dormiveglia percepivo il buon odore del sugo che preparava diligentemente in pentole rigorosamente di terracotta. Non si staccava mai dai fornelli e disapprovava le vicine che, casalinghe come lei, si distraevano talvolta con altre faccende facendo attaccare i pezzetti di carne  al fondo delle pignatte.

   Quando ero ammalata, la mamma mi preparava un delizioso purè di patate che emanava l’odore del burro mescolato in abbondanza al composto. Ancora oggi, quando sono indisposta o malinconica, amo prepararmi questo cibo perché mi fa sentire  coccolata.

   A volte mi domando quali profumi evocherò ai miei figli e ai nipotini quando non sarò più con loro. Sicuramente  si ricorderanno del buon odore del mio pesto ma non riuscirò mai a competere con mia madre, maestra di ragù, frittelle di fiori di zucca e polpettoni.

   Pur trascurando la sua persona, forse per un voto, la mamma non sapeva però resistere alle eau de parfum: qualunque fragranza la conquistava, purché fresca e leggera; se ne metteva in gran quantità, incurante dei rimbrotti di papà. A me piaceva vederla contenta come una bambina, tanto rari erano i momenti gioiosi nella sua vita.

  Rimane poi impresso nella mia memoria l’odore penetrante del detergente che usavo per lavare Francesco, il mio primogenito. Che gioia è tuttora legata al ricordo dei primi bagnetti impacciati nel lavabo del bagno a poche settimane dalla sua nascita!

Le estati trascorse nella casa di montagna con i tre figli piccoli mi fanno tornare alla mente il profumo dell’erba appena tagliata, l’odore del letame delle mucche condotte ogni mattina al pascolo e quello dell’acqua un po’ stagnante delle vasche delle trote pescate con gran divertimento. A volte un pastore passava da casa nostra con un cestello di latte appena munto che facevo bollire per i miei bambini. Quest’odore  mi ricorda il latte che bevevo a colazione alle elementari e i dolori alla pancia che inevitabilmente mi affliggevano. Inutile far notare alla mamma che non digerivo questa bevanda: per lei era l’unico alimento che si poteva dare ad una figlia per colazione, punto e basta. 

   Nuove esperienze olfattive segnarono gli anni della maturità e il secondo matrimonio con Dave.  Lui era curiosamente uno chef, o almeno lo era stato quando viveva in Canada, e se ne faceva un gran vanto. Di lui i miei figli ricordano ogni tanto il profumo dei panzerotti domenicali ma null’altro: quasi nessun cibo potè allietare i nostri pasti, appesanti dai suoi grevi silenzi, o peggio ancora, dalle sue sfuriate.

   Dopo la morte della mamma papà venne a vivere da me. Malandato nei suoi novant’anni, invase la mia tranquilla vita di donna oramai sola con i miasmi dei suoi pannoloni. Non bastavano deodoranti, né finestre spalancate anche in pieno inverno, a dissipare quel fetore. Povero papà. Oggi in me prevale però il ricordo del profumo del suo dopobarba, quando negli suoi ultimi giorni lo radevo e cospargevo il suo viso emaciato di quella lozione odorosa e lenitiva.

   Mi piace infine ricordare l’ondata di profumi di spezie mai conosciute che mi accolse al mio arrivo in India lo scorso anno. La guida locale mi cinse di una corona aulente di fiori gialli, rossi e arancioni; percepii poi l’odore di cardamomo, cannella, vaniglia, e di chissà quali altri aromi indecifrabili. Fu un’esperienza intensa anche sentire gli effluvi vagamente sgradevoli emanati da elefanti e scimmiette onnipresenti e forse, da centinaia di indiani nel brulicare del traffico caotico di Delhi. Davanti al Taj Mahal odorai tanti fiori rigogliosi e immaginai l’imperatore Shah Jahan mentre deponeva delicati boccioli sulla tomba dell’amatissima sposa. I fiori sono soprattutto consolazione per noi viventi che amiamo portarli al cimitero dai nostri cari. Io metto spesso tulipani gialli sul loculo della  mamma, sapendo quanto amasse quel colore. Saranno gialli anche i pochi fiori che vorrò al mio funerale: gialli come la stanzetta di Van Gogh, come il mio piccolo sofà, come il sole sghembo che disegnavo nei quaderni di prima elementare.

:: Racconto di Natale – Shanmei

12 dicembre 2025

È la Vigilia di Natale e il Generale Luigi Bianchi scende in cantina per prendere una bottiglia di vino, di quello buono da accompagnare all’arrosto della Vigilia, un giramento di testa e sviene, e si trova catapultato nel passato, in un altro Natale lontano, in Cina con la sua Mei e i suoi figli. Quando rinviene, turbato e infreddolito torna su e si cambia per il pranzo… inizia così un racconto nostalgico e lontano che cercherà di catturare la magia del Natale.

Ben tornato Luigi Bianchi, anche se questo forse ormai è un addio.

In prenotazione, esce il 24 dicembre.

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:: Faccia rumore di Daniela Barone

21 novembre 2025

Non dovete aver paura. L’isola è piena di questi sussurri, di dolci suoni, rumori, armonie, che non fanno alcun male, anzi dilettano.  ‘La Tempesta’  William Shakespeare

Il primo rumore che ho sentito deve essere stato il quieto fluire del liquido amniotico, la voce della mamma e ad un certo punto i sobbalzi dei suoi singhiozzi per la perdita improvvisa della madre.  Venni al mondo con la sofferenza materna fisica e morale per quell’evento infausto ma sono certa che i miei primi gorgoglii le portarono ben presto consolazione e gioia.

Sono sempre stata una bambina vivace che si dilettava a cantare a squarciagola le canzoni di Mina e Modugno, che faceva un gran rumore giocando con le pentole della mamma e ammirava le note melodiose del pianoforte della maestra Rita alla scuola materna. E che dire del suono dell’organo che ascoltavo nella chiesa dei frati di San Barnaba? Oltre a quella musica, mi incuriosiva il suono cantilenante delle litanie che i fedeli ripetevano per un tempo che a me pareva interminabile. Guardavo la mamma che con aria assorta recitava le invocazioni alla Madonna, e ogni volta mi domandavo come facesse a non stancarsi di quelle monotone e soporifere filastrocche. Di gran lunga preferivo il cigolio del macinacaffè di legno che mi dilettavo ad usare a  casa, il borbottio della vecchia moka sui fornelli della stufa economica e il cinguettio dei canarini che tenevamo in grandi gabbie appese alle pareti della cucina. Era anche piacevole il cincischio delle forbici di papà che tagliava i capelli a me e alla mamma. Zic, zac…. Lui era stato un parrucchiere da giovane e a lungo volle occuparsi delle nostre chiome e più tardi, di quelle dei miei tre bambini. Crescendo, ci rifiutammo tutti, ad eccezione della mamma, di usufruire dei suoi servizi e preferimmo rivolgerci a professionisti più aggiornati per non rischiare, con il peggiorare della sua vista, scale irrimediabili  o frangette improbabili.

Più grandicella, iniziai a detestare il rumore della lucidatrice che la mamma passava instancabile   sui pavimenti di graniglia alla genovese in tutta la casa, addirittura in camera da letto, dove papà stava riposando. Curiosamente lui continuava indisturbato il suo sonno, ronfando addirittura più fragorosamente del rumoroso elettrodomestico. All’epoca anche le lavatrici producevano suoni sordi, ronzii e vibrazioni insopportabili durante la centrifuga. Che ridere vedere la mamma che, nel tentativo di fermare la macchina che tendeva a spostarsi, vi appoggiava il suo sederone finché il ciclo non era terminato… Rumori antichi di un tempo passato ma mai dimenticati.

Molti anni dopo, ormai separata da mio marito, andai in vacanza in Grecia con un’amica d’infanzia. Nel visitare le rovine del Partenone e le Cariatidi dell’Acropoli assolata, fummo colpite dal frinire incessante delle cicale. Mai avevo udito un tale concerto ma mi auguravo di non vedere quegli insetti che m’incutevano timore e ribrezzo. Quanto preferivo le lucciole silenziose della mia infanzia, piccole e fugaci…

Proprio come me da piccola, i miei bambini facevano un gran schiamazzo nel parco giochi sotto casa. I pomeriggi primaverili a Pavia, quando il tempo cominciava a diventare più clemente, erano piacevolmente riempiti dalle loro grida, dalle risa e spesso dalle liti con gli amichetti.

Francesco, il maggiore dei miei figli, aveva iniziato a suonare il piano. Mai nessun vicino si era lamentato del suono imponente dello strumento, anzi, molti godevano delle sue prime strimpellate e più tardi dei brani eseguiti con maggior perizia. Che bello per me cantare le melodie di Battisti e De Andrè sulle note, a volte stonate, di quel pianoforte! Si creava fra noi un’armonia ed un’intimità che tanto avrei rimpianto negli anni a venire. Quel ragazzone che era venuto al mondo con un vagito debole, simile al belato di un agnellino, si era poi allontanato da casa per i dissidi nati con il mio secondo marito.  Come spesso accade, il tempo sanò questa ferita e il mio figliolo ritornò  da me, ormai libera da legami malati. Dopo anni, fu lui a diventare papà e a rallegrarmi con i discorsetti dei miei nipotini.  Oggi non c’è rumore più bello delle vocine di Luca, Leo e Cesare, figlio dell’ultimogenito, che comincia ora a dire le prime buffe frasette.

Dopo la morte della mamma, di cui ancora ricordo con pena i richiami lamentosi ai genitori scomparsi da decenni, dovetti prendermi cura di mio padre. Una notte fui svegliata dal rumore di martellate che provenivano dalla cucina. Sbigottita, vidi papà che alle tre del mattino era intento a riparare un paio di scarpe. Lo ricondussi irritata a letto, non capendo che il pover’uomo aveva ormai perso il senso del tempo.

L’anno dopo, triste e sola dopo la sua dipartita, arrivò il Covid.  Ad eccezione di alcune ore mattutine, segnate dalle voci squillanti dei miei alunni nella didattica a distanza, sprofondai come tutti in un silenzio angosciante. Le strade non riecheggiavano più dei rumori dei bus e di altri veicoli, deserte com’erano diventate. Anche le voci si erano ammutolite sotto le invadenti mascherine. Del resto, di cosa si poteva discorrere con qualcuno quando il terrore del contagio ci attanagliava e ci spingeva a rientrare presto nelle rassicuranti mura domestiche?

La primavera, incurante della pandemia, ci sorprese con i primi raggi tiepidi del sole. A poco a poco il silenzio inquietante dei cortili e delle vie venne interrotto, dapprima timidamente, dai canti allegri di chi, a finestre aperte, richiamava con un tacito appuntamento, amici e vicini di casa sempre alla stessa ora. Devo ammettere che non presi mai parte a quelle canzoni collettive, dubbiosa com’ero di un rapido ritorno alla normalità. ‘Andrà tutto bene!’ si leggeva su cartelloni appesi in qualche modo ai balconi. Ma come? Ogni giorno il gracchiare della tv ci informava di numeri sempre crescenti di nuovi casi, decessi, saturimetri e farmaci sperimentali dai nomi spaventosi. No, davvero non credevo che sarebbe andato tutto bene. Passavo le miei giornate in rapidi acquisti guardinghi al supermercato sotto casa e in passeggiate ‘illegali’ oltre il perimetro prescritto dai vari decreti. La campagna era diventata un’ amica per me che da sempre la detestavo. Portavo alle orecchie le cuffie che mi consentivano d’ascoltare gli audiolibri Ad Alta Voce di Ray Play Sound e mi addentravo nei sentierini desolati. Come una fuorilegge, m’inoltravo sempre più lontano da casa nella campagna dove nemmeno gli uccelli e gli animali selvatici osavano fare rumore. Mi fecero compagnia le voci amabili degli attori che recitavano in perfetta dizione dei brani de ‘Il Conte di Montecristo’ di Dumas, ‘La Peste’ di Camus e altri libri mai letti, rincuorandomi più di tanti inviti surreali all’ottimismo e alla ripresa.

Oggi, pensionata settantenne, sono tornata a vivere a Genova. Per ascoltare il rumore delle onde del mare devo arrivare a Voltri, dato che il porto con pile di container e gru mostruose ha preso il posto della spiaggia e degli stabilimenti balneari di quando ero bambina. Vale sempre la pena  di raggiungere le ultime spiagge rimaste dove ascoltare lo sciabordio del mare e i garriti dei gabbiani, sia in estate sia nella stagioni più fredde. Quando sono a casa, non ci sono i rumori dei figli o dei nipotini lontani ma solo il suono della musica o della televisione sempre accesa, come accadeva a casa dei miei vecchi genitori.  Sfortunatamente nessuno condivide il mio pianerottolo: c’è solo un appartamento sotto il mio che è abitato da una coppia della mia età.  Pochi giorni fa la moglie, da tempo ammalata di tumore, è scomparsa. Avrei dovuto capirlo dal silenzio, dalla posta accumulata nella cassetta da giorni. Stamattina, al ritorno da una vacanza, ho letto il necrologio e mi sono affrettata a lasciare alla loro porta un bigliettino di cordoglio. Poche ore dopo ho incontrato il marito e l’ho abbracciato con calore. Adesso, anche per lui, gli unici rumori di casa saranno quelli della tv e delle voci dei nipotini in visita. Mi ha raccontato del triste epilogo, di questa donna al suo fianco per cinquant’anni e ho provato pena per lui. Congedandosi frettolosamente da me sull’ascensore, mi ha detto a voce bassa: «Faccia rumore.»

Faccia rumore, ripeto fra me e me…  Poverino. In ‘Castelli di Sabbia’ Baricco scrive: ‘Anche se la vita fa un rumore d’inferno affilatevi le orecchie fino a quando arriverete a sentirla e allora tenetevela stretta, non lasciatela scappare più’.   Il rumore fa parte di noi, della vita. Guai a temerlo. Così è per il silenzio, implacabile ma necessario.

Daniela Barone è nata a Genova nel 1956 dove risiede tuttora. Ha insegnato inglese al Liceo Scientifico ‘N. Copernico’ di Pavia dove ha vissuto per trentacinque anni con la famiglia. Pensionata da cinque anni, si dedica alla scrittura, sua passione da quando era bambina, quando componeva semplici poesie per il giornalino scolastico. Ha sempre amato raccontare storie inventate alle coetanee o anche a se stessa, nei momenti di solitudine. Legge libri di saggistica ma soprattutto di narrativa. Ama scrivere storie sulla sua infanzia e sulle numerose esperienze di viaggio che la riportano comunque ai momenti salienti, spesso dolorosi, della sua vita. Oggi la sua vita è allietata anche dai figli, dai nipotini e dai viaggi.

:: Tradimento di Francesca Tuzzi

12 giugno 2025

No, non è come pensi. Non sto parlando di quella volta che A., in arte Sperminator, ha ben deciso di lasciare incinta una super cougar (ormai agli sgoccioli del suo periodo fertile), mentre stava con me. Da 7 anni, ma questo è un dettaglio.

E nemmeno di quando M., al momento di inaugurare con il botto la nostra carriera da professionisti, ha ben pensato di sostituirmi con un’altra partner. Me la sono trovata praticamente sulla mia soglia con le sue valigie, pronta a trasferirsi, mentre io, ignara, stavo preparando le mie per le agognate vacanze.

Vabbè, in entrambi i casi, sarebbe comunque finita, giusto? Io ero giovane e inesperta. Loro erano giovani e inesperti. Tranne la cougar, quella sì che aveva grande esperienza.

Non parlo di quel genere di tradimento. No. La mia emotional coach mi ha ordinato di riflettere su ciò che per me significa questa parola, dopo essermi recata da lei, sconvolta e schizzata, in seguito ad un potente burnout. Troppo lavoro, troppi impegni, troppa gente (e relativi problemi) con cui avere a che fare e…bam, KO.

“Che c’entra il tradimento?”, ti chiederai, e a ragione, visto che gli episodi di cui sopra sono accaduti, come ti dicevo, quando ero ancora giovincella, mentre adesso, foto profilo a testimonianza, sotto le meravigliose (e costosissime) meches biondo cenere, c’è più cenere che biondo.

Mi sa che devo chiarire un po’ di cose. Lo faccio più per me che per te, sappilo!

L., la mia emotional coach che, per inciso, è pure una competentissima naturopata, nonché amica, sostiene che il mio cane Y. manifesti comportamenti aggressivi, perché fin da piccolo si è sentito tradito.

“E che c’entra il tuo cane, ora?”, potresti (giustamente) chiederti.

C’entra c’entra, te l’assicuro.

Dunque, Y. è un cane che è giunto a me e al mio attuale compagno, dopo un sequestro di un furgone proveniente dall’Est, che conteneva una trentina di cuccioli destinati ad essere venduti al Sud con traffici illeciti. Tra la ventina di sopravvissuti c’era lui, piccolo bouledogue francese, magrolino, tutto occhioni e orecchie paraboliche e…figlio di Satana.

Da subito ci siamo accorti che gli piaceva mordicchiare. Me, in particolare. E crescendo, lo faceva con sempre maggior convinzione e con sguardo diabolico. Ho provato a dichiarare la mia preoccupazione a compagno, amici ed educatori cinofili vari, ma tutti minimizzavano ed io non riuscivo a provarlo, perché il demone stava sempre ben attento a non farsi sgamare.

Morale della favola: oggi, dopo 4 anni, la belva di 18 kg si è impossessata del divano e mi guarda beffarda quando, girando alla larga, mi dirigo verso la camera da letto, unico luogo in cui mi sento al sicuro e riesco a ricavarmi uno spazio per me e la mia privacy.

Non fraintendermi, lo amo. Tantissimo. Abbiamo i nostri momenti di assoluto affetto con coccole, bacini, carezzine e giochi. Però sono come una roulette russa: non sai mai quando arriva il momento di beccarti la pallottola. Nel dubbio, li faccio durare pochissimo. Poco e spesso, come i pasti ideali suggeriti dai nutrizionisti quotati (e anche da L.).

Insomma, tra una tenera leccata ed un morso imprevedibile, non contemplando le maniere forti come soluzione, ho optato per quelle che io stessa uso su di me quando c’è qualcosa che non va: L., per l’appunto.

Dopo vari tentativi, visto che il signorino non è così facilmente manipolabile (sia in senso fisico che mentale), siamo giunti a somministrargli i fiori di Bach, che con lui sembrano particolarmente efficaci. La situazione, da 2 anni a questa parte, è decisamente migliorata, anche se persistono ancora i momenti di aggressività in concomitanza con la pappa (sua e nostra) e con la nanna (guai a disturbarlo!).

Il lavoro su Y. è giunto ora ad una fase cruciale. E qui arriva lo spiegone sul tradimento. Senza svelarti i dettagliati retroscena e trucchi del mestiere di L., è emerso che in Y. perdura una memoria legata al momento in cui è stato separato dalla sua mamma, che di punto in bianco non l’ha più nutrito e, successivamente, le altre figure femminili subentrate sembrerebbe si siano rivelate particolarmente violente al momento di porgergli la ciotola. Questo spiegherebbe la sua avversione per il genere femminile, verso cui si fa tenero tenero in un primo approccio, ma poi, contestualmente ai pasti, subentra l’istinto e quel meccanismo atavico dell’“attacca o scappa”, che si attiva per paura (dice L.), presumibilmente di essere nuovamente tradito da chi dovrebbe, invece, nutrirlo. Una volta avrei detto: “valli a capire i cani”. Ma sai che oggi, quasi quasi, comincio a comprenderli…

Proprio per risolvere la paura di Y. del tradimento, L. ritiene che non sia casuale che questa parola abbia un significato pure per me. Conoscendo la mia storia (anzi, le mie storie), mi ha proposto di lavorare sulla stessa tematica contemporaneamente al mio cagnolino bipolare. Per puro spirito di sacrificio e di immolazione sull’altare dei martiri masochisti, ho acconsentito. Ed eccomi qui. Titubante. E già pentita. “Avresti potuto sottrarti con una scusa”, mi dirai. E ti pare che non l’ho fatto? Ti ricordi quando ti ho parlato del burnout? Quella era la scusa perfetta. Plausibilissima, tra l’altro, anche perché vera, reale. Insomma, dopo mesi in cui ho alternato, nell’ordine, febbri strane, mal di schiena paralizzante, afonia, ascesso all’incisivo inferiore e conseguente mascella stile Jigsaw, emorragia oculare, insonnia e aritmia notturna, sudorazione adolescenziale e sintomi violenti da premenopausa (non ti dico l’umore!) ho cominciato ad avere un leggero sospetto che qualcosa non andasse. Quando, dopo aver rallentato i ritmi di lavoro e cancellato qualche appuntamento, solo l’idea di aprire l’agenda per programmare il futuro (anche prossimo) o di ricevere una telefonata di un cliente mi faceva saltare come un giullare fuori dalla sua scatola, provocandomi tachicardia, ho realizzato che ero davvero satura. Figurati se, in condizioni del genere, potevo pure dedicarmi a rimestare il mio passato di tradimenti. Giammai. Semmai, avevo bisogno di un rimedio ad hoc per rimettermi in sesto. Con questo piglio, sconvolta e schizzata, come ti dicevo all’inizio, mi sono rivolta a L. che, puntualmente, mi ha riproposto la stessa soluzione. Niente lascia, solo raddoppia. Nel senso che, non solo mi tocca riflettere su questa cosa del tradimento, ma pure mi ha consigliato un preparato specifico che agisce proprio su questa informazione. Tutte le fortune!

Come vedi, ci sto girando intorno, ritardando il momento in cui giungere al punto.

Perché un punto non c’è. O meglio, non riesco a mettercelo. Solo virgole e tanti accapo. Forse ci starebbero bene dei punti e virgola, così da creare un elenco di elementi e situazioni che hanno una loro autonomia, ma che sono comunque legati (anche se talvolta non sembra).

Alla domanda: “Quali sono (o sono state) le situazioni in cui hai avuto a che fare con il tradimento?”, queste sono state le prime risposte che mi sono venute in mente:

  • A. e la cougar;
  • M. e la sostituta;
  • S. e la tipa con cui si è imboscato (facendosi beccare dalla sottoscritta) dietro il bancone del bar in cui stavamo festeggiando il mio compleanno;
  • Ex marito colto in flagrante dai miei mentre baciava una cara collega (e non sulla guancia);

Qui avrei potuto mettere quel famoso punto e invece…ancora punti e virgola. Perché non è solo questione di corna, a ben pensarci. E come una diga che non regge più e non vede l’ora di straripare, ecco che il mio subconscio comincia a vomitare innumerevoli altre occasioni in cui pure le amicizie non è che siano state poi così clementi. Per non parlare di colleghi, collaboratori e parenti.

Ma non basta. La cosa peggiore è che, a suon di riempire pagine e pagine con i nomi dei traditori, mi sono ritrovata a metterci l’unico nome che non avrei mai immaginato né voluto vedere scritto nero su bianco: il mio. Lettere cubitali e luminescenti come l’insegna al neon del peggior night club degli anni 90. Accidenti! (per non rischiare di essere scurrile, son pur sempre una signora…accidenti anche a questa parola, signora…argh!).

Davvero sono stata io la peggior traditrice? Ma di chi? Di me stessa, è ovvio. Io, che proprio perché ho subito in tenera età una grossa mazzata, mi ero ripromessa (croce sul cuore) di non tradire mai nessuno, perché il dolore inferto è atroce e chi mai si merita una pena così?

Mi chiederai: “Come l’hai scoperto? E in che modo hai tradito te stessa?”

Una risposta alla volta, porta pazienza.

L’ho scoperto grazie alla parabola del Demone Fankülizzatore, inventata da R., mio fratello d’anima, colui che mi appoggia, mi sostiene e mi vuole bene come nessun altro, uno dei pochi a non apparire nella lista. Insomma, secondo questa parabola, quando ti ritrovi all’interno di un gruppo di persone, ad un certo punto, dal nulla, sbuca il Demone Fankülizzatore, eterno vincitore, che istiga uno ad uno i componenti nel manifestare antipatia verso uno o più membri, fino a rendere l’aria pesante ed irrespirabile, spingendo il Fankülizzato (o i Fankülizzati) ad uscire dal gruppo (come Jack Frusciante), sempre che non venga cacciato prima. Poi il gioco riprende e ad ogni manche ci saranno delle esclusioni (come nei realities), finché rimane una sola persona a confronto con il Demone…e chi perde, secondo te? Ecco, ora hai capito come ci sono arrivata.  Quel perdente ero io. Sono io.

Riguardo ai modi in cui ho tradito me stessa, beh, ho iniziato presto, direi. Da che ho memoria, per accontentare gli adulti ed essere meritevole del loro amore, ho sempre acconsentito ad accettare senza discussioni le loro scelte, anche quando non mi rappresentavano per niente, anzi, non le sopportavo proprio! Stesso discorso nelle amicizie: per sentirmi considerata dalle mie compagne di classe o di danza, mi rendo conto solo ora di essermi resa piccola, perfino invisibile, o comunque non brillante o espansiva come avrei potuto. Chi mi conosce oggi stenta a credere che fossi una bimba silenziosa e timida…non è che sia cambiata, semplicemente ora non mi nascondo più. Non mi vergogno più.

Ho tradito me stessa tutte le volte che, tra la mia serenità e quella altrui, ho scelto la seconda, perché credevo realmente che questo mi avrebbe garantito anche la prima. Ho voltato le spalle alla me più essenziale quando ho evitato consapevolmente di ascoltare quella parte più profonda che mi implorava di seguire ciò che gonfiava il mio cuore di gioia e trionfo, solo perché il dimostrare umiltà è ciò che viene richiesto ad una brava signorina o perché il celebrare i propri successi genera invidia e l’invidia guasta i rapporti. Come quando, reduce dal divorzio, stavo ritrovando residui di amor proprio e pulviscolo di autostima e ho ben pensato di cacciarli sotto a un tappeto per non infastidire colei che ritenevo una fidata amica, la stessa che, quando smettevo di annaspare ed alzavo la testa grazie a qualche espressione talentuosa, mi liquidava ben poco amorevolmente con un “fly down”.

(Ancora mi chiedo come possa la mia felicità generare infelicità in chi mi sta accanto e dice di volermi bene. Boh? Hai qualche idea? Sai anche dirmi perché ci sia più piacere nel condividere i momenti di dolore che quelli di gioia? Se ti viene in mente qualcosa, dimmelo, ti prego).

E poi penso a tutte le volte in cui non mi sono difesa, o meglio, in cui non ho preso le difese di quella mia bambina interiore che veniva costantemente ferita da critiche e commenti sarcastici da chi, invece, avrei voluto che mi sostenesse o, semplicemente, amasse, anziché tentare di sminuirmi e spegnere la mia luce. Elemosinavo amore anche quando facevo i lavori di casa controvoglia e senza chiedere una mano, pensando che se non mi veniva data spontaneamente era perché l’altro non poteva farlo, aveva cose ben più importanti che richiedevano la sua attenzione.

Potrei davvero continuare all’infinito, ma siccome non mi piace piangermi addosso e, di solito, con la giusta dose di indignazione riesco a scrollarmi di dosso il pessimismo e fastidio ritornando ad essere simpatica perfino a me stessa, ti confesso un’illuminazione sul tema, sempre che ciò non ti annoi. No? Posso continuare, allora…

Se c’è una cosa che in questo preciso istante mi sale ribollente in superficie (come il caffè nella moka), è la preposizione semplice “di”, con funzione di complemento di specificazione. Sono sempre stata “qualcosa di…”, e qui inizia un altro elenco interessante:

  • amica di…;
  • cugina di…;
  • ragazza di…;
  • collega di…;
  • partner di…;
  • moglie di…;
  • figlia di… (evita qualsiasi battuta di dubbio gusto, per favore!)

Coltivo la speranza di combinare qualcosa di importante e di essere ricordata o citata semplicemente con il mio nome. Non voglio sembrare ingrata, ci mancherebbe. È che, una volta tanto, vorrei davvero potermi presentare con fare trionfante a quella bambina ferita e condividere con lei un successo, un risultato meritato, guadagnato, conquistato, con le mie sole forze. Sì, lo so, tutto ciò che siamo e facciamo lo dobbiamo a qualcun altro. Siamo costantemente interconnessi a tutto e a tutti, quindi è impossibile essere totalmente soli, nel bene e nel male. Eppure una piccola soddisfazione posso togliermela?

Non dici niente, quindi immagino tu sia d’accordo con me. Apprezzo la tua empatia, forse anche a te sarà capitato qualcosa di simile. Allora, condivido piacevolmente con te una scoperta. Ricercando l’etimologia della parola tradimento, ho trovato qualcosa di molto curioso: il termine deriva dal latino tradĕre, che significa consegnare, affidare, dare con fiducia. Il verbo è composto dalle particelle “tra-“, che significa oltre e “dăre”, che significa dare, per l’appunto. In origine, tradĕre indicava l’atto di consegnare qualcosa ad un’altra persona, ma il significato si è evoluto per includere il concetto di “tradire”, ovvero venire meno ad un impegno o a una fiducia. In particolare, il significato di “tradimento” si è sviluppato a partire dall’idea di consegnare qualcosa al nemico o di infedeltà ad un accordo. Questo significato è ancora presente nella lingua italiana, dove “tradimento” è utilizzato per indicare la rottura di una promessa, un dovere o una relazione di fiducia. 

Capisci? Tu dai il tuo cuore a qualcuno e questo se lo dimentica in un taschino e nel frattempo se ne va in giro a dare il suo a qualcun altro. Per dire! Oppure ci sputa sopra, lo calpesta, lo maltratta, come se non avesse valore. In tutto ciò, quello che più mi tocca è il discorso sulla fiducia. Eh sì, perché non è tanto il tradimento di per sé, quanto il fatto che poni la tua fiducia su una persona e, se vieni tradito, la fiducia se ne va in un istante, si svaluta e, cosa perfino peggiore, poi non riesci a concederla se non con estrema difficoltà e diffidenza a qualcun altro, che magari se la merita pure.

Posso sprecare fiato citando quegli aforismi che dicono che quando tradisci qualcuno, in realtà, vieni meno ad un patto con te stesso e che, se lo fai una volta nulla ti vieta di rifarlo, perché ormai hai capito che puoi sopravvivere (visto che sei tuttora vivo): so di traditori che li sussurrano all’orecchio dell’amante di turno o li rinfacciano ai traditi prima di venire accusati con tanto di prove inconfutabili (che, puntualmente, vengono negate).

No, quella della ragione non è una strada percorribile. Le ho tentate tutte, sai? La verità è che ci ho messo un po’ per capire, per perdonare (anche me stessa) e lasciar andare, ricucendo brandelli di cuore e dignità e cercando di ricamare le ferite con qualche filo di fiducia. Una sorta di Kintsugi emozionale, quella tecnica giapponese che rimette insieme i cocci incollandoli con l’oro. Ad essere onesta, la medicina più potente (almeno per me) è stata la gratitudine, ma non quella così per dire, quella vera, percepita nel profondo e dal profondo emersa ed espressa verbalmente o con i gesti. Quella mi ha riparato, sia nel senso di riaggiustato che di difeso. E adesso che ci penso, sto già meglio. Vedi, funziona ancora! Mi sento già un po’ meno sconvolta e schizzata.

Sai che c’è? Facciamo che ringrazio anche te per avermi prestato ascolto con le tue orecchie pelose. Per avermi fatto le fusa mentre mi lasciavo andare a queste confidenze.

Hey, ma dove stai andando? Ti ho perfino portato una ciotolina di latte e qualche croccantino, gatto ingrato! Non voltarmi le spalle mentre ti parlo…Argh!

Francesca Tuzzi, insegnante ed operatrice olistica, esperta di sciamanesimo hawaiano, tolteco, reiki, shiatsu, kinesiologia emozionale ed altre discipline olistiche. Autrice di numerosi saggi, poesie (in rima baciata e incrociata) e racconti brevi, tiene corsi e conferenze ed organizza eventi (nazionali ed internazionali) sulla coscienza collettiva e sul benessere a 360°. Ballerina, sognatrice e visionaria. Adora parlare, viaggiare e mangiare e talvolta riesce a far collimare tutte e tre le cose.

:: Rubagalline di Giulia Mammana

3 febbraio 2025

“Non ti vergogni, alla tua età, di fare ancora questi furtarelli?” Le aveva appena mostrato la refurtiva, facendola scivolare sul tavolo della cucina: qualche borsa firmata, un paio di gemelli d’argento, dei contanti per il valore di trecento euro.

“Guarda Gino, da lui dovresti prendere esempio”. Gino Russo, il capetto del quartiere da scarsi cinque anni, aveva fatto una scalata notevole. Da topo di appartamento a boss della microcriminalità di Parco San Felice. Correva voce che avesse stretto accordi con i Bonalumi per governare quella parte di città.

Perciò, quando ricevette una chiamata da Uccio Bonalumi in persona, Peppe lo considerò un segno del destino. Le stelle gli stavano offrendo un’opportunità di crescita professionale. “Sei Peppe Martelli?”

“In carne ed ossa”

“Ho un lavoro per te, se ti vuoi mettere in gioco”

“Di che si tratta?”

“Conosci Service Plus?” non aspettò che rispondesse “Quel pezzo di merda del gestore non ci vuole pagare. Gli abbiamo messo un paio di bombe ma bisogna fare di più. Fatti venire in mente qualcosa, va bene?”

Così si riunì col suo socio in affari, Mauro Gancitano, e insieme pianificarono di rubare un’ambulanza e, perché no, fare qualche danno serio. Quei macchinari costavano migliaia di euro. “Darà un segnale più incisivo” decisero.

L’ambulanza era sempre parcheggiata fuori dalla postazione del 118. Quella sera non c’era anima viva. Mauro si accostò con la macchina, Peppe scese e cominciò ad armeggiare con l’aggeggio per tagliare il block shaft. Ne aveva rubate di macchine. Quando finalmente riuscì a liberare il volante, Mauro scese dalla macchina per dargli una spintarella e dopo qualche minuto l’ambulanza partì. Mentre la portava in un posto sicuro, ai margini del borgo, Peppe era radioso. Era andato tutto liscio, più del previsto. Presto sua madre non si sarebbe più azzardata a chiamarlo rubagalline. Accostò in uno spiazzo abbandonato e Mauro, che l’aveva seguito a bordo della cinquecento, si piazzò lì accanto.

Spense il motore e prese il martello dalla sacca che si era portato dietro. Con estrema perizia, prese a vandalizzare uno ad uno i macchinari medici. Mentre si accaniva sull’armadietto delle medicine, il telefono squillò. Era il numero di sua madre. Interruppe il lavoro per rispondere.

“Mamma?”

“Lei è il figlio della signora Martelli?”

“Sì, sono io”

“Sono un paramedico. Sua madre ha avuto un infarto e abbiamo dovuto trasferirla in ospedale, in rianimazione. Mi dispiace molto. Se non ci avessero rubato un mezzo di soccorso stanotte saremmo potuti arrivare prima…”

Peppe riattaccò.

“Dobbiamo andare in ospedale” disse a Mauro

“Perchè?”

“Mia madre ha avuto un infarto”

“Cazzo..mi dispiace”

Si mise alla guida della cinquecento. Nella sua testa risuonava come un mantra la voce di sua madre: “Non sei altro che un rubagalline”.

Giulia Mammana è nata a Foggia nel 1989, da madre leccese e padre siciliano. Dopo la laurea alla University of St Andrews, ha vissuto da nomade tra Londra, Bruxelles, Milano e Cardiff. Ha lavorato come copywriter in tre lingue diverse, e oggi scrive racconti e poesie in italiano e in inglese. E’ appassionata di thrillers e mistery novels, che divora famelicamente.

:: Singularity, un racconto di Davide Mana

10 dicembre 2024

Cosa lega la fantascienza, l’uncinetto e un portale multimensionale? Un racconto che Davide Mana scrisse per la rivista “Shoreline of Infinity“, e che fu scelto per una prima scrematura nella long list per il BSFA Award, il premio che, annualmente, viene conferito dalla British Science Fiction Association. Chissà a quanti premi sarebbe stato candidato o avrebbe vinto in futuro? A volte si rimanda, e non si sa che non c’è più tempo, e la vita non ti permette di tornare indietro. Comunque il racconto è breve e divertente, un esempio dell’umorismo gentile con cui Davide giocava con le parole, con buona pace di Ayn Rand e del suo Atlas Shrugged. Se vi va leggetelo, lo si può fare ancora gratuitamente sul sito della rivista, ecco il link: Singularity. E se vi va il racconto è pubblicato in Shoreline of Infinity 19, disponibile in cartaceo e digitale.

:: Elogio del quotidiano di Francesco Affatato

14 ottobre 2024
Hic et nunc -Immagine a cura di Vittorio, dall’Agenzia di comunicazione Imperfect. Tutti i diritti riservati.

Molto spesso, nella frenesia odierna, siamo portati a non calcolare i piccoli piaceri che le sensazioni ci offrono nel quotidiano procedere nella nostra vita, ad esempio, quando siamo sotto le coperte per riposare o dormire la nostra mente, non essendosi abituata al rilassamento, ci ricorda occasioni mancate, episodi sfortunati della giornata o, peggio, a sfortune che assillano il globo terrestre (fame, povertà, negligenza dei capi di governo, negligenza di capi vari) o piacéri che ormai abbiamo perso con l’accellerare dei tempi, lasciandoci il giusto tempo di capire se abbiamo completato la toeletta serale o abbiamo svolto le nostre mansioni.

Invece il letto può offrirci, nella sua spigolosa vetustà (3500 a.C. in poi) tra le sue coperte leggere estive o tra i caldi coltroni invernali nei quali ci avvolgiamo, piaceri che ormai, con la cella reale dei tempi, abbiamo ormai perso. Come abbiamo perso il piacere di viaggiare, il quale è diventato ormai impossibile per i costi, viste le disastrose condizioni dei mezzi pubblici e l’appena eccessivo costo di quelli privati e quasi nessun aiuto statale, e lo stato di alcune strade. 

Il paesaggio naturale (fatta qualche eccezione) è capace di lasciarci ancora a bocca aperta, se lo vediamo con occhi tranquilli e sereni e non con la fretta che caratterizza ogni spostamento che compiamo per lavoro o vacanza che sia.

Il quotidiano sta proprio laddove l’azione si ripete: lo svitare una penna, il passarsi la mano tra i capelli, l’allacciarsi le scarpe, mangiarsi un panino, lo svegliarsi la mattina e sentire l’odore di te aromatizzato alla vaniglia, lambire con i polpastrelli questo foglio (il testo è scritto in origine su cartaceo). Ed avvertire l’inchiostro nero che ha impresso la stampante sopra, solo una piccola parte di tutte quelle cose che facciamo senza pensare, avvertire, percepire, sentire la loro importanza; il cervello per mantenersi vivo e attivo ha bisogno di molti stimoli, di cui noi siamo da sempre alla ricerca (nelle emozioni forti o, peggio, nelle sostanze stimolanti (come caffè alcol fumo droghe pesanti e pesantissime, che molto spesso portano a conseguenze disastrose) che qualora abusate, ci distolgono  dal coltivare i valori che riteniamo essenziali per la nostra realizzazione.

Per raggiungere il piacere duraturo dovremmo essere ingenuamente sensibili, in pratica avvertire a mente serena l’ambiente che ci circonda ignorando dolore, sofferenza e tutto ciò che veniva considerato “male dell’anima” in modo tale da percepire ogni sfumatura delle modalità di approccio verso gli oggetti e provare piacere e soddisfazione da ciò. 

Questo, purtroppo non è consentito dei tempi che sono diventati troppo frenetici e che, per assurdo,  ci siamo imposti con il tempo e con l’invenzione degli orologi.

Per carità, il tempo è importante, ma siamo troppo spesso concentrati dal prima o dal dopo dei singoli momenti, attimi di rispetto al durante di questi, che costituisce la inverita la vera quotidianità del nostro placido vivere giornaliero.

Un “haiku (componimento giapponese di breve lunghezza:

Sua dolce linfa,

tu assapori foglia.

Sembra lumaca.

Epicureo wannabe, Frankliano in divenire, Francesco Affatato ha già pubblicato su LiberiDi Scrivere.com un altro testo, Scorrere,  ed una sorta di poesia (?), Fuori dagli schemi. Ha sensazione di essere multipotenziale, multiplo  di 12, e multiproteico alla ricerca di situazioni che lo assaporino per bene. Musicista, factotum,  casalingo e babysitter, laureato in Giurisprudenza e basta (!?). Si serve del congiuntivo, dell’ottativo e di tempi e modi di dire, fare, baciare, lettera e testamentocrea e produce idee since 1998 (lui è degli anni ‘90). Gianni Rodari, Nazìm Hîkmet, Roal Dahl, 

:: Cover reveal: Racconti africani di Shanmei

3 luglio 2024

:: Watakushi di Shanmei

21 giugno 2024

La vidi per la prima volta un pomeriggio d’autunno. Stava camminando lungo il fiume Kamo, un tranquillo corso d’acqua dell’antica città di Kyoto. Tutto intorno a lei era quiete e immobilità, solo lei era movimento. Capii subito che nel mio ozioso pomeriggio qualcosa sarebbe successo.
Non doveva essere della zona. Lo capii dal modo che aveva di camminare, con quella disinvoltura che la distingueva come una straniera. Dal colore della pelle e dalla forma del viso capii che proveniva da qualche distretto del nord. C’ero stato parecchi anni prima e avevo incontrato donne molto simili a lei.
Sì, doveva provenire dal nord, ma il punto era cosa ci stava facendo li? Non sembrava impaziente. Né di fare qualcosa, né di incontrare qualcuno. Il suo viso era troppo disteso, e lo sguardo che seguii con particolar attenzione, era diretto in un punto imprecisato oltre il fiume.
Di cose bizzarre ne erano successe parecchie a Kyoto in quell’ultimo periodo, ma la presenza di quella ragazza mi metteva una strana inquietudine. Aveva in sé qualcosa di misterioso e indefinibile. Un segreto che portava chiuso sotto il suo soprabito chiaro abbottonato fin sotto il mento.
Dalla mia postazione, direi privilegiata, potevo osservare ogni cosa e dare l’aria di non farlo affatto. Comunque la curiosità per quella presenza cresceva e mi lasciava stranamente indispettito.
Poi ad un tratto, e sinceramente mi chiedo ancora oggi perché, la ragazza mi si avvicinò e mi chiese un’informazione.
Srotolò con le sue dita aggraziate e dalle unghie aguzze e laccate una cartina stradale e mi chiese perché le strade sulla carta non corrispondevano alla disposizione reale delle cose.
Aveva una voce melodiosa, un po’ squillante, e mi ricordò il suono delle campane del tempio delle sette rocce dove spesso mi ritiravo in meditazione quando i miei impegni me lo consentivano.
Pazientemente le feci notare che quella cartina era di quasi vent’anni prima e proprio in quel momento iniziò a piovere. Solitamente non colgo occasioni di questo genere per rendermi interessante con ragazze giovani come lei, ma come vi ho detto quel pomeriggio era speciale e poi la pioggia aveva iniziato a cadere proprio in quel momento come per un preciso disegno del destino.
Così la invitai a ripararsi sotto la tettoia di giunchi di una sala da té del parco di pini che circondava il fiume e le chiesi se potevo offrirle qualcosa per rinverdire le tradizioni di ospitalità di Kyoto.
La ragazza sorrise scettica. Non so forse trovava buffo me o forse dubitava che gli abitanti di Kyoto fossero gente ospitale, comunque accettò e ci sedemmo a un tavolo accanto a una vetrata rigata di pioggia.
Parlammo di cose senza senso, forse per mascherare l’imbarazzo che solitamente due sconosciuti provano seduti a un tavolo. Poi lentamente iniziammo a svelarci l’uno all’altra e iniziai a conoscere di lei cose sorprendenti quanto a dire il vero banali.
Scoprii che lavorava in una fabbrica e che aveva un permesso per andare a trovare un parente che presumibilmente viveva a Kyoto. Mi disse il nome di questa persona ma non ebbi la più pallida idea di chi fosse. Forse la smorfia che feci la indispettì e a un tratto divenne più sostenuta e remota.
Si scusò per aver accettato il mio invito, sostenendo che non era solita accettare inviti da sconosciuti, e me lo disse tra un sorso e l’altro di té increspando le labbra in quel caratteristico modo che le donne usano per farti capire che per loro vali molto meno di quanto credi.
Avrebbe dovuto non importarmene e invece me ne sentii ferito. Fu allora che nei suoi occhi vidi una luce strana. Tese una mano e la posò sulla mia con naturalezza come se volesse farmi capire di non darle troppa importanza. Come se volesse darmi il suo perdono.
Fuori la pioggia non dava cenno di voler smettere e più il tempo passava e più mi sentivo a disagio e quasi ridicolo. Mi chiese del mio lavoro, della mia vita, le risposi che non c’era niente di degno di nota. Ero un comunissimo essere umano, un tipico uomo d’affari come ce ne sono tanti, che si lasciava vivere accettando i giorni che arrivavano. Un uomo la cui mente, i ricordi erano pieni di camere di albergo anonime dove a volte avevo soggiornato anche solo una notte. Per la mia azienda, che a dire il vero rappresentava tutta la mia vita, giravo il paese in lungo e in largo, senza un luogo preciso che potessi definire veramente casa. Il senso di vuoto e di solitudine che a volte si prova in quella impercettibile ora del giorno, prima del tramonto, in un albergo sconosciuto, mi assalì come un irreale sussulto.
La malinconia di quella conversazione mi riportò alla mente la malinconia che mi infondeva il paesaggio là fuori oltre il vetro rigato di pioggia. Il fiume, il parco, gli alberi autunnali.
Quando smise di piovere cercammo assieme, camminando accanto senza sfiorarci sulle strade nere di pioggia, l’indirizzo che stava cercando. Scoprimmo che un tempo c’era stata una casa che ora era stata demolita dopo l’ultimo terremoto. La persona che vi viveva era un vecchio che l’assistenza pubblica aveva portato in un ricovero per anziani e da quel giorno non se ne era saputo più nulla.
Mi offrii di aiutarla a rintracciarlo ma lei rifiutò bruscamente, quasi offesa. Fu allora che percepii che quella ricerca era un banale espediente per attaccare discorso con me. La curiosità mi tornò ad assalire e si velò di timore. Mi disse che era sufficiente che l’accompagnassi alla fermata degli autobus. Il suo prossimo autobus sarebbe partito da lì a breve e quel suo invisibile e fantomatico parente l’avrebbe incontrato un’altra volta.
E così feci.
L’autobus lucente di acciaio e vetro arrivò in orario e la ragazza mi salutò. Mi strinse la mano con forza e per un attimo fui tentato di trattenere la sua nella mia, ma non lo feci. Avrei tanto voluto che restasse. Di colpo la solitudine mi assalì come il vento che si stava alzando e smuoveva le foglie rossastre sugli alberi intorno.
Lei capì che qualcosa era successo in quei pochi minuti di un giorno che è così poco nell’arco di una vita ma qualcosa di misterioso ebbe il sopravvento. Quel segreto che avevo percepito appena l’avevo vista ora ci divideva. Per sempre.
“E’ stato molto gentile Signor?”chiese con la sua voce tintinnante.
“Hideoschi Katsura” dissi stupito che il suono del mio nome mi sembrasse quello di un estraneo. Lei non mi disse il suo si limitò ad abbracciarmi e poi quasi correndo salì sull’autobus.
Rimasi immobile fissando il suo profilo dietro il vetro del finestrino. Come era bella e triste. L’autobus si mise in moto e io percepii uno strappo tra l’anima e il cuore. Mi sentii annegare, come se all’improvviso l’aria che mi circondava fosse diventata acqua.
Lei voltò il viso verso di me e dietro il vetro appannato vidi scivolare qualcosa di lucido. Dal gesto involontario che fece con la sua lunga mano bianca capii che era una lacrima.
Avrei voluto correre dietro l’autobus ma non lo feci. Rimasi immobile ancora molto dopo che l’autobus scomparve.
Mi mossi solo quando sentii nuova acqua sul mio viso. La pioggia aveva iniziato di nuovo a cadere e non era calda come lacrime. Era fredda e scura come un presentimento.
Forse ero io la persona che doveva incontrare. Forse era arrivata a Kyoto per me. Come potevo essere così importante per qualcuno? Mi sentii confuso e smarrito. Cosa potevo aver fatto per convincerla ad andarsene e fuggire via da me. Questo mi tormentava ancora di più che conoscere il vero motivo della sua visita. Sollevai il bavero della giacca e corsi verso la tettoia della sala da té. Ricercai il nostro tavolo, già perché ormai quel banalissimo tavolo dove chiunque poteva sedersi era diventato nostro, e trovai una lettera. Profumava di pioggia e di aghi di pino.
Era per me.
Mi sedetti e presi il plico tra le dita. Conteneva molti fogli di carta perlata anche se leggerissima. Cercai di ricordare quando era stata l’ultima volta che avevo ricevuto un lettera che non fosse una comunicazione di lavoro, ma mi persi, mi arresi. Non volevo sapere cosa c’era scritto su quei fogli. Sapevo che quella lettera conteneva lacrime.
Presi l’ombrello che avevo lasciato dietro il bancone e mi incamminai verso il fiume. Il cielo era basso e grigio. Gli alberi intorno erano sferzati dalla pioggia e i rami di un salice si incurvavano in lontananza sotto il vento.
Infine mi arresi alla curiosità e lessi la lettera. Forse per la prima volta vidi chiaramente nel profondo di me stesso. E ciò che vidi mi lasciò svuotato e debole. Lasciai cadere le pagine nel fiume e subito la pioggia ne disfece l’inchiostro. Poi lentamente la carta sparì sotto la superficie dell’acqua.
Ora sapevo il perché. Non c’erano più segreti o misteri e tutto era solo più triste. Mi incamminai verso il tempio delle sette rocce e lasciai fuori l’ombrello e le scarpe. Il lucido pavimento di legno cedeva sotto il mio peso. Raggiunsi il cortile interno e osservai la pioggia rimbalzare sulla ghiaia e le rocce. Un rastrello di legno era stato abbandonato, forse dimenticato, in un posto che non era il suo e di colpo mi sembrò così simile a me. Ero solo, inutile, forse disperato ma nello stesso tempo incredibilmente vivo.
Quella ragazza come un’ombra era passata nella mia vita mostrandomi cosa avrebbe potuto essere la mia vita se solo fossi stato capace tanto tempo prima di amare. Ma chi non lo sa fare come lo può imparare? Mi inginocchiai sui talloni e cercai di riportare il mio spirito alla calma. Pensai a quanta sofferenza avevo causato nella mia vita ma non seppi calcolarla. Seppi invece, con crudele certezza, che qualsiasi punizione non era sufficiente se non smettevo di giudicare me stesso il metro di tutte le cose.
Io,  l’uomo più inutile, il più solo, il più stanco. Un monaco mi si avvicinò e gentilmente mi fece notare che il tempio stava per essere chiuso al pubblico. Mi alzai e molto lentamente andai a raccogliere il rastrello incurante della pioggia e lo diedi al monaco che mi guardò smarrito. Mi inchinai in un profondo saluto e andai a riprendere il mio ombrello e le mie scarpe.
Mi incamminai verso il mio albergo e davanti all’ingresso non riuscii a proseguire. Ero paralizzato come se le mie membra fossero diventate di pietra e i miei piedi avessero messo radici.
La ragazza che avevo incontrato nel pomeriggio era arrivata a Kyoto per chiedermi spiegazioni e forse per vendicarsi del male che avevo fatto anni prima a suo padre. Già anni prima non davo grande valore al dolore altrui se poteva essermi di vantaggio. Ora suo padre era morto e lei voleva vedere in faccia l’uomo che l’aveva rovinato.
Sì, lo ricordavo. Era un uomo alto e mite, con sottili mani e uno sguardo sfuggente. Simile a molti altri con cui avevo avuto a che fare per le stesse ragioni. Ora il suo volto si confondeva nella mia memoria come un riflesso sull’acqua. Nella sua lettera mi aveva spiegato ogni cosa con semplicità, con agghiacciante efficienza. Però la sua vendetta non era stata consumata.
Forse anche lei aveva provato per me le strane sensazioni che avevo provato io per lei. Forse la rivedrò. Forse. E’ dolce pensare che potrò avere una seconda occasione per non perderla.
Come è strano l’amore. Venire a visitare un uomo come me, alla mia età. Una sensazione di pace mi invase e finalmente riuscii di nuovo a muovermi e a entrare nell’atrio dell’albergo malamente illuminato.

:: L’avvitatore di penne di Shanmei

17 giugno 2024

Tess era di nuovo ubriaca. Tess è mia madre e io sono un ragazzino di otto anni, per cui cercate di capirmi. Devo aiutarla a tirarsi giù dal letto e ad alzarsi e non è facile. Tess fa la cameriera al Choop Caffè di Memphis, una bettola per camionisti ma con la migliore torta di noci di tutto il Tennessee. Ha il turno che va dalle 6,30 alle 14,30 e io ho appena finito di preparare la colazione e sto armeggiando con la sua divisa verde ed azzurra. Tess ha i capelli biondo miele e una predilezione per i liquori forti. Non perché sia mia madre ma è molto carina. Ha tante buffe efelidi sotto gli occhi e le fossette quando ride. Sembrano mele rosse le sue guance. Carina com’è non capisco perché non riesca a tenersi un uomo. Ce ne sono sempre che le ronzano attorno ma tutto dura sempre poco. Ha un bel dire che io sono l’unico uomo della sua vita, io vorrei che si sistemasse. Così non può andare. Tutte le volte che la lasciano  lei  si rimette a bere ed è sempre la stessa storia.
Oggi ho compito in classe di matematica, sono un po’ preoccupato, qua a Memphis le scuole sono severe, non come a Chicago dove vivevamo prima. I miei compagni giravano armati per i corridoi ed erano pochi i maestri con il coraggio di dare insufficienze. Che pacchia era la scuola allora, bastava entrare nella gang giusta. Tess non voleva che entrassi in una gang, ma secondo voi, come ho fatto a sopravvivere 6 mesi al Jefferson. Striscio sotto il letto in cerca di una scarpa anatomica, di quelle per combattere la stanchezza, brutte ma buone, e gliele calzo. Quando la mollano beve e piange, non fa altro quando è a casa. Io le voglio bene certo, ma sono un po’ stufo, vorrei una madre che faccesse raid ai centri commerciali, e invece sono io che faccio la spesa; vorrei una madre che mi mandasse a letto senza cena, e invece sono io che cucino; almeno una madre che mi dicesse che guardo troppa tv e invece sono io a spegnere il video alle due di notte.
Comunque non mi lamento, viviamo in una roulotte, con tutti i confort, e giriamo il paese ogni volta che la licenziano. Vicino al mio letto ho una mappa dell’America e aggiungo bandierine in ogni stato che siamo stati, mi manca Kansas, Nevada, Alabama e Louisiana. Non male vero? Viaggiare non è male, il brutto sono le trafile burocratiche quando cambio scuola, tutti quei moduli da compilare ma sono necessari se non vogliamo che qualche assistente sociale mi porti via.
Poi c’è mio padre. E’ in galera, ne avrà per molto, comunque. L’ hanno beccato in uno stato dove non c’è la pena di morte così forse hanno tempo di capire che è solo un po’ stupido. E’ li da sei anni e faccio un po’ fatica a ricordarlo, ma ci scriviamo. Lui ha tanto tempo libero e a me piacciono le sue lettere. Vuole che gli mandi mie foto, così mi faccio delle polaroid e gliele spedisco. Vuole controllare il mio percorso di crescita, è preoccupato, e conoscendo Tess ha le sue buone ragioni. Finalmente è pronta, anche ubriaca è bellissima. L’accompagno fuori e le annodo l’impermeabile. Piove, fa freddo è inverno. Mi dà i soldi per la spesa e la saluto.
Presto lavorerò anche io. Ho letto su una rivista che mandano lavoro a domicilio. Avvitare e assemblare penne. Poi rileverò l’azienda e altri le avviteranno per me. Farò i soldi ed entrerò in politica. Diventerò governatore e poi presidente e allora farò emanare una legge che bandirà l’alcool da tutto il mondo. E sapete che farò a quelli che non seguono la mia legge? Gli farò avvitare penne.

:: Un colpo di magia by Shanmei

1 giugno 2024

Se solo mi ricordassi cosa viene dopo “abra

farei sparire l’intero pubblico

Harry Houdini

Fissate la mia mano. La velocità del vostro sguardo non supererà mai la velocità della mia mano, questo crea l’illusione e la magia. Perché ho scelto questo lavoro. Perché mi piacciono gli smoking, i cappelli a cilindro e il rullo di tamburi prima della grande esibizione. Mi piacciono i teatri, la gente in platea, gli sguardi dei bambini, le assistenti bellissime, i camerini odorosi di talco, il trucco sul viso, l’adrenalina che scorre nelle vene.

Sin da bambino ho capito che l’ illusione è la porta per i sogni, che la mente la si inganna come i sensi ma non la si offende.

La potenza delle mie magie sta nei tempi. Tutto deve essere fatto al momento giusto, tutto deve essere fatto per strabiliare, incantare, sorprendere, ammaliare. Io so farlo e mi amano.

Non sempre sono felice, è una vita triste la nostra, gli impresari non sempre sono onesti, il pubblico non sempre applaude, a volte il coniglio ti scappa dal cappello e corre in sala tra le sedie spaventato e furibondo.

Però ci sono volte che spruzzi di vera magia ti sorprendono e tu ti trovi a credere alle leggende. Ai fantasmi nascosti nel suggeritore, alle botole misteriose, ai vecchi maghi del passato che tornano per aiutarti.

Cos’è l’illusione se non un arcano piacere antico di avvicinare la realtà al nostro desiderio, di catturare le stelle. Dall’alba dei tempi l’uomo l’ ha capito e io ora su queste umili tavole mentre sego in due l’aria e metto gambe finte dall’altra parte della scatola. Già non si velano i trucchi. Forse ma io lo faccio a volte quando mi distraggo. Anche se è un delitto spiegare il mistero.

Ora passo una mano davanti al mio volto e sparisco.

Cadabra.