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:: Cristóvão Tezza, La caduta delle consonanti intervocaliche a cura di Giulietta Iannone

30 giugno 2022

Cristóvão Tezza, brasiliano, classe 1952, professore universitario, scrittore, ai più credo dirà poco o nulla, a meno che non siate amanti e cultori della letteratura latinoamericana, allora sì, tra quella nicchia ristretta e orgogliosa di appassionati di letteratura in lingua portoghese è un nome noto, stimato, autore di racconti brevi, romanzi (ben 14) e saggi le cui traduzioni si contano sulle dita di due mani, nel 2008 la Sperling & Kupfer portò avventurosamente in Italia O Filho Eterno, con traduzione di Maria Baiocchi. Il portoghese è una lingua difficile (quale lingua non lo è), non massivamente diffusa, ma affascinante. Una lingua letteraria, nata dallo spagnolo (proprio con la caduta delle consonanti intervocaliche), con cadenze genovesi (popoli marinari dopotutto). Una lingua che si presta al gioco filologico e Cristóvão Tezza sembra aver fatto sua questa filosofia di pensiero nel suo La caduta delle consonanti intervocaliche, l’ultimo romanzo in ordine cronologico da lui scritto, ormai nel 2014, e tradotto in italiano da Daniele Petruccioli (le cui soluzioni interpretative si susseguono brillanti e imprevedibili).

O Professor, titolo originale, ma il titolo italiano ancora meglio rispecchia lo spirito del libro, (un plauso per chi l’ha scelto), ci porta di peso, quasi voyeuristicamente, nella vita di un professore settantenne, anzi in un giorno della sua vita, (una manciata di ore ad essere pedantemente precisi) come tra l’altro la tradizione letteraria europea alta impone, quando si vuole sincopare tramite il flusso di coscienza un’ intera esistenza, come fece eroicamente Joyce o perché no, la nostra tanto amata Virginia Woolf.
Heliseu da Motta e Silva, professore brasiliano di filologia romanza, è il nostro eroe, o meglio antieroe, (in un noir meriterebbe di diritto questo ruolo) che in uno sfoggio narcisistico di autocompiaciuta arguzia si sveglia un mattino (assalito dalla catena delle angosce mattutine) e si prepara. Prepara un discorso da recitare (lui ormai in pensione) a una platea di colleghi (che lo disprezzano, o per lo più ridono alle sue spalle), in un anfiteatro universitario, per graziosamente accettare un’ onorificenza a lui attribuita che in un certo senso chiude in gloria la sua onorata carriera di studioso.
Quale occasione migliore per raggrumare il bilancio di una vita, al sicuro delle pareti della sua casa, (vegliato dalla fidata e materna dona Diva e dal suo rassicurante caffè del mattino, una delle tante attenzioni gentili di una domestica affezionata) dove poter scegliere a cosa dare risalto e cosa omettere, in un susseguirsi di riscritture mentali [Miei cari (no, non direi mai così; detto da me fa subito carnevalesco, una maschera alla Groucho Marx) (…) Amici miei (no; così è troppo invasivo) (…) Cari colleghi (nemmeno – c’è un che di possessivo, una piccola macchia)]. Ricostruendo quasi il proprio passato a misura della propria adattabile e selettiva (se non autoindulgente) memoria. Mônica aveva le gambe storte – no, di questo non parlerà, decise Heliseu. È irrilevante.

Se la vanità sembra in un primo tempo il suo peggior difetto, più della lussuria, dell’ egoismo, della megalomania (forse è anche un assassino) più ci si inoltra nel suo tessuto mentale, (solido come la storia della lingua portoghese che viene richiamata con preziosa naturalezza dalle tante citazioni in portoghese arcaico, intrecciate al testo, perfette se vogliamo, un gioco di costruzioni a incastro), più l’irritante spocchia che lo avvolge si stempera in autentica disperazione, in buia solitudine, in doloroso fallimento per una vita bruciata nel paradossale vuoto di significato. (Per lui un filologo, quale orrore). E allora sì è difficile non provare simpatia per questo imperfetto essere umano, e nello stesso tempo grandioso personaggio. Entrare nella mente e nella vita di Heliseu richiede tempo e pazienza, bisogna adeguarsi alla cadenza dei suoi pensieri, e provenendo dalla lettura di un romanzo diametralmente opposto in intenti e considerazioni, ho raggiunto questa sintonia un po’ oltre le prime pagine. Ma quando questo è capitato, allora la lettura si è rivelata preziosa, interessante, ricca.

Cosa scopriamo di Heliseu da Motta e Silva? Un reazionario, come ho origliato una volta in quella stessa sala caffè, nemmeno riesce a essere di destra. Lui che di politica non vuole occuparsi, attanagliato dalla noia mortale della politica brasiliana, che pretenderebbe opinioni e prese di posizione. Marito infedele, di Mônica (sempre compianta), unico suo vero amore (ma è davvero capace di amare il nostro Heliseu? Lui è la fatica mortale della vita di coppia), la cui tragica fine lo crocifigge dai sensi di colpa. Padre insolvente di un figlio, Eduardo, la cui omosessualità crea tra i due un abisso e una separazione da niente colmata (lui che ha l’eleganza di risparmiare al padre i dettagli).  Figlio di un padre per cui la cosa importante per un uomo è avere una buona giacca, spendibile in tutte le occasioni. Amante di Therèse, giovane, bella e ambiziosa dottoranda dall’accento e le lusinghe di molte francesine il cui fascino è pari alla loro disinvoltura.
Se la sua vita pubblica la sua carriera è smagliante e ricca di soddisfazioni, (vince i concorsi per eccesso di competenze), la sua vita intima e privata è un totale fallimento, una nerissima sconfitta, un doloroso vuoto. Ma questa frattura sembra non pesargli. La sua vanità (o più che altro conferma di sé) che lo fa attardare un attimo di troppo allo specchio, è l’unica fragile debolezza di un momento. E poi il sipario cala. Mai sapremo se pronuncerà quel discorso (ormai così asciugato da apparire uno scheletro, sublime artificio di retorica), o anche se solo uscirà dalla porta di casa. Come nel monologo di Molly Bloom, una sola frase chiude il romanzo. Tezza  sceglie: Sto bene. Come se a qualcuno importasse. Forse al lettore sì.

Questo romanzo meriterebbe ben altra analisi e una mia più profonda conoscenza della letteratura in lingua portoghese o della storia brasiliana, (quanti rimandi, allusioni, assonanze, ironiche frecciate mi sono perduta) ma non ostante la fallibilità di chi scrive, la bellezza del testo traspare con così tanta forza, che già solo una comprensione parziale è sufficiente ad apprezzarlo.

:: Criminali, Philippe Djian, (Voland, 2014) a cura di Giulietta Iannone

12 settembre 2014

indexPhilippe Djian può piacere o non piacere, è un autore che non conosce mezze misure.
Caustico, dissacrante, tagliente, politicamente scorretto, i suoi libri, non veri e propri noir, (anche se in senso lato, perchè no?) più che altro, storie sul male di vivere contemporaneo, lasciano sempre un’ eco di inquietudine e disillusione nei lettori. Io lo trovo un autore notevole, più che altro per il senso di autentica empatia che provo verso i suoi personaggi, sconfitti, falliti, incapaci di attraversare la vita senza riempirsi di piaghe e di ferite esistenziali. E la capacità di esprimere autenticità tramite una scrittura variegata e composita, volutamente letteraria, non è un pregio da poco.
Criminali (Criminels, 1996) rientra a pieno titolo tra i romanzi più neri di questo autore, che non sembra, perché lo fa con una certa leggerezza e immediatezza, ma è capace di ferire e di lasciare il lettore stordito e disorientato.
Tradotto da Daniele Petruccioli ed edito in Italia da Voland (in Francia sempre dalla storica Gallimard), secondo romanzo della trilogia Sainte-Bob che comprende anche “Assassini” (Voland 2012), “Sainte-Bob” in prossima pubblicazione sempre da Voland, Criminali ci porta di peso nella vita di Francis, cinquantenne appesantito da una serie di scelte più o meno consapevoli, più o meno libere.
Divorziato, con un figlio con cui non comunica, una compagna che rischierà di perdere, un fratello omosessuale, un padre malato d’Alzhaimer che deciderà di assistere in casa sua con ripercussioni impreviste, un lavoro che per problemi alla schiena è sempre sul punto di perdere perdendo anche la precaria stabilità economica, un gruppo di amici, non più psicologicamente solidi e realizzati di lui, un nemico contro il quale concentrerà tutto il suo odio e la sua frustrazione, insomma Francis ha una vita complicata, ed è o non è un criminale lo deciderete a fine lettura, quando l’irreparabile si compirà.
Stessa domanda si pone per gli altri personaggi. Sono o non sono criminali? Se lo sono lo sono di piccoli crimini, di tradimenti più che altro verso gli altri e soprattutto verso se stessi, forse solo in due casi, due soli personaggi compiranno davvero qualcosa che si può avvicinare a un delitto. Uno pagherà, l’altro non lo sapremo mai. Sono infatti i crimini senza punizione, quelli per cui non si va in galera, le disattenzioni, gli atti mancati, le piccole meschinità che incidono più a fondo nell’anima creando disagio e scurendo il male di vivere, l’esistenziale incapacità ad essere felici.
E’ un romanzo triste, malinconico, privo di certezze, ma nello stesso tempo sincero, e umanamente credibile. Djian non pone i suoi personaggi in zone completamente bianche o nere, gioca con i chiari scuri. Non scaglia invettive, né cerca giustificazioni, espone i fatti, e lascia che la storia avanzi a sbalzi, senza grandi colpi di scena, ma appunto trasportata come dalla corrente di un fiume, lo stesso fiume che aleggia sullo sfondo, un fiume inquinato, un fiume che da e riceve morte, conservando una sua certa disperata bellezza.

Philippe Djian, nato a Parigi nel 1949, si impone negli anni ’80 come scrittore non conformista, considerato l’erede francese della beat generation. Autore di culto della scena letteraria francese, Djian è cresciuto a Parigi facendo ogni tipo di lavoro: portuale, magazziniere da Gallimard e anche giornalista.  37°2 le matin è il romanzo che lo ha reso celebre in tutto il mondo. Da questo libro il regista di J.J. Beineix ha tratto il film Betty Blue, candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 1987. Molto apprezzato dalla critica, ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali tra cui il premio Jean Freustié 2009, e per “Oh…” il Prix Interallié 2012.

:: Recensione di “Oh…” di Philippe Djian (Voland, 2013) a cura di Giulietta Iannone

10 marzo 2013

ohIrène ne avrebbe fatto una malattia. Resto ancora un momento li fuori, appoggiata al muro di casa, tra il pallore del crepuscolo e l’odore di carta bruciata. Non ha mai smesso di andarlo a trovare, di mantenere un contatto, un legame fisico con lui, la cosa scatenava violente discussioni tra me e lei, soprattutto all’inizio, ma non per questo ha rinunciato a una sola delle sue maledette visite. Eppure sa Dio se manifestava rancore nei suoi confronti al pensiero di quello a cui ci aveva costrette, i conti da pagare, gli insulti, le fughe e così via, ma tornava a trovarlo ancora e ancora, rendendomi sempre più pazza di rabbia perché non la capivo e lei faticava a spiegarsi, restava volutamente sul vago. Non mi avrebbe mai perdonato di aver dato fuoco a quelle foto. La sento già accusarmi di aver ucciso quell’ uomo una seconda volta – sembra impossibile.

Protagonista di “Oh…” (“Oh…”, 2012) di Philippe Djian, edito da Voland e tradotto da Daniele Petruccioli, è Michèle, produttrice cinematografica parigina quasi cinquantenne, una donna forte, di successo; madre di Vincent, un ragazzo che lavora in un McDonald’s, fidanzato con Josie e in attesa di un figlio non suo; moglie divorziata di Richard, sceneggiatore senza fortuna, amareggiato dalla mancanza di talento della quale neanche si rende conto; figlia di Irène, caricatura patetica e grottesca della femme fatale, fidanzata di Ralf, un ragazzo molto più giovane di lei che intende addirittura sposare, contro il volere della figlia, e di un padre che da trent’anni è rinchiuso in prigione per aver massacrato un numero imprecisato di bambini, tanto da guadagnarsi il nome di mostro di Aquitania; amante di Robert, marito della sua migliore amica e socia nella casa di produzione, Anna. Un giorno il suo complicato mondo imperfetto va in mille pezzi per un’ aggressione: un uomo sconosciuto, con un passamontagna in testa entra nella sua casa e la violenta, davanti al suo gatto Marty. Da principio non lo riconosce, immagina le tesi più fantasiose, che sia uno sceneggiatore di cui ha respinto il lavoro, un uomo che vuole vendicarsi di qualche ipotetica ingiustizia subita, uno sconosciuto senza volto, nome, identità. Confida l’aggressione solo al suo ex marito, di cui subisce ancora il fascino, un po’ perché lo considera l’uomo migliore che abbia incontrato, un po’ per riconoscenza, per quello che ha fatto per lei, salvandola letteralmente dalle dolorose conseguenze degli atti di suo padre, di cui per un residuo senso di possesso, è quasi gelosa della sua nuova compagna, Helene, ragazza più giovane e bellissima. E intanto la vita continua e Michèle cerca di radunare i pezzi, cerca di aiutare il figlio, in questo periodo di crisi, i prezzi delle case a Parigi sono alti, la responsabilità di una moglie e di un figlio, sono forse più di quello che Vincent riesca a farsi carico, oltre al fatto che il vero padre del bambino è in prigione in Thailandia per motivi di droga e Josie cerca soldi da mandargli per farlo uscire di prigione e gli avvocati costano. E poi c’è sua madre e il folle desiderio di sposarsi, oltre al fatto che vuole che vada a trovare suo padre in carcere e come ultimo desiderio gli chiede di accordargli il suo perdono. E infine c’è Patrick, il suo vicino di casa, sposato con Rebecca, per cui prova una malsana attrazione, non ostante sia un bancario, forse anche insulso e qualunque. “Oh…” è questo e molto altro, un romanzo decisamente coraggioso e  forte, né consolatorio, né rassicurante, il tentativo di un uomo di guardare il mondo con gli occhi di una donna, un tentativo che ha risonanze interessanti, bizzarre. Un vertiginoso tentativo di sondare le profondità della psiche femminile, cosa significhi essere madre, il doppio ruolo di Anna e Michèle come madri di Vincent è raccontato con grande sensibilità, cosa significhi subire una violenza, cosa significhi essere figlia di un padre che non merita perdono, e di una madre che seppure con tutte le sue debolezze sa ancora farsi amare. Lo stile particolare Djian è il valore aggiunto che impreziosisce ogni pagina, e raggiunge vette estetiche di particolare intensità.

Philippe Djian Nato a Parigi nel 1949, Philippe Djian si impone negli anni ’80 come scrittore non conformista, considerato l’erede francese della beat generation. Autore di culto della scena letteraria francese, Djian è cresciuto a Parigi facendo ogni tipo di lavoro: portuale, magazziniere da Gallimard e anche giornalista.  37°2 le matin è il romanzo che lo ha reso celebre in tutto il mondo. Da questo libro il regista di J.J. Beineix ha tratto il film Betty Blue, candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 1987. Molto apprezzato dalla critica, ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali tra cui il premio Jean Freustié 2009, e per “Oh…” il Prix Interallié 2012.

:: Recensione di Assassini di Philippe Djian (Voland, 2012) a cura di Giulietta Iannone

12 ottobre 2012

Marc era convinto che ce l’avessi proprio con lui per l’imprecisato numero di tonnellate di veleni riversatosi nel fiume. Certo, lì per lì avevo avuto uno scatto. Come chiunque altro. Ma l’indomani mattina ero tornato al lavoro alla Camex- Largaud. Come qualunque abitante di Héno­ch­ville. Una piccola arrabbiatura che non esplodeva, anzi andava spegnendosi prima ancora di uscire di bocca. Quanto a me, se gli avevo dato”dell’assassino”era per ragioni vaghe, perse nei meandri dell’amicizia. Riguardo ai pesci morti, certo, lo ritenevo un assassino. Ma non meno di me o Thomas, non meno di un qualsiasi impiegato della Camex-Largaud, non meno del più piccolo negoziante della città. Tutto qui. Eravamo invischiati in questa situazione da talmente tanto tempo che preferivamo non pensarci.

Benvenuti a Héno­ch­ville, ridente cittadina francese di montagna, in cui la natura sembra essersi impegnata al suo meglio per farne un piccolo paradiso: boschi di abeti, un fiume ricco d’acqua e di pesci, la  Sainte-Bob, cieli azzurri. Il posto ideale dove vivere se non fosse per il fatto che una fabbrica, la Camex-Largaud, di proprietà di Marc Largaud, riversando da anni rifiuti tossici nel fiume, inquinandolo inarrestabilmente, ne sta segnando la morte.
La gravità della situazione sembra impensierire il Ministero dell’Ambiente che ad ogni incidente manda nuovi ispettori a fare il punto della situazione. Di norma grazie a bustarelle e signorine compiacenti tutto si sistema, finché non capita l’imponderabile. Arriva in città Victor Brasset. Accetta i soldi, va a letto con la bella Luarence, ma poi sul punto di chiudere l’accordo risulta irremovibile: la Camex-Largaud deve chiudere.
Per gli abitanti di Héno­ch­ville la fabbrica è praticamente l’unica fonte di reddito, chiuderla significherebbe gettare sul lastrico intere famiglie, così un po’ perché la situazione gli prende la mano, un po’ perché Luarence colpisce in testa Victor Brasset, Marc e il suo migliore amico Patrick Shea­han, narratore in prima persona della storia, rapiscono l’ispettore e lo portano in una baita di proprietà di Marc. Il caso vuole che anche alcuni amici in gita gli facciano visita, così Thomas e sua moglie Jackie e la bella irlandese dai capelli rossi Eilen Mac Keogh, inquilina di Patrick Shea­han, si trovano imprigionati nella baita, perché nel frattempo un vero e proprio diluvio si è abbattuto nella zona rendendo impraticabili tutte le vie d’accesso.
Inizia così un soggiorno coatto, allietato da candele, ottimi vini e cibi raffinati, in cui emergono tutti i conflitti irrisolti tra i protagonisti, mentre la forza dell’acqua è sul punto di spazzare via tutto.
Assassini (Assassins, 1994) di Philippe Djian, primo volume di una trilogia composta anche da Criminels e Sainte-Bob, sebbene tratti di un argomento di stretta attualità, uscì in Francia per Gallimard ben 18 anni fa e solo oggi, grazie all’editore romano Voland, possiamo leggerlo anche in Italia, tradotto da Daniele Petruccioli.
A dispetto del titolo non ci sono veri assassini o un vero delitto, non almeno nel senso normale del termine. Certo i pesci del fiume muoiono e Marc Largaud, la sua fabbrica e tutti quelli che ci lavorano sono coinvolti, ma la presunta vittima che potrebbe rendere veramente assassini i personaggi, seppure dolorante e malridotta, continua a respirare per tutto il romanzo.
Può essere considerato lo stesso un noir a tutti gli effetti? Come in tutte le opere di Djian è lecito porsi questa domanda che inevitabilmente porterà a ponderare il fatto che come dice Djian stesso, i suoi lavori sono un qualcosa che nessuno aveva mai osato o voluto scrivere. Per me sono noir. Anche senza fiumi di sangue, pistole fumanti, e tutto il corollario a cui siamo abituati. Il noir nasce quando si sonda l’oscurità dei personaggi, e di oscurità in questo romanzo ce ne è parecchia.
Un attimo di spiazzamento quando a pagina 161 dalla prima persona passa alla terza ma “Non ho cercato di capire, ero troppo occupato a lottare contro Patrick Sheahan, con il quale tentavamo di strozzarci a vicenda” mi sembra un buon consiglio da seguire.

:: Recensione di Incidenze di Philippe Djian (Voland 2012) a cura di Giulietta Iannone

4 febbraio 2012

Diventare un bravo scrittore prima dei trenta, ecco una cosa davvero inimmaginabile salvo rare eccezioni, trent’anni è il minimo assoluto, attaccava sempre con i suoi studenti, pensate si impari a far risuonare le parole in un giorno, o anche in cento, o che la grazia caschi dal cielo in un attimo, state a sentire, voglio essere franco con voi, calcolate vent’anni, calcolate vent’anni prima di saper riconoscere la vostra voce, a prescindere da come vi ci metterete, questo per dire che se qualcuno tra voi nutre una pur vaga illusione in proposito si rassicuri, amici miei, ve lo dico io, non aspettatevi niente di importante, niente di sconvolgente, niente di veramente valido prima di vent’anni, seppiatelo. Intendo due decenni. Guardate, chi non ama il sacrificio è meglio se rinuncia subito. Ecco, ho scritto il mio nome sulla lavagna. Inutile cercarlo su Wikipedia. Non sono Michel Houellebecq. Spiacente.

Marc, il protagonista di Incidenze, titolo originale Incidences, traduzione di Daniele Petruccioli, breve e strano romanzo di Philippe Djian uscito l’anno scorso per Voland avvolto nell’aura di culto che in Francia circonda il suo autore, lo incontriamo per la prima volta una bella serata d’inverno imbiancata dalla luna, dopo tre bottiglie di vino cileno molto forte a bordo della sua malridotta 500 dalla marmitta assordante come un aereo a reazione, che se ne torna a casa con una ragazza ubriaca a fianco. Molto più giovane di lui, una sua studentessa per giunta di cui ricorda a malapena il nome e che ha un certo insolito talento cosa abbastanza insolita nella mediocrità assoluta che lo circonda. Già, perché Marc, cinquantatre anni, scrittore frustrato dalla mancanza di talento, non potendo scrivere si accontenta del suo surrogato più prossimo, insegnare scrittura in una piccola e sperduta università di provincia e quasi meravigliandosi lui stesso compensa ogni sua inadeguatezza letteraria, con un talento altrettanto appagante  apparire decisamente irresistibile per le sue giovani studentesse che si succedono nel suo letto a ritmo forsennato e lui è pronto ad approfittarne quasi con rabbia accecato da un’ oscura volontà tesa a mascherare il vuoto e la pochezza che è la sua vita. Barbara, questo è il nome della ragazza, se ne ricorderà infine qualche giorno dopo, si era appena iscritta al suo laboratorio di scrittura e lui non aveva cercato neanche per un secondo di lottare contro l’attrazione che provava per lei, un’attrazione eccessiva. Barbara non ha intenzione di rimanere un’avventura sullo sfondo senza importanza, ha deciso di conquistarsi un posto di rilievo nella sua vita. Aveva ventitre anni. Labbra a cuore. Fianchi pronunciati. Gambe un po’ tozze. Ed è inequivocabilmente morta il mattino dopo. Marc non si ricorda gran chè di quella notte, solo che lo avevano fatto. Non lo sfiora nemmeno il pensiero di averla uccisa, ma poi è davvero una morte accidentale, ne siamo proprio sicuri, pur tuttavia un certo senso di colpa lo spinge a nascondere le tracce ad attraversare il bosco che circonda la sua casa e digrada fino al lago e buttarla in un crepaccio prima di correre sporco di fango e impresentabile a lezione a parlare di John Gardner e della narrativa morale. La scomparsa della ragazza crea un po’ di agitazione, un funzionario di polizia viene incaricato di indagare e Marc, forte delle precauzioni prese, nasconde la verità e si finge anche stupito pure con la presunta madre adottiva Maryam, personaggio che riserverà qualche sorpresa, una vera donna finalmente in un mare di conquiste senza rughe e senza personalità, una donna di cui Marc non potrà che non innamorarsi perdutamente, a modo suo comunque. Gravato da un passato oscuro, la follia della madre ha lasciato cicatrici indelebili in lui e in sua sorella Marianne, una madre morta con suo marito nell’incendio della loro casa, e anche qui il dubbio che la mano di Marc adolescente non l’abbia appiccato si fa insistente, l’uomo si trova a combattere con la sua coscienza, con il licenziamento imminente, nelle mani di Richard Olso il direttore del dipartimento di letteratura, uomo mediocre, che ha acquistato un posto di potere senza merito, di una stronzaggine nauseante, una nullità incompetente e insignificante che insidia Marianne con le armi spuntate della sua pochezza, con il suo amore fino al finale improvviso, spiazzante privo di redenzione. Incidenze dicevo all’inizio è un romanzo strano, crudele se vogliamo, un noir cinico e triste, di una tristezza venata non di malinconia ma qualcosa di più cattivo, velenoso, rabbioso. Djian mette in bocca al suo protagonista riflessioni sulla letteratura, amare e spiacevoli quasi che con la scusa di imbastire una storia che ruota intorno al grumo oscuro di una verità negata, di menzogne ben congegnate, della differenza sottile tra vero e falso, in realtà si accanisse sui mali che affliggono la letteratura, sulle difficoltà di essere scrittore, sul fatto che essere un mediocre di successo a volte è tutto quello che conta. Il personaggio di Richard permette a Djian tutto questo e gli permette di far da specchio alle frustrazioni del protagonista personaggio in cui sebbene è ben difficile riconoscersi o identificarsi è per tuttavia portatore e depositario di alcune verità folgoranti che fanno quasi impressione in bocca a lui. Marc gioca sporco si sa, inganna il lettore ma non se stesso, ci porta  ad intravedere qualcosa che poi ci viene nascosto dietro il velo del dubbio e dell’incertezza. E’ un personaggio fluttuante, complesso, e schiacciato dalle incidenze che sembrano costellare la sua vita. La sua moralità è stata incenerita nell’infanzia, non aspettiamoci che sappia distinguere il bene e dal male, il rassicurante opportunismo e l’ipocrisia borghese non gli appartengono, e questa sua anima noir viene descritta con intensità e efficacia. Il morboso rapporto con la sorella, l’incesto che occhieggia e lascia un sapore acre fino all’ultimo, fino alla inutile telefonata con la sua studentessa nel bungalow a testimoniare, che non è cambiato, nè il sesso nè l’amore hanno avuto su di lui questo potere e quando accende l’accendino per fumarsi la sua ennesima sigaretta, sappiamo che non ci mancherà o forse sì.  Già questo dubbio non ci lascerà per un bel po’ di tempo anche dopo aver chiuso il libro.

:: Recensione di Imperdonabili di Philippe Djian (Voland 2011) a cura di Giulietta Iannone

15 novembre 2011

aRingraziavo il cielo per avermi dato la letteratura. Ringraziavo la letteratura per avermi dato un lavoro, per aver provveduto ai bisogni della mia famiglia, avermi fatto conoscere il brivido del successo, avermi punito, elevato, e oggi la ringrazio per la mano che ancora mi tendeva, ma sarebbe bastata? La letteratura avrebbe avuto il ruolo di sempre nella mia vita, adesso che ero solo e la polvere si posava?

Imperdonabili di Philippe Djian, (titolo originale Impardonnables, traduzione di Daniele Petruccioli), è un romanzo edito nel 2009 in Italia da Voland in quasi concomitanza con l’edizione francese Gallimard, – in Francia è uscito a febbraio, in Italia a ottobre -.
In testa per mesi alle classifiche dei libri più venduti Imperdonabili è sicuramente un libro di grande fascino, dove appunto personaggi e ambientazione gettano un’ ombra lunga sul lettore. Ho letto recensioni di lettori che lo definiscono un romanzo triste, in effetti di aspetti tragici ce ne sono numerosi dall’incidente in cui perde la vita la prima moglie e la figlia maggiore del protagonista, dalle malattie incurabili, all’ uccisione involontaria di un benzinaio durante una rapina, ma l’atmosfera che si respira in questo libro non è affatto opprimente, ho riso in diverse occasioni dove l’ironia si coniugava alla assurdità di certi atteggiamenti o manie.
L’ossessione del protagonista per Hemingway è riversata e dosata come un veleno lento e intossicante e per chi conosce le opere di Ernesto come amichevolmente viene chiamato dal protagonista, noterà molti omaggi nascosti alla sua scrittura, dalle tende gonfiate dal vento che mi hanno ricordato una pagina del Grande Gatsby.
E’ un noir fondamentalmente, dove non ci sono eroi, dove tutti i personaggi mostrano lati sgradevoli se non irritanti. Il protagonista Francis per primo, uno scrittore francese di culto pubblicato dagli editori più importanti, sessantenne, sposato con una moglie di dieci anni più giovane, che vive in una villa di stile andaluso affacciata sull’oceano, battuta da mille intemperie, vento, pioggia, mareggiate che portano a riva le cose più assurde. Marito infedele della prima moglie, tradito dalla seconda, padre odiato dalla figlia superstite, incapace di perdonare, vendicativo, diffidente, orgoglioso cerca salvezza nella letteratura chiedendosi se davvero la scrittura può compiere quel miracolo.
Poi c’è Alice la figlia ribelle, attrice di successo, sempre sulle prime pagine dei giornali più per le sue scorribande sentimentali che per il suo talento, moglie di Roger un banchiere ex drogato e inaffidabile e madre di due gemelle insopportabili alle quali si aggiungerà un maschietto ben oltre la metà del romanzo. Judith la seconda moglie, agente immobiliare consumata dalla mancanza di un figlio che il marito per egoismo non le ha voluto dare, cinquantenne piacente e sempre in viaggio.
Oltre alla famiglia di Francis altri due personaggi emergono dalla storia Anne Marguerite l’investigatrice privata alla quale Francis si rivolge quando Alice scompare, e Jeremie suo figlio, uno sbandato, appena uscito dal carcere, con un cane come unico amico, che odia gli omosessuali e esce sempre malconcio da risse e litigi.
Ecco gli imperdonabili che danno vita al romanzo. Se vogliamo proprio l’incapacità di perdonare, ruggine che corrode nel profondo il protagonista e lo rende incapace di vera umanità anche quando Judith lo prega di farlo, di perdonare la figlia, dicendogli che il perdono eleva, rende migliori, e Francis scorbuticamente le fa capire che lui non ne ha nessun bisogno, è la vera protagonista del romanzo.
Poi c’è la morte che dice l’ultima parola e non lascia adito a scampo. Raccontato in prima persona, è la voce del protagonista che ci accompagna in riflessioni profonde sulla vita, sull’amore, sul tradimento, sulla famiglia, sulla letteratura, sulla morte.
Andrè Techine l’ha trasformato in un film con André Dussollier come protagonista peccato solo che l’abbia ambientato a Venezia e non sulla costa atlantica, una villa stagliata contro il cielo plumbeo con l’oceano in tumulto alle spalle avrebbe reso tutto più di impatto a mio avviso.
In sintesi un noir dell’anima, che fa l’autopsia di una famiglia e parla del male di vivere di uno scrittore con il quale è difficile andare d’accordo ma per il quale non si può non provare comprensione e simpatia.

Nato a Parigi nel 1949, Philippe Djian si impone negli anni ’80 come scrittore non conformista, considerato l’erede francese della beat generation. Autore di culto della scena letteraria francese, Djian è cresciuto a Parigi facendo ogni tipo di lavoro: portuale, magazziniere da Gallimard e anche giornalista.  37°2 le matin è il romanzo che lo ha reso celebre in tutto il mondo. Da questo libro il regista di J.J. Beineix ha tratto il film Betty Blue, candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 1987. Molto apprezzato dalla critica, ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali tra cui il premio Jean Freustié 2009, e per “Oh…” il Prix Interallié 2012.