
Chi non conosce la parabola del Buon Samaritano narrata nel Vangelo di Luca 10, 30-35 (se avete un Vangelo sottomano vi consiglio di rileggerla)? Forse tra le parabole usate da Gesù per farsi capire dagli uomini del suo tempo, ma anche da noi oggi, è una delle più radicali e se vogliamo emozionanti, perché ci parla della carità in azione, dei pregiudizi, di cosa possiamo fare noi concretamente nelle nostre vite per essere e non solo apparire buoni, degni dell’amore di Dio e del prossimo e della stima di noi stessi.
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto.”
Così inizia, nella sua essenzialità e drammaticità ci parla della condizione umana, della sua fragilità, di quanto siamo in balia degli altri che possono assalirci e depredarci o tenderci una mano e aiutarci. Ma non solo, quest’uomo si trova ferito, sanguinante, prossimo alla morte in una landa deserta (senza aiuto la morte è certa), prossimo dunque a non perdere solo i beni materiali ma pure la cosa più preziosa, la vita, e cosa succede? Passa un sacerdote, un uomo probo, stimato, un uomo che dovrebbe essere un esempio di rettitudine e di misericordia per la sua comunità e passa oltre. Poi passa un levita, un maestro della legge e anche lui passa oltre.
Chi si ferma invece? Un Samaritano. E qui è bene aprire una parentesi. Al tempo di Gesù i Samaritani erano gente di cattiva fama, disprezzati, giudicati impuri, reietti ai margini della società. Quindi le ultime persone al mondo da cui ci si aspetterebbe qualcosa, tanto meno un atto di misericordia.
E proprio lui invece che fa? Inaspettatamente oltre a fermarsi presta soccorso, si carica in spalle l’uomo ferito, lo cura, lo porta al sicuro nella prima locanda e paga di tasca sua l’assistenza.
Fa insomma un gesto rivoluzionario, si fa garante del suo prossimo, di un estraneo incontrato per strada che può essere un ladro, un assassino, lui non lo conosce appunto, e infatti Gesù alla fine chiede, consapevole che non è una risposta così scontata, chi dei tre si è comportato rettamente, è stato prossimo per l’altro essere umano in difficoltà?
La nostra sensibilità moderna ci fa giungere subito alla giusta risposta, ma allora i pregiudizi erano molto radicati, per cui oggi al Samaritano dovremmo sostituire un drogato, un mafioso, un infedele, un eretico, per dare forte il senso dell’esclusione sociale in cui era relegato il Samaritano della parabola.
E proprio per attualizzare una parabola senza tempo e renderla più fruibile all’uomo di oggi Michele Venanzi ha scritto un racconto dal titolo Il ritorno del Samaritano, edito con Marna edizione, nella collana i Sentieri. Venanzi non è uno scrittore professionista, fa altro di professione, ma proprio la sua vicinanza alla sofferenza e alle problematiche dell’uomo di oggi, il suo interesse a unire psicologia e spiritualità, l’hanno portato ad approfondire questi temi e ad attualizzare la parabola parlandoci di Andrea, Tobia, e Taddeo, perché anche l’oste della locanda merita un posto speciale in questa storia di salvezza, il male ha fatto i suoi danni ma la solidarietà il tendere una mano al prossimo ha prevalso.
La scrittura è piana, semplice, essenziale, come il rimando e l’originale biblico, si legge in un’oretta, fermandosi a meditare e riflettere. È un bel racconto, edificante in senso buono non pedante, se avete modo ve ne consiglio la lettura.
Michele Venanzi è nato a Milano, vive oggi con la famiglia in provincia di Como. Formatosi a partire da studi classici presso i Salesiani, ha approfondito tematiche spirituali e religiose. Psicologo e psicoterapeuta, oggi si interessa di integrare psicologia e spiritualità.
Source: libro inviato dall’autore che ringraziamo.