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:: La rancura, Romano Luperini, (Mondadori, 2016) a cura di Irma Loredana Galgano

13 aprile 2016
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La rancura (Mondadori, 2016) di Romano Luperini è un romanzo incentrato sul tema del rapporto tra padre e figlio, sugli scontri generazionali ma soprattutto sui silenzi, sulle mancate occasioni di incontro, di dialogo. Un libro che focalizza sulle azioni compiute dai padri e motivate dalla volontà di cambiare il mondo per “lasciare” ai propri figli un posto migliore. Solo che per fare questo i padri, paradossalmente, trascurano il rapporto con i figli che vivono queste assenze, queste distanze come un abbandono. E si alimentano le incomprensioni.
Il testo di Luperini è diviso in tre parti. La prima intitolata Memoriale sul padre è una docu-fiction di tipo storico, la seconda (Il figlio) un’autobiografia romanzata mentre l’ultima (Il figlio del figlio) un racconto in terza persona.
Il titolo riprende il termine “rancura” utilizzato da Montale proprio per descrivere il sentimento che ogni figlio prova, in forme diverse, nei confronti del padre.

«Rimasi interdetto, senza sapere se essere orgoglioso o impaurito del suo elogio; e per un attimo pensai che diventare grandi e diventare cattivi fosse la stessa cosa.»

Il Memoriale del padre porta il lettore ai giorni della Seconda guerra mondiale, sul fronte italiano ai confini orientali e poi in terra straniera: Istria, Slovenia, ex-Jugoslavia… Paesi, culture, sentimenti che si mescolano e si confondono come i colori delle casacche indossate dai soldati. Ragazzi giovanissimi che si ritrovano a comandare battaglioni, ufficiali di un esercito che tale non è che combatte per un Paese che ancora non ha trovato la propria identità. Cambiamenti epocali che passano attraverso i corpi e le menti di questi giovani uomini, li formano, li fortificano e li cambiano, inesorabilmente.
Luigi Lupi, dopo il fronte e la guerra, non riesce a ritornare alla borghese quotidianità della vita dalla quale già era fuggito in passato e diventa “strano”. Suo figlio, Valerio, ha paura di lui, lo teme come anche sua madre. E allora decide che lui deve essere diverso da suo padre. Suo figlio, Marcello, penserà le stesse identiche cose. Fasi e cicli che si ripetono ma che sembrano perdere spessore e assottigliarsi di volta in volta. Come se ogni generazione “scelga” di poter fare a meno prima degli ideali, poi delle ideologie e infine della ribellione. Passare dalla lettura di racconti dal fronte nel Memoriale del padre alla descrizione dei ragazzi in fila per il provino a un reality show ne Il figlio del figlio rende drammaticamente l’idea di quanto è andato perduto, sprecato.
È un romanzo lungo, La rancura di Romano Luperini, un racconto dettagliato di innumerevoli sfaccettature di vite, volti, comportamenti, sentimenti… tre generazioni di uomini della stessa famiglia che non riescono a trovare altro punto d’incontro che non sia la terra, la campagna e lo stile di vita che a questa si lega. Tra i crinali e i boschi della campagna toscana scoprono la forza di ritrovare se stessi e affrontare sentimenti ed emozioni inespressi.

«Si asciuga le mani, guarda dalla finestra l’albicocco gocciolante, la strada ancora lucida dalla pioggia, gli olivi ripiegati su se stessi nelle valli, il crinale caliginoso dei colli. Di colpo si accorge del silenzio e della solitudine che lo circondano.»

Romano Luperini: Critico letterario e scrittore. Nato a Lucca nel 1940. Numerose sono le sue pubblicazioni di critica su letteratura e politica del Novecento. Tra i romanzi più recenti: L’età estrema (Sellerio, 2008) e L’uso della vita (Transeuropa, 2013).

Source: ebook inviato dall’editore, ringraziamo Anna dell’Ufficio Stampa Mondadori.

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:: Forse non tutti sanno che a Firenze… (Newton Compton, 2015) di Francesco D’Isa e Matteo Salimbeni a cura di Irma Loredana Galgano

11 gennaio 2016
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A ottobre 2015 è uscito nella collana Quest’Italia di Newton Compton Forse non tutti sanno che a Firenze… di Francesco D’Isa e Matteo Salimbeni.
Un tentativo di mostrare a turisti e fiorentini tutto ciò, del capoluogo toscano, che ben resta celato a uno sguardo distratto, sfuggente o frettoloso.
La storia di una delle tante eccellenti città d’arte italiane ricostruita assemblando piccoli tasselli apparentemente disgiunti fra loro.
Un testo, quello di D’Isa e Salimbeni, nel quale vengono armonizzati storia, arte e tradizione orale. Racconti, poco più che leggende, si uniscono a testimonianze storiche grazie alla presenza ‘fisica’ dell’arte, elementi che rendono, per gli autori, la città “magica”.

« Accanto all’Arno, scorre un secondo fiume, fatto di riflessi quasi impercettibili che solo una particolare inclinazione dello sguardo può essere in grado di cogliere.»

Il lavoro svolto dagli autori per Firenze ricorda, nelle intenzioni, quello condotto da Palumbo e Ponticelli per Napoli e diventato un libro edito sempre da Newton Compton nel 2014, Il giro di Napoli in 501 luoghi. «La città come non l’avete mai vista» è il sottotitolo del libro che racconta i luoghi, i misteri e gli “incredibili tesori artistici” del capoluogo campano.
Una dichiarata volontà da parte di tutti di far conoscere a quante più persone possibili i segreti che stanno alla base del fascino delle rispettive città, una bellezza che non va ricercata nelle mode e nella eccessiva modernità, bensì in una riscoperta del passato e della tradizione, veri pilastri in grado di sorreggere questi ‘colossi’ di arte, storia e cultura.
Il balcone al contrario, le buchette del vino, la finestra sempre aperta, la donna pietrificata, la sfilata della Venere senza braccia… curiosità e misteri sconosciuti ai più, «lampi d’identità che sono più che stranezze o note a margine alla storia ufficiale», sono fasci di luce che illuminano una città dalla tradizione mista e composita.

Francesco D’Isa, classe 1980, fiorentino, è un artista visuale. Laureato in Filosofia, si avvicina come autodidatta all’arte visiva. Dopo l’esordio con disegni e racconti sulle pagine della rivista d’arte e letteratura “Mostro”, di cui era redattore e co-fondatore, le sue opere vengono pubblicate in libri e riviste in Italia ed all’estero. Dal 2001 ad oggi le sue opere d’arte visiva hanno vinto vari premi in Italia ed all’estero e sono state esposte in gallerie d’arte in Europa, USA, Giappone, Russia e Sud America. Dal 2010 affianca all’attività artistica quella di scrittore e giornalista, collaborando al quotidiano online “il Post” e “Orwell” (Pubblico Giornale). Nel 2011 il suo romanzo illustrato, “I.”, viene pubblicato dalla casa editrice Nottetempo (Roma, Italia) e alcuni suoi racconti in antologie di narrativa, come Selezione Naturale (effequ 2013), Toscani Maledetti (Piano B edizioni, 2013). “Ultimo piano (o porno totale)” è il suo ultimo lavoro, pubblicato quest’anno da Imprimatur.

Matteo Salimbeni cresce a Firenze e vive a Milano. Si è diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. È drammaturgo e autore di varie opere teatrali di prosa e lirica rappresentate in giro per l’Italia e all’estero. Ha scritto romanzi (L’ascensione di Roberto Baggio, con Vanni Santoni, Mattioli 2011), sceneggiature (Bathrooms di Lorenzo Bechi) e racconti per numerose riviste.

Source: ebook inviato da uno dei due autori, ringraziamo Francesco D’Isa per la disponibilità.

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:: “Amore obliquo” di Maria Teresa Casella (Streetlib, 2015), a cura di Irma Loredana Galgano

15 novembre 2015
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Maria Teresa Casella ripropone in versione digitale Amore obliquo (Streetlib, 2015), già edito nel 2011 con EmmaBooks.
Amore obliquo della Casella è un libro che va letto domandandosi «che cos’è in fondo la pazzia?».
Pazzo è colui che non riesce a mantenere comportamenti “normali” o chi invece riesce a celare alla perfezione la sua follia dietro la maschera della normalità?

«Se provò un’emozione, le rimase intrappolata nella mente. Scambiai la sua passività per inesperienza. L’indifferenza per timore. La freddezza per infelicità.»

Pirandello, il quale ha cercato di indagare a lungo i comportamenti degli uomini e la mente umana, era giunto alla conclusione che per liberarsi dei “mali del mondo” l’uomo non avesse che due possibilità: il suicidio o la follia. Per Linda, protagonista del libro di Maria Teresa Casella, le due alternative si mescolano e si fondono fino a quando non si realizza che è necessaria una distinzione ulteriore tra suicidio fisico, che verrà poi, e suicidio mentale, alienazione volontaria che potrà anche sembrare simile o uguale alla follia ma non lo è. La vera follia è di coloro che hanno coscienza di ciò che accade e fingono di non vederlo, per ipocrisia, per comodità. Linda ha “scelto” la sua schizofrenia. Il suo essere borderline equivale a un suicidio mentale che in un primo momento le appare la soluzione ideale. Linda è crudele, è malata, deviata ma è al contempo una vittima, di se stessa e degli altri.

«Qui, rinchiuso, le emozioni sono stilettate. Ognuna è un dolore che ti fa sentire vivo, ma questa non è vita. La mia vita era con Linda. Lei diventò parte di me dal primo istante in cui la vidi. Adesso, prigioniero, capisco meglio la sua prigionia. Queste catene che stringono e costringono, reali o immaginarie restano catene.»

Umberto Capasso, giornalista per metà scrittore, come lui stesso si definisce, diventa vittima di un’ossessione che tarda a intendere non essere la sua. Crede di aiutare chi in realtà lo sta usando e cerca di salvare chi tenta di incastrarlo. Vive il suo amore obliquo con «la ragazza storta» con la medesima predestinata incosapevolezza con cui assiste e indaga i crimini efferati in cui resta, suo malgrado, coinvolto.

«No, non posso cosegnare ad altri il suo mistero. Non la do a nessuno questa agenda. Solo io posso capire, intuire, risolvere. Anche queste pagine bianche, ad esempio, raccontano qualcosa di lei: c’è la sua vita pure qui, in questi bordi bruciacchiati, in questi fori lasciati dalla punta della penna. Queste pagine non sono vuote: queste pagine sono il vuoto.»

Umberto, pur muovendosi nel caos mentale più totale, ha sempre avvertito la profonda sensazione di dover salvare Linda, l’errore è consistito nell’aver creduto che se fosse riuscito a salvarla da se stessa avrebbe risolto ogni problema. E così, ancora una volta Linda, nel totale isolamento mentale nel quale sopravvive, sceglie di agire da sola, decide per tutti perché convinta che altro non le resta da fare.

«Mi fermai a pensare proprio lì, in quella confusione. Spintonato dalla mischia. Frastornato dalla musica, dalle luci di una notte piena di vita. Da gente che voleva divertirsi, e ci riusciva. Io non ero come loro, non più. Non ridevo come loro, con quel gusto.»

Amore obliquo di Maria Teresa Casella è un libro intenso, a modo suo ribelle, come Linda e la sua storia, la «la ragazza storta» e la sua mente, come Umberto e il suo amore distorto, perché è un sentimento, obliquo.

Maria Teresa Casella, meglio nota al pubblico come Theresa Melville, dal 1996 scrive romance storici editi da Mondadori, pubblicando ad oggi ventinove titoli. L’ultimo uscito, nell’agosto del 2012, è Notte di Speranza, il secondo libro della trilogia dei Tourangeau. Dal 2008 si dedica in parallelo a un genere narrativo decisamente diverso, il noir.
Nel 2010 escono due suoi racconti in altrettante antologie: il racconto Progetti per il futuro in Eros&Thanatos (Supergiallo Mondadori) e Aspetta in Racconti erotici per un anno, Delos Book. L’Amore obliquo è il suo primo romanzo noir, una storia estrema, la cruda analisi di una passione torbida e struggente. Sito: www.theresamelville.it

Source: ebook del recensore.

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:: Io non ti conosco, S.J. Watson, (Piemme, 2015) a cura di Irma Loredana Galgano

5 ottobre 2015
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La casa editrice Piemme pubblica con il titolo Io non ti conosco il romanzo di S.J. Watson Second Life, tradotto in italiano da Stefano Travagli.
Il testo ha una mole imponente: 456 pagine, che in genere scoraggiano i lettori di gialli, ansiosi di scoprire quanto prima l’assassino e svelare il mistero. Ma il libro di Watson non è un giallo, nell’accezione classica del termine, è un thriller psicologico contemporaneo che spazia attraverso molteplici argomenti e indaga vari aspetti del vivere moderno, più o meno correlati con l’omicidio la cui indagine sembra rappresentare il filo conduttore del testo. La narrazione intriga fin dalle prime pagine e il ritmo incalzante abbevera la crescente sete di chi legge, il quale giunge alla quattrocentocinquantaseiesima pagina quasi senza accorgersene.
Si riveleranno i trascorsi berlinesi della protagonista il vero leitmotiv dell’opera.
Una giovanissima Julia, dopo aver trascorso dieci anni a fare da madre a sua sorella, decide di seguire il suo ragazzo in un’avventura bohémien nella città rinnovata dalla caduta del muro, occupando una casa per viverci con amici un po’ “diversi”, come li definisce lei stessa. Sarà in quell’occasione che conoscerà lo sballo, le droghe, il divertimento, ma che si avvicinerà anche alla fotografia, la sua passione.

«Ho fatto qualche scatto di prova, e mentre avvicinavo la macchina all’occhio ho sentito che il gesto era ancora intuitivo, istintivo. Quando ho guardato nel mirino, ho capito che preferivo vedere il mondo così. Dentro un’inquadratura.»

Sembra ormai tutto talmente lontano da apparirle irreale nella nuova vita che si è costruita a Londra, grazie a Hugh che l’ha salvata prima e sposata poi. Anche la fotografia intesa come ‘arte’ sta diventando un lontano ricordo. Infatti Julia si limita a ‘divertirsi’ nel fare «lavori in cui servono soprattutto abilità tecniche. Non è come fare ritratti; non è arte, se vogliamo usare questa parola».
Ma l’uccisione di Kate, sua sorella, rimette tutto in discussione e la sua mente si trova del tutto impreparata ad affrontare e soprattutto superare un trauma del genere. Così mentre si illude di indagare sulla morte della sorella in cerca del suo assassino, convinta che la polizia non stia facendo abbastanza, Julia non fa altro che rispolverare la se stessa di tanti anni prima, la ragazza che girava per le strade di Berlino scattando foto alla “evoluzione degli altri” rosa dai sensi di colpa per aver abbandonato la sorella minore ed essere fuggita inseguendo l’amore. Fuggirà anche da Marcus e nel momento peggiore ma non riesce a realizzare, fino alla fine, quale sia stato veramente il suo errore più grave.

« Chiudo gli occhi e penso a Kate, a quando eravamo bambine. Allora le cose erano più semplici, anche se non significa che fossero facili.»

Julia crede che quella parte della sua vita sopravviva ormai solo nella sua mente e attraverso le foto dell’epoca, come ritiene di poter tenere separate le sue due vite attuali: quella con Hugh e Connor e l’altra con Lukas. Esattamente come pensava di riuscire a tenere separate la realtà vera da quella virtuale. Una valvola di sfogo, un’evasione temporanea dalla quotidianità e dal dolore, così Julia cercava di mentire a se stessa per sentirsi meno in colpa nel frequentare siti di incontri online, nel chattare con uno sconosciuto, nell’incontrarlo, nel farci sesso, nell’avere una relazione con lui…

« Chiudo il giornale e svuoto la lavastoviglie. Ho inserito il pilota automatico. Prendo lo straccio, la bottiglia di candeggina e pulisco la cucina. Mi chiedo se anche la generazione di mia madre si sentiva così: il valium nell’armadio del bagno, una bottiglia di gin sotto il lavello; una storia con il lattaio, per il brivido dell’avventura. Tanti progressi e siamo sempre allo stesso punto. Quanto mi vergogno.»

E proprio mentre pensa che non ci possa essere nulla di più terribile del fatto che Hugh e Connor scoprano la verità realizza che anche suo figlio è rimasto vittima dello stesso inganno che ha ‘stregato’ lei. È caduto nello stesso tranello, per mano della stessa persona, per lo stesso motivo.

« Apro gli occhi. Che spari o non spari, qualunque cosa succeda da adesso in poi, è finita.»

Nessuno si rivela quello che dice di essere, nemmeno Hugh, neanche lei stessa. L’autore riprende in parte la teoria pirandelliana delle maschere indossate da tutti e da ognuno per regalare a se stessi e agli altri, ogni volta, un’immagine diversa. «Con improvvisa chiarezza mi rendo conto che indossiamo tutti delle maschere, sempre. Al mondo, agli altri, presentiamo solo una faccia: mostriamo un volto diverso a seconda delle persone con cui siamo e di quello che ci si aspetta da noi. Ma anche quando siamo soli indossiamo una maschera, la versione di noi stessi che vorremmo essere.»
Watson compie un’attenta analisi della psiche femminile, andando oltre le apparenze, oltre le parole e rimanda al lettore un’immagine completa della protagonista, delle sue paure, dei suoi tormenti, dei suoi sentimenti, delle passioni. Racconta dettagliatamente lo struggimento di Julia per il tradimento inferto alla sua famiglia, ancor più incisivo se paragonato alla reazione e al comportamento di Hugh, il quale sembra approfittare di un incorso problema di lavoro e dello stato confusionale in cui versa Julia per non affrontare il suo di tradimento. Il finale assolutamente non scontato contribuisce a rendere Io non ti conosco di S.J. Watson un libro interessante che merita di essere letto.

S.J. Watson Inglese, ha avuto un successo planetario con Non ti addormentare (Piemme, 2012), il romanzo d’esordio e bestseller internazionale, tradotto in tutto il mondo. Oggi ritorna con l’attesissimo secondo romanzo, Io non ti conosco, che sta incontrando eguale fortuna. Nato nelle Midlands, vive a Londra.

Source: ebook inviato dall’editore, ringraziamo Riccardo dell’ufficio stampa Piemme.

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:: Mio padre in una scatola da scarpe, Giulio Cavalli (Rizzoli, 2015) a cura di Irma Loredana Galgano

25 settembre 2015
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Il 17 di questo mese è uscito per Rizzoli “Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli.

Ci sono dei cantanti che hanno una voce talmente melodiosa che ti cattura appena la senti.
Ci sono dei musicisti talmente dotati che ti fanno piacere la loro musica fin dalle prime note.
E poi ci sono quegli scrittori così bravi che ‘rapiscono’ il lettore fin dalle prime battute.
Giulio Cavalli appartiene senza dubbio alcuno a questa categoria.

Mio padre in una scatola da scarpe” racconta la storia semplice di Michele, cresciuto dove «non esistono carabinieri o polizia; qui a Mondragone ci sono le guardie e i ladri, bianco e nero e tutto in mezzo gli altri che sono altri per il tempo che serve a decidere se nella vita vuoi essere bianco o nero, guardia o ladro», in una città che può trovarsi dove si trova, in provincia di Caserta, o in qualsiasi altro posto del mondo perché «Mondragone si sveglia rotonda tutte le mattine, per poi sformarsi attraverso i suoi abitanti».

Una vita sospesa, quella degli “altri”, soprattutto quando propendono per il bianco, in quanto «questa è una terra che va abitata in punta di piedi, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili». Cercava di spiegare suo nonno a un giovanissimo Michele, che non capiva… non riusciva a capacitarsi, esattamente come quarantanni più tardi non ci riuscirà Andrea, suo figlio.
Perché una persona che vuole solo coltivare il proprio amore, formare una famiglia, lavorare, pagare le tasse e trascorrere del tempo con i propri figli e nipoti deve vivere terrorizzato da ciò che può accadere a lui, o peggio a propri famigliari, anche solo come conseguenza per aver rifiutato o accettato un caffè?
Perché un cittadino deve essere costretto a subire l’indifferenza delle forze dell’ordine soggiogate al male peggio dei “neri”?
Perché un uomo o una donna non possono formulare queste domande a voce alta senza rischiare gravi conseguenze e ritorsioni?

Alcuni soggetti afferenti alla malavita organizzata si ritengono dei soldati, arruolati in un diverso esercito certo ma comunque ligi a un codice di regolamentazione che una volta arruolati si sceglie di seguire e rispettare. Va bene. Ma chi non compie questa scelta perché è costretto a subirne comunque le conseguenze?

« Se è mafioso solo chi ammazza allora la mafia non c’è davvero, qui. Quelli che hanno fatto finta di niente con il tuo amico morto ammazzato sono mafiosi. Tu ti ostini a pensare che siano solo cattivi o prepotenti o violenti, e invece sono mafiosi

Michele e Rosalba trascorrono la vita a cercare di diventare invisibili e soprattutto di far essere tale i propri figli e nipoti, coltivando il loro amore che è «un amore antico, se lo ripetono tutti i giorni, perché è tra persone che sono cresciute imparando ad aggiustare le cose senza buttarle». Ma certe cose o certe situazioni non si possono aggiustare, sono come la miccia di un mortaretto… una volta incendiato non resta che aspettare lo scoppio.
Andrea, Giovanni, Antonio e Angela questo scoppio se lo sentono scorrere nelle vene, anche più di Rosalba e decidono insieme di compiere il gesto più rivoluzionario della loro vita, varcando i limiti della legalità e lo fanno con il coraggio e la consapevolezza di doverlo fare, perché rappresenta per loro non solo una rivincita ma una vera e propria catarsi. E così, a modo loro, riescono a sconfiggerlo il Male che li voleva oppressi, immobili e silenti.

Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli è il racconto semplice di una famiglia normale che cerca di coltivare i propri sogni in un mondo disumano, crudele e spietato nel quale l’amore e i sentimenti per vincere devono combattere quotidianamente contro colossi armati, contro il potere, la violenza e il potere della violenza.

« Nonostante tutto lei non tornerebbe indietro, no, non rinuncerebbe a nessuno dei momenti vissuto fino a qui, dolori inclusi, perché la sua famiglia è un’opera titanica e artistica che la riempie di fierezza e di orgoglio.»

Giulio Cavalli, Milano, (1977) scrittore e autore teatrale, dal 2007 vive sotto scorta a causa del suo impegno contro le mafie. Collabora con varie testate giornalistiche e ha pubblicato diversi libri d’inchiesta, tra i quali ricordiamo Nomi, cognomi e infami (2010) e L’innocenza di Giulio (2012). È stato membro dell’Osservatorio sulla legalità e consigliere regionale in Lombardia.

Source: ebook inviato MoBa Comunicazione&Immagine, ringraziamo Barbara dell’ufficio stampa di Giulio Cavalli.

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:: La canzone del sangue, Giovanni Ricciardi (Fazi, 2015) a cura di Irma Loredana Galgano

22 agosto 2015
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A luglio la casa editrice Fazi ha pubblicato La canzone del sangue di Giovanni Ricciardi, un altro capitolo delle indagini del commissario Ottavio Ponzetti.
La trama ruota intorno al mistero sulla paternità della famosa canzone siciliana Vitti na crozza anche se il tutto alla fine sembra sfumare in una bolla di sapone, avendo il lettore inteso che deve, o meglio avrebbe dovuto, concentrare la sua attenzione su ben altra paternità.
Il ‘gioco’ che Ricciardi intrattiene con il lettore si rivela da subito un simpatico espediente. A tratti il testo sembra ‘interattivo’, con espliciti inviti a ‘partecipare’ alle indagini. E così l’autore si diverte a mescolare le carte tra realtà, finzione, teatro e televisione… rimandando continuamente a due grandi figli della terra che ‘ospita’ la storia narrata, la Sicilia. L’immagine del teatro pirandelliano con i suoi personaggi si alterna alle vicende del commissario più noto della televisione, frutto della penna di Camilleri.
Il giallo scritto da Giovanni Ricciardi non fa una grinza, per la storia e per la tecnica. Abilità ormai certificate dello scrittore-professore che non manca di ‘insegnarci’ qualche passo classico o di spiegarci l’origine o l’etimo di usanze e termini.
Quello che invece lascia il lettore molto turbato è il motivo recondito dell’aver voluto raccontare di Vitti na crozza.

« Chissà se quei vecchi incupiti e rugosi che se ne stavano in punta di piedi col cappello tra le mani erano scesi anche loro da bambini nelle viscere della solfara, a portare in superficie la ricchezza degli Arnone per un piatto di minestra.»

Le solfare siciliane, le miniere che risucchiavano ancora a metà del secolo scorso giovani e giovanissimi.
George Orwell diceva:

«Più di ogni altro, forse, il minatore può rappresentare il prototipo del lavoratore manuale, non solo perché il suo lavoro è così esageratamente orribile, ma anche perché è così virtualmente necessario e insieme così lontano dalla nostra esperienza, così invisibile, per modo di dire, che siamo capaci di dimenticarlo come dimentichiamo il sangue che ci scorre nelle vene».

Ricciardi focalizza l’attenzione del lettore sui minatori dimenticati e in particolare sull’epopea di un gruppo di siciliani senza lavoro che tentano di espatriare illegalmente in Francia alla ricerca di una vita migliore. Storia ripresa dal regista Pietro Germi nel film Il cammino della speranza.
Un film e una storia tristemente attuali.

«Scesi sottoterra e mi parve di trovarmi in un girone infernale: dalle rocce emanava un calore fortissimo, i minatori – che stavano scioperando da una settimana – erano seminudi o nudi del tutto. Stavano cantando Vitti na crozza. Registrammo quel canto, che andava perfettamente a tempo con la biella della pompa dell’aria. Con quella registrazione iniziammo il film.»

La canzone popolare Vitti na crozza viene indicata come un «canto tragico, un vero e proprio “contrasto” tra la vita e la morte» e per certi versi anche La canzone del sangue di Ricciardi lo è, nell’abilità propria dell’autore di restituirci l’immagine di un’umanità dimenticata, sfruttata, predestinata e non ci si vuol riferire solo ai minatori.
La vera protagonista del libro, Annamaria, pur entrando fugacemente nella scena la domina dall’inizio alla fine con la sua ‘vita sospesa’, il suo amore negato, rubato, e la sua passione che diventa la sua condanna.
Un libro quello di Ricciardi che narra del dualismo sociale, delle ingiustizie, dei soprusi e anche degli innumerevoli futili problemi quotidiani da cui il commissario Ponzetti cerca tenacemente di fuggire, rifugiandosi nel suo lavoro. Atteggiamento diffuso nella società attuale e, come il grande Pirandello ci ha insegnato, tutto ciò diventa paradossale e semiserio al punto che non si sa se ridere o piangere… esemplare il passaggio nel quale il vice di Ponzetti non trova posto per la vacanza con la propria famiglia e si fa ospitare dal commissario. Come quello del resto del ‘folle’ attaccamento di Galloni al suo cane cieco… riproposizioni in chiave moderna delle ‘maschere’ rappresentate nelle novelle prima ancora che sui palcoscenici dal grande drammaturgo agrigentino.
La canzone del sangue di Giovanni Ricciardi non delude gli appassionati del genere ma anche chi in un libro cerca se non proprio la denuncia almeno il racconto dei mali e dei soprusi della società.

Giovanni Ricciardi: È professore di greco e latino in un liceo di Roma e collaboratore del «Venerdì di Repubblica». Il suo personaggio, il commissario Ottavio Ponzetti, è protagonista di sei romanzi tra cui I gatti lo sapranno, vincitore del premio Belgioioso Giallo 2008; Il silenzio degli occhi, finalista al premio Fenice Europa 2012; e Il dono delle lacrime, candidato al premio Scerbanenco 2014. Una raccolta con le prime tre indagini del commissario è uscita nel 2012.
(Fonte fazieditore.it)

Source: ebook inviato dall’editore, ringraziamo Francesca dell’ufficio stampa Fazi.

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:: Sbirritudine. Un poliziotto dentro la mafia più feroce. Una storia vera, Giorgio Glaviano (Rizzoli, 2015) a cura di Irma Loredana Galgano

8 luglio 2015
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Esordio letterario straordinario quello di Giorgio Glaviano che pubblica quest’anno con Rizzoli il suo primo romanzo. “Sbirritudine”: un libro che ti entra nelle viscere, una storia che ti scuote mostrandoti il lato nascosto e vero della Sicilia e dell’Italia.
Il libro è frutto dell’immaginazione dell’autore. Nomi, personaggi e luoghi sono fittizi o usati in modo fittizio ma gli avvenimenti sono ispirati a una storia vera. Ed è proprio questo a sconvolgere perché un conto è affermare in maniera generica che nel nostro Paese siamo tutti corrotti, tutti collusi, che Stato e Mafia non si fanno la guerra ma si spartiscono la torta… un altro è vedere, o di rimando leggere, ciò che realmente accade e perché, assistere agli incontri, agli accordi, subire gli intrighi, le minacce, le calunnie solo per aver cercato di fare il proprio lavoro, ovvero difendere la legalità.
Il libro di Glaviano è narrato in prima persona, è il poliziotto siciliano protagonista degli accadimenti che racconta vicende e stati d’animo e lo fa con una tale incisività, merito dell’abile penna della scrittore, da regalare al lettore innumerevoli fotogrammi che come pezzi di un intricato puzzle pian piano si incasellano al loro posto restituendo un’immagine meno nitida seppur evidente di ciò che realmente accade. È la rabbia che si prova a rendere l’immagine sfocata, è il confine tra Stato e Mafia sempre più labile a mostrarla incerta e indefinita.

«Combattere la mafia significa combattere contro il proprio Paese. Io sono stato un traditore, un terrorista, un nemico dell’Italia, uno a cui dare la caccia. Uno che ha odiato la sua terra. Per combattere la mafia dovevo combattere la gente, i miei colleghi, la mia famiglia, i miei superiori e il loro modo di pensare. Ero io quello difettato, perché per tutti gli altri non c’era alcun problema. […] La normalità è la mafia. La normalità è dire e pensare che la mafia non esiste. La normalità è credere che sia vero. La normalità è andare a votare, comprare, vivere in un Paese come questo.»

Un Paese come questo”, un Paese nel quale un poliziotto che vuole combattere una guerra contro la criminalità organizzata deve farlo senza mezzi e senza ‘organizzazione’, perché la sua squadra viene decimata di continuo dalla burocrazia, dai trasferimenti, dalle intimidazioni, dalle pressioni… un Paese nel quale se un poliziotto vuole catturare i vertici della Cupola viene minacciato e gambizzato, dai suoi colleghi e diretti superiori prima che da quelli che riteneva essere i suoi avversari, alcuni dei quali, per ironia della sorte, si riveleranno essere poi dei validi alleati, seppur motivati da ragioni differenti.
Riemerge con grande forza nel testo di Glaviano il problema serio dell’informazione, o meglio della disinformazione del nostro Paese fatta per la gran parte di notizie banali e scontate, già assimilate come possibili o probabili e passate dai media nazionali come il decalogo delle cose da sapere nell’illusione indotta di aver avuto accesso a tutte le info che bisognava conoscere per essere o diventare delle ‘persone informate’. Invece no. Per la maggiore si tratta di notizie preconfezionate o verità edulcorate e solo in minima parte rispondenti ai fatti.

«Io servivo a ripulire Pandolfo. Con la denuncia della richiesta di pizzo lui diventa un imprenditore vergine, perché si è dimostrato onesto e ha lottato contro la mafia. Lo Stato ha visto tutto: ci sono i filmati che testimoniano il mio tentativo di estorsione. Così lui viene protetto dallo Stato e può chiedere i soldi all’Europa. Risultato: tanti soldi. Tra poco, con il parco eolico e quello fotovoltaico, ci sarà lavoro per molta gente, qui a Prezia. E il lavoro significa voti e i voti forza politica… Per avere i fondi europei serviva che Prezia fosse un po’ più pulita. Serviva un arresto eccellente… Il vecchio boss è malato, e ora si potrà curare a spese dello Stato.»

Gli eclatanti arresti di decennali latitanti passati da stampa e tg come grandiosi colpi inferti alla criminalità organizzata che in realtà altro non sono che frutto dell’accordo stretto tra uomini di Stato e uomini di Mafia. Ci si interroga su dove possa mai trovare la forza per continuare a combattere un poliziotto a cui viene mostrata la foto del suo dirigente immortalato tra boss e capi-mandamento.

«Erano tutti insieme: politica, Polizia, Carabinieri, mafia. Mancava un prete a benedire e sarebbe stata la cartolina perfetta della Sicilia

Non bisogna dimenticare però, come popolo, che il vero Stato siamo noi e questa sarebbe la vera grande Rivoluzione che assesterebbe durissimi colpi alle organizzazioni criminali e ai collusi. Rete e solidarietà per creare la forza necessaria e propedeutica a un reale cambiamento. Il protagonista indica la strada suggerendo di ‘imitare’ i mafiosi che creano gruppi compatti e impenetrabili e con essi generano la paura nelle persone isolandole, lasciando credere loro di non avere alternative. Solo prendendo coscienza che non è così si può svoltare, insieme.
E non basta e non serve più neanche tentare di giustificare la propria passività circoscrivendo il problema e additandolo come ‘siciliano’. I fatti di cronaca ormai ci smentiscono da anni.

«Lui il sesto senso non ce l’aveva e non capiva che il Nord era stato già colonizzato. La Sicilia ha sicilianizzato l’Italia. L’ha infettata con il morbo di Cosa Nostra. Ecco perché ho deciso di tornare giù. Giù o su era la lo stesso. […] Si lavorava, si rubava, si approfittava di questo. Ma nessuno vedeva, nessuno sentiva e nessuno parlava. Tutti muti. Tutti vigliacchi. Da Nord a Sud, da Est a Ovest: ogni italiano. I figli, i padri, le madri, i vivi e i morti. Avevo visto che eravamo tutti quella cosa. Quella cosa loro era anche Cosa Nostra

Il ‘sesto senso’ di cui parla il poliziotto è ciò che i mafiosi chiamano “sbirritudine”, quel fiuto che ti permette di riconoscere un mafioso anche solo da un semplice gesto, da uno sguardo, da una parola. «Sembrano uguali a tutti gli altri e invece sono maliùti. Malacarne in tutto e per tutto.»
Quella stessa “sbirritudine” che per il protagonista del libro diventa una vera ossessione trascinandolo in un tunnel di inganni e ingiustizie tali da sopraffarlo e allora lui sarà talmente preso dal suo lavoro da non trovare le forze per combattere altre battaglie, per salvare il suo matrimonio, per godersi i propri figli… per vivere la propria vita.

«Avevo imparato una lezione importante. Il grigio si nasconde anche nel bianco. Perché tutto è collegato, in Italia. Tutto è connesso. Tutto è colluso. Se tiri un filo strappi il sipario. Se indaghi su una partita di arance avariate di Ribera, alla fine vengono fuori il capo dei capi e i pezzi da novanta della politica.»

Impressiona il leggere di come uomini di mafia abbiano nel tempo conservato più ‘onore’ di certi uomini di Stato. Rattrista il fatto che nel nostro Paese gli impavidi che scelgono di opporsi ai poteri forti e a quelli illegali vengano in genere lasciati soli. Ed è anche per questi motivi che Sbirritudine di Giorgio Glaviano è un libro che va letto, perché certe considerazioni è bene che le faccia ogni italiano, da Nord a Sud, da Est a Ovest.

Giorgio Glaviano (1975), siciliano, vive e lavora a Roma come sceneggiatore.

Source: ebook inviato dall’ Ufficio Stampa dedicato, ringraziamo Fiammetta di Walkabout Literary Agency.

Disclosure: questo post contiene affiliate link di Libreriauniversitaria.

:: Gli anni d’argento, Rosalia Messina (Algra Editore, 2015) a cura di Irma Loredana Galgano

25 marzo 2015

5eAlgra Editore, nella collana Scritti diretta da Alfio Grasso, pubblica quest’anno Gli anni d’argento della scrittrice siciliana Rosalia Messina.
Siamo in una Catania contemporanea, assolata, distratta, frenetica come i tempi che la percorrono. In essa convivono modernità e tradizioni, sociali e religiose, che caratterizzano anche i protagonisti del libro, per la maggiore persone mature che rimangono legate ai sogni e ai desideri della vita.
Marisa Ilardo decide di sfruttare la proprietà di una grande villa ai margini della città per portare avanti il suo progetto maturato negli anni: costruire una residenza per anziani in buona salute e con ancora tanta voglia di vivere e divertirsi.
Capitolo dopo capitolo l’autrice conduce per mano il lettore nella conoscenza approfondita non solo della proprietaria ma anche di gran parte degli ‘ospiti’ della casa di riposo Gli anni d’argento, delle rispettive famiglie, storie e vicissitudini personali, di parte del personale di servizio e della nipote di Marisa Ilardo, Noemi, che ha sempre rappresentato una figura importante e determinante nella vita della donna al pari dell’amante perduto.
A tratti la narrazione sembra farsi dispersiva e il lettore rimane quasi spaesato dalla descrizione di tanti personaggi e delle loro numerose storie ma poi l’autrice riprende l’intreccio e lo stringe intorno alla figura di Marisa Ilardo la quale, ancor più della sua casa di riposo, ha rappresentato il filo conduttore della storia.
Rosalia Messina cerca di focalizzare l’attenzione del lettore sui desideri, sui sentimenti, sulle emozioni delle persone, anche quelle anziane, con la pelle rugosa e i movimenti rallentati, sull’anima di ognuno che pulsa e vibra all’interno dell’involucro o della corazza rendendolo ‘vivo’ esattamente come il cuore a cui non si comanda, a qualunque età. Una grande lezione, una morale fondamentale quella che l’autrice cerca, con molto tatto, di donare al lettore ma che colpisce principalmente la Ilardo mettendola crudelmente di fronte alla realtà della vita ancor più severa dell’immagine invecchiata che rimanda lo specchio in cui ogni giorno ha guardato, distrattamente, il proprio riflesso.

Rosalia Messina: Siciliana. Ha studiato giurisprudenza e svolge la professione giuridica ma quando ha iniziato il suo percorso di scrittura ha smesso i panni di avvocato e abbandonato il ‘giuridichese’. È autrice di una raccolta di racconti, Prima dell’alba e subito dopo (Perronelab, 2010) e due romanzi: Più avanti di qualche passo (Città del sole edizioni) e Marmellata d’arance (Edizioni Arianna).

:: L’8 marzo è anche “#noisì. Generazioni di donne” a cura di Irma Loredana Galgano

8 marzo 2015

roUna campagna lanciata attraverso il web per raccogliere testimonianze, positive, di donne che vogliono e possono essere esempio per altre donne. “#noisì. Generazioni di donne”, un incontro e un confronto tra donne, di differente età, che provengono da diverse culture.
L’assessore alle Pari Opportunità della Capitale, Alessandra Cattoi, spiega con una nota l’iniziativa: «Ogni giorno il mio assessorato è impegnato in azioni di prevenzione e contrasto alla violenza di genere, in particolare attraverso i centri anti violenza del Comune. Per l’8 marzo vogliamo sostenere una visione positiva delle donne di Roma. Vogliamo portare all’attenzione di altre donne, ma non solo, racconti di vita di successo, per testimoniare la grande capacità femminile di fare la differenza».
Già, “la grande capacità femminile di fare la differenza”. Quella differenza che in parte ancora si vuole tenere nascosta, celata per evitare il rischio che si diffonda e diventi consuetudine. L’iniziativa non deve essere vista come un modo per negare la violenza, che esiste purtroppo… piuttosto un modo diverso di affrontarla, studiarla, combatterla. La violenza di genere ha sempre una doppia valenza, fisica e psicologica. Ed è proprio su questo secondo aspetto che bisogna incidere per sradicarla dalle menti delle vittime e da quelle dei carnefici. Spesso, troppo spesso, rappresenta la dimostrazione di una forza che non si possiede, di una frustrazione che non riesce a trovare altro modo di fuoriuscire se non la brutalità, l’aggressività e allora la battaglia principale che bisogna combattere è quella per raggiungere la liberazione catartica dalle catene del pregiudizio ma anche da quelle della sofferenza.
Uno degli esempi migliori è la coraggiosissima Lucia Annibali, autrice del libro Io ci sono (Rizzoli, 2014), scritto con la giornalista Giusy Fasano, che è riuscita nonostante tutto a ritrovare se stessa dimostrando una forza e un coraggio incredibilmente superiori a quelli dei suoi aggressori, tutti.
«Io non mi arrendo, e questa ferita diventerà la mia forza.»
Il concorso online “#noisì. Generazioni di donne” si è chiuso il giorno 5 e oggi, 8 marzo, ci sarà la premiazione del racconto migliore, a Roma, durante la cerimonia che si terrà nella sala Esedra in Campidoglio con la partecipazione del sindaco Ignazio Marino.

:: Un’ intervista con Antonella Cilento a cura di Irma Loredana Galgano

21 ottobre 2014

9788804634478-lisario-o-il-piacere-infinito-delle-donne_copertina_piatta_foAntonella Cilento è scrittrice e presidente dell’Ass. Cult. Aldebaran Park per la quale ha ideato e conduce il Laboratorio di Scrittura Creativa Lalineascritta dal 1993 (www.lalineascritta.it). È autrice di tredici libri, fra romanzi, racconti e pamphlet (fra questi: Il cielo capovolto, Una lunga notte, Neronapoletano, L’amore, quello vero, Asino chi legge, Isole senza mare, Napoli sul mare luccica, Non è il paradiso) è tradotta in numerosi paesi, ha collaborato con riviste e quotidiani nazionali, da quattordici anni con Il Mattino di Napoli. Ha realizzato per RAI RadioTre trasmissioni e racconti radiofonici, scrive da sempre per il teatro. Il suo romanzo “Lisario o il piacere infinito delle donne” (Mondadori) è stato finalista al Premio Strega 2014 e vincitore del Premio Boccaccio 2014.

Lisario è senza dubbio alcuno un modo particolare di raccontare l’universo femminile, la sessualità e la perversione. Velatamente provocatorio?

Un buon romanzo, diceva Kafka, dovrebbe essere come l’ascia che taglia il ghiaccio della nostra vita. Dunque quando mi metto a scrivere non è la provocazione che m’interessa, quella che oggi abbonda nelle nostre televisioni e anche, purtroppo, nella nostra letteratura, quanto l’efficacia narrativa, l’estetica che la pagina mette in campo. Tuttavia, può esserci ancora qualche lettore che consideri il piacere femminile e la sua narrazione come un atto di provocazione: Lisario Morales, che è la protagonista del romanzo, è in realtà una giovanissima spagnola priva, come tutte le donne del suo tempo, di ogni libertà e che, per di più, ha perso l’uso della parola a causa di un’operazione malriuscita, parola che, in ogni caso, le era vietata in quanto femmina. Scopre allora che per prevenire scelte che non abbraccia può usare il suo corpo, antico espediente delle donne, per evitarsi esperienze indesiderate: si addormenta a comando. La sua narcolessia volontaria dura anche mesi, come alla Bella addormentata delle fiabe. Peccato che a risvegliarla non ci sia il principe azzurro ma un medico cialtrone venuto dalla Spagna per rifarsi una carriera, Avicente Iguelmano. Ed è Iguelmano che, non sapendo dove mettere le mani, le mette nel posto sbagliato: la scoperta che il piacere risveglia Lisario invece di renderlo felice lo mette in sospetto. Non sarà che queste donne provano piacere anche senza l’uomo? E qual è il loro segreto? Ne diventa ossessionato, usa Lisario come oggetto di esperimenti scientifici ante litteram: è un voyeur, come gran parte del pubblico occidentale, ed è un paranoico. Lisario, con la sua complessa storia: avventurosa, comica, erotica e teatralmente barocca, è in fondo un paradosso che parla di noi, del nostro tempo e della libertà delle donne acquistata con fatica – e mai completamente – sul proprio corpo, da millenni asservito a necessità sociali maschili, religiose e laiche.

È un libro dove si fonde passato e presente. Storia e ambientazione seicentesca e registro narrativo contemporaneo; atteggiamenti antichi e ostentazioni moderne. Lo possiamo interpretare come una considerazione della circolarità del mondo e delle sue storie?

Non c’è dubbio che le storie si ripetano, spesso senza novità di rilievo, da un secolo all’altro ma questo accade non solo perché i nuclei dell’esperienza umana non variano ma anche perché i personaggi migrano come protagonisti esemplari da un tempo al successivo: l’arte è indiscutibilmente circolare e torna, rinnovandoli, sui suoi miti, che sono tali proprio perché descrivono intimamente il cuore umano. Così, Lisario è un romanzo ambientato fra il 1640 e la fine del XVII secolo, in piena rivolta di Masaniello, a Napoli e sotto il governo spagnolo, ma la sua ‘bella addormentata’ e i conflitti che le si svolgono intorno potrebbero accadere oggi o ripetersi in altri secoli. Del resto, è stato fatto notare durante una delle prime presentazioni del romanzo, Lisario è una cugina della protagonista del cunto di Giovan Battista Basile, Sole, Luna e Talia, che morta resta incinta e da morta partorisce due figli: forse che Basile non ha allucinazioni anticipatorie e la fantasia barocca non parla dei nostri ospedali dove partorire in coma è cosa ormai abituale?

Co-protagonista d’eccezione Napoli. La tua città ma anche la regina assoluta degli agglomerati urbani. Quanto ha inciso la perla partenopea sulla storia di Lisario?

La Napoli in cui il romanzo è ambientato è al massimo del suo splendore e delle sue contraddizioni: una bella addormentata come Lisario non poteva che abitare nella città più grande e prolifica d’Europa, più grande di Madrid che era al momento la sua capitale, e di Londra e di Parigi, in piena esplosione edilizia, con la maggiore presenza di pittori e botteghe in Italia, dove stava nascendo la musica moderna grazie a cinque conservatori capaci di produrre un’autentica industria culturale, abitata dai maggiori poeti del tempo, basti citare Marino, e, insieme, bersagliata dalle tasse, in continua rivolta, afflitta da ogni male legato alla delinquenza e alla sovrappopolazione. Questa città non può mai arrendersi a fare da sfondo e di sicuro è una co-protagonista del romanzo di non scarso rilievo, insieme a Lisario, Avicente, Michael de Sweerts e Jacques Israel Colmar.

Ogni premio ha la sua valenza ma lo Strega lascia tutti un po’ col fiato sospeso. Che sensazione hai provato nell’esserne finalista quest’anno?

Mi è sembrato un grande riconoscimento, specie da parte dell’editore, sostenere il libro nella più discussa delle kermesse culturali. Ho vissuto l’entusiasmo e la soddisfazione di chi mi ha sostenuto e sorretto nello sforzo, perché, al di là dell’emozione, è una bella fatica fisica star dietro al Premio. Sono molto grata alla Fondazione Bellonci e non meno grata, anche, al Premio Boccaccio presieduto da Sergio Zavoli. Un anno pieno di ritorni felici, dopo oltre vent’anni di scritture e tredici libri.

:: Intervista con Marisa Fasanella a cura di Irma Loredana Galgano

20 settembre 2014

ninaA Gennaio di quest’anno la EIR  ha pubblicato Nina di Marisa Fasanella. Un libro composto da circa 180 pagine ma di una profondità tale da farlo sembrare un volume enciclopedico, per il carico di riflessioni, accuse, passioni, tensioni, amori, denunce che l’autrice ha sapientemente miscelato regalando al lettore un grande romanzo al femminile. Una narrativa, quella della Fasanella, che esplora il mondo attraverso i filtri dell’universo femminile. Le donne, queste donne che vivono un’esistenza unica e irripetibile, nel bene e nel male.
Considerata alla stregua di una qualsiasi altra merce posseduta, la donna passa dal dominio patri/matriarcale a quello maritale senza aver voce alcuna in capitolo, potere decisionale o diritti di vario genere. Un oggetto che deve sapere stare al suo posto, deve coprirsi per non attirare l’attenzione degli altri uomini, deve partorire figli sani, preferibilmente maschi, deve restare chiusa in casa e rendersi quanto più disponibile possibile al volere del marito. Comportamenti e prese di posizione avallate in tutto e per tutto dalla religione e dai suoi ministri. A questo punto sarà chiaro a tutti che stiamo parlando di un Paese e di un popolo che ha conservato integri questi arcaici comportamenti fin’oltre la metà del secolo scorso, un Paese dove ancora oggi forse non è perfettamente diffusa e totalmente condivisa la parità sociale e civile tra i sessi… un Paese che si chiama Italia.
Nina, contro la sua volontà, viene data in sposa al ricco quanto dubbio possidente terriero e affarista Jacopo degli Armenti in cambio di un terreno. Dalle violenze fisiche seguenti sarà generata la piccola Nora che vivrà in casa con la madre ed entrambe saranno “accudite” dalla governante Rebecca, amante non troppo segreta del marito di Nina. La sua indole ribelle e libertaria porterà la donna a infrangere tutti i tabù e tentare di crearsi una nuova vita nonostante la stretta sorveglianza della rivale e dei cognati. Lui nel libro si chiama semplicemente l’Uomo, un ribelle al pari di lei, la persona che fa conoscere e assaporare a Nina non solo i profumi dell’amore ma principalmente quelli della libertà.
«Nei giorni che seguirono l’Uomo imparò a fare i conti con i silenzi, a non indagare sul dolore delle donne. Venivano avvolte in veli scuri e scoprivano solo la ferita più urgente, quella che gli unguenti non riuscivano a guarire e aveva bisogno di punti di sutura. Portavano i bambini e chiedevano qualche medicina miracolosa in grado di alleviare i morsi della fame.»
Sullo sfondo della vicenda incombe la Prima Guerra Mondiale raccontata dal punto di vista più tragico, quello dei morti e dei feriti… ragazzi poco più che adolescenti strappati alle loro vite e mandati a combattere al fronte una guerra che la paura contribuiva a rendere ancora più tragica, triste, atroce e… «Per farsi rimpatriare, si mutilano da soli, si amputano un braccio o si sparano un colpo di fucile nel muscolo di una gamba. Vivere sottoterra notte e giorno a scavare trincee ti guasta il cervello, o forse te lo aggiusta, e capisci che quella non è vita e che forse è meglio inciampare in una granata e fare un botto solo, piuttosto che morire poco alla volta».

Marisa Fasanella ha acconsentito a rispondere a qualche domanda e raccontarci le idee e le riflessioni che hanno contribuito a plasmare i personaggi e le storie di “Nina”.

Come nasce e si inserisce nello scenario della globalizzazione un libro come “Nina”?

Le donne calabresi sono sopravvissute al “dispotismo domestico”, ma anche all’esodo degli uomini, con i miracoli e le storie. Mia nonna, la vera affabulatrice della famiglia, correva dietro punti di ricamo e anime scomparse. La madre delle orfane, sua figlia, doveva credere all’immortalità della parola e che l’assenza non abita il ricordo. Con il sole a nicchia, nei budelli stretti profumati di mosto, raccontava la storia di Scintilla, sposata bambina a un uomo partito soldato, che tornando dai campi cantava all’innamorato sotto gli occhi vigili dei fratelli del marito. Dai suoi racconti e dai suoi miracoli nascono le mie storie. Nei vicoli, la vita si travasa da una casa all’altra, le voci si incanalano come lavine, trascinano pathos, lenzuoli sbiancati nella liscivia. La crescita ha coinciso con la lontananza da quei luoghi, solo molti anni più tardi, in un momento di vuoto emotivo, ho ritrovato l’incantesimo dei suoi lunghi monologhi. Siamo radici diventati alberi. Rami che si elevano verso la conoscenza, ma anche memoria, testimoni di cultura e di tradizioni.

La co-protagonista del testo è indubbiamente la “guerra”. La guerra che non è solo il primo conflitto mondiale marginalmente rappresentato ma l’istituzione in sé e soprattutto le sue conseguenze.

Credo che il libro sia importante anche per questo, proprio perché ricostruisce il clima che c’era in quegli anni, la tragedia della prima Guerra Mondiale, il lavoro delle donne. Sin da bambina ho sentito parlare dell’epidemia di influenza spagnola, mio nonno aveva visto morire cinque delle sue sorelle. Un lutto che non è mai riuscito a superare, tant’è che l’ultimo giorno di vita ha chiamato i loro nomi, diceva che erano venute a prenderlo. Io con le mie antenne di bambina sentivo il dolore che l’uomo esprimeva, ma anche quello della terra martoriata dalla miseria e dalle epidemie. La Calabria non è stata teatro del conflitto, ma ha vissuto la povertà della guerra, la depredazione, l’assenza, la latitanza. Non eravamo ancora uno Stato, l’altra Italia, per dirla con Calvosa, era un non luogo, combattevamo una guerra che non sentivamo nostra. Ma la vera protagonista è indubbiamente Nina. Una donna, la donna che rappresenta tante donne, troppe… la storia di Nina è storia delle donne. Vittima della violenza e del dispotismo familiare, si ribella a chi la vuole muta e servile, depositaria di “virtù femminili”. La scrittura slega i suoi passi, denuncia le violenze dentro le mura, apre i cancelli della casa. Troppi uomini reagiscono alla paura dell’abbandono e della solitudine con una violenza feroce. Troppe donne dormono a fianco di chi dovrebbe proteggerle e che diventa il loro aguzzino. Li chiamano ancora “delitti passionali”, ma sono un crimine verso una parte dell’umanità.

Stai lavorando a dei progetti in particolare?

Sono molto disordinata, scrivo di notte, senza perdere il filo della narrazione durante il giorno. Lavoro al nuovo romanzo ma cedo alla tentazione delle storie brevi, come mia nonna, acciuffo fantasmi.

Marisa Fasanella è una scrittrice calabrese. Con il suo romanzo d’esordio Maschere e lenzuola del vicolo Santacroce (Edizioni Periferia) ha vinto il Premio Letterario Nazionale “Donna e scrittura. Inedito nel cassetto”. Sua è  L’ombra lunga dei moroni (Rubbettino Editore, 2004 – Premio Nazionale Crati, Sezione Narrativa). Per l’editore Tullio Pironti ha pubblicato, nel 1996, la raccolta Gineceo. Undici crudeli racconti e, nel 2010, Rimorsi. Undici racconti (Premio Letterario Istmo di Marcellinara “Le Parole di Arianna” – sezione Narrativa; Premio Letterario Nazionale “Corrado Alvaro” XI edizione – Premio del Presidente. Finalista, prima rosa, Premio Letterario Nazionale “Rapallo-Carige” per la donna scrittrice, XXVII edizione). La giuria del Premio Nazionale “Vincenzo Padula”, VI edizione, le ha conferito il riconoscimento speciale per la narrativa.

:: Un’ intervista con Gianluca Arrighi a cura di Irma Loredana Galgano

12 marzo 2014

Cover_l'inganno_della_memoriaIl prossimo 27 marzo uscirà per Edizioni Anordest il nuovo legal thriller di Gianluca Arrighi: L’inganno della memoria, ancora una volta ambientato a Roma, città dove l’autore vive e lavora, svolgendo la professione di avvocato penalista. Lo abbiamo intervistato cercando di scoprire qualcosa di più sul nuovo libro, sulla sua vita come scrittore ma anche su quella privata.

Definisci la scrittura un caos di sensazioni contrastanti: passione, odio, amore, rabbia, gioia, impegno, commozione, fermento… perché?

Per raccontare una storia non è sufficiente narrarla, ma bisogna anche farla propria e immedesimarsi nelle vicende, nelle situazioni, nei personaggi. Chi scrive romanzi “vive” necessariamente tante vite e ognuna di esse trasmette, prima ancora all’autore che al lettore, una serie infinita di emozioni.

La tua professione ti pone quotidianamente in contatto con il crimine, con i delitti, le violenze eppure sembra che tu riesca a non farti schiacciare dall’ovvio e vai avanti, vai oltre a cercare sempre il lato umano anche in chi sembrerebbe averlo perduto. Cosa ti spinge in questa direzione?

La voglia di conoscere a fondo la natura dell’animo umano, anche se non è semplice vivere a stretto contatto con il crimine. L’amore per la professione e la passione per il diritto e la procedura penale spesso non sono sufficienti, soprattutto quando ci si trova di fronte a delitti molto efferati. Devo ammettere che scrivere per me ha un effetto terapeutico, mi consente di lavorare meglio e con maggiore serenità. Non bisogna mai dimenticare come anche il migliore degli esseri umani abbia dentro di sé una “parte oscura” e come il male sia un pezzo possibile della nostra vita. Cerchiamo di tenerlo lontano da noi, ma al tempo stesso ne subiamo il fascino perverso e seduttivo ogni volta che lo vediamo impossessarsi di un nostro simile. In qualche modo è come se, guardando il male, percepissimo una visione astratta di un qualcosa che, in modo latente, è presente nella nostra anima.

Il tuo primo romanzo, Crimina romana, è stato adottato come testo di narrativa ed educazione alla legalità in alcuni licei della capitale. È una bella responsabilità.  Come hai vissuto questa esperienza?

Crimina romana piacque molto al presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti che, insieme ad alcuni assessori, decise di adottarlo nei licei come testo di narrativa e di educazione alla legalità. Presentammo il libro nelle scuole superiori, dove io tenni alcune conferenze di cui conservo ancora un ricordo meraviglioso. A ogni incontro le aule magne dei vari istituti erano colme di studenti tra i sedici e i diciotto anni, assetati di giustizia e pieni di domande alle quali cercavano risposte.

A breve uscirà il tuo nuovo romanzo, sempre genere legal thriller, intitolato L’inganno della memoria. Anche questa volta lo scenario di sfondo sarà Roma, la tua città, che sembra anche essere un po’ la tua musa. Quali sono le sensazioni e quali le aspettative in merito al tuo nuovo libro?

Secondo me è venuto un buon lavoro, ma, si sa, ogni scarrafone… Lo scenario anche stavolta è quello della mia amata Roma, con i suoi vicoli, le sue chiese e i suoi palazzi. Ne L’inganno della memoria ho dato vita al personaggio di Elia Preziosi, un enigmatico e indolente pubblico ministero che dovrà indagare su una serie di inquietanti omicidi collegati tra loro da una misteriosa e indecifrabile logica. Sullo sfondo di una Capitale assolata e distratta, Preziosi dovrà affrontare i demoni del suo passato prima di poter giungere alla scoperta della sconvolgente verità. Quanto alle aspettative, spero solo di non deludere quelle dei tanti lettori che mi seguono con stima e affetto sin da quando, nel 2009, è iniziata questa mia parallela vita di scrittore.