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:: Un’ intervista con James Grady, autore de I sei giorni del Condor a cura di Giulietta Iannone

16 settembre 2016

j-grady-2006Caro Signor Grady, benvenuto su Liberi di Scrivere. Non so dirle quanto siamo onorati di poterla ospitare, quindi lascerò perdere e andrò dritta al punto.
Lei ha preso parte al movimento contro la guerra in Vietnam; ha mai pensato a se stesso come a un modello, qualcuno in cui la generazione che è cresciuta all’ombra del Watergate si potesse riconoscere? O forse sente di essersi semplicemente trovato al posto giusto nel momento giusto?

Domanda interessante, ma difficile. Nella primavera del 1969, nel corso del mio secondo anno di college a Missoula, Montana, entrai a far parte del movimento. Non che si trattasse di un’organizzazione, era più un sentimento, un impegno condiviso: si andava alle manifestazioni, si raccoglievano firme ecc. Poi, nella primavera del 1970, ci fu la sparatoria alla Kent State [il 4 maggio, nel corso di una manifestazione contro l’invasione statunitense della Cambogia, la Guardia Nazionale sparò sulla folla uccidendo quattro studenti e ferendone altri nove; n.d.t.]. Ancora a Missoula, presi parte alle proteste. Nelle vacanze tornai a Shelby, la mia città, un posto piccolo, molto più piccolo di Missoula; per pagarmi gli studi, d’estate lavoravo per il comune (riparazioni all’acquedotto, asfaltature, insomma, lavori manuali). Sapendo delle mie attività pacifiste, un membro del consiglio comunale e il direttore di un giornale locale, gente d’estrema destra, cercarono di farmi licenziare. Ma il mio capo, che pure non era d’accordo con le mie idee politiche, non volle cedere alle pressioni dei superiori. “Questa è l’America, e James può credere quello che cavolo gli pare”, disse. E fu così che il capo, un operaio ultraconservatore e che per di più non aveva studiato, divenne il mio eroe.
Poi, nell’inverno del 1971 ero a Washington. Lavoravo come stagista per un Senatore (non ero ancora laureato, ma ero entrato in un programma di tirocinio per gli studenti di giornalismo). Fu allora che mi venne in mente l’idea di Condor. A quei tempi, pareva che il paese fosse avvolto in una nebbia di misteri e pericoli – la guerra, la nascita  di uno stato di polizia, il passaggio dalla sperimentazione psichedelica all’eroina, la Mafia- in Montana come a Washington. Con Condor ho cercato di affrontare tutto questo. E il mio tempismo è stato perfetto. Le notizie sul Watergate e sul ruolo della CIA si stavano appena affacciando sui giornali quando il romanzo è arrivato all’editore, e, subito dopo, a Dino De Laurentiis. Penso che se il libro fosse uscito un anno prima, o magari un anno dopo, non avrebbe funzionato. Insomma, ho scritto il romanzo giusto al momento giusto. Ho avuto fortuna.

Oltre ad essere un romanziere, ha lavorato anche come giornalista e sceneggiatore. Quali di queste esperienze le ha dato di più?

Be’, per quanto ami i film, e ora anche i nuovi prodotti per la tv, comici o drammatici, dei quattro anni in cui ho lavorato come giornalista investigativo per l’editorialista Jack Anderson (all’epoca Anderson era syndicated columnist e i suoi pezzi venivano ripresi su 1000 giornali diversi) ho un ricordo stupendo; e poi le esperienze fatte in quel periodo hanno avuto un’enorme influenza sulla mia narrativa. Volevo scavare, un po’ come Leo Sisti, presente? Sempre alla ricerca della storia dietro i titoloni, attento ai passaggi di potere, puntare il dito su chi sfruttava i meno fortunati. Per questo avevo momentaneamente accantonato la mia carriera di romanziere (in parte danneggiandola): speravo di poter fare qualcosa di buono. Ancora oggi, nella mia vita di narratore, attingo alle cose che ho imparato allora, per strada, e dietro le porte chiuse, lì dove il pubblico non arriva.

Per lei, il successo è arrivato prestissimo: subito dopo aver pubblicato I sei giorni del Condor. Che può dirci dell’America di allora? Com’era essere un giovane liberale con grandi ideali e qualche disillusione negli anni ’70? E che ne pensa di questa definizione? Era davvero come la immaginiamo, “un giovane liberale con grandi ideali e qualche disillusione”?

Il mio successo con Condor, be’, in quel periodo l’America si è risvegliava dal conservatorismo dei ’50, rifiutavamo il dominio della generazione dei nostri genitori, che avevano fatto la Seconda Guerra Mondiale, e be’, il Vietnam. Era eccitante, un momento di apertura, in cui potevi inseguire i tuoi sogni e avevi qualche possibilità di realizzarli.
E io il più grande dei miei sogni personali (certo, non di quelli politici) l’avevo già realizzato: il mio romanzo d’esordio aveva avuto successo, e ne avevano tratto un film destinato a diventare un classico, avevo un meraviglioso secondo lavoro come reporter investigativo (un fatto di coscienza, non avevo bisogno di soldi). Ero davvero convinto che se avessi gestito come si deve la mia vita e il mio talento, e se non mi fossi fatto spaventare, avrei potuto fare la differenza. Forse sarei riuscito a scrivere della narrativa che davvero ripagasse in parte tutta la fortuna che avevo avuto.
Non mi rendevo conto che non tutti, neanche nella mia generazione, mettevano la stessa passione nella ricerca della giustizia e della verità. Non tutti volevano davvero cambiare le cose, ma d’altra parte quei pochi che lo volevano davvero sono riusciti a fare la differenza. Mai abbastanza, certo, ma d’altronde è sempre così: la lotta per la giustizia e l’onore non finisce mai. È questo che ci rende umani.
A livello più personale, ero deciso a non sprecare l’opportunità che avevo. Dovevo fare quello che dovevo fare: scrivere romanzi. Non potevo buttare all’aria la mia fortuna, per cui facevo una vita morigerata, sostentandomi con lo stipendio da reporter e mettendo da parte il resto per poter scrivere. Mi vestivo e vivevo da studente universitario, blue jeans e camicie economiche, giacche di pelle e scarpe da ginnastica. Spendevo solo per libri, i film e la musica (rock ‘n ‘roll). Per il resto ascoltavo la radio. Di solito mi alzavo alle 6.30 e andavo a dormire alle 11, ed evitavo i bagordi (non che fosse difficile, all’epoca, nella triste Washington). Certo, non potevo dirmi esattamente monogamo, come potrebbero testimoniare diverse ragazze con cui all’epoca ho avuto relazioni di lunga durata, ma non sono mai stato un festaiolo, né un artista del rimorchio. Lavoravo 40 o 50 ore a settimana, andavo a correre per tenermi in forma, e ci davo dentro per imparare a scrivere meglio. C’erano talmente tanti modi in cui potevo bruciarmi: avrei potuto cominciare a drogarmi pesante, sperperare tutto quello che avevo, diventare presuntuoso o lanciarmi in relazione sessuali dall’esito disastroso. Ma ero troppo ingenuo e timido per cadere preda di queste opportunità di autodistruzione.
Ero (sono) un idealista, ma un idealista nato da genitori piccolo borghesi e cresciuto in una cittadina proletaria, uno che ha seguito i detective della omicidi in azione nel corso delle guerre tra bande per il controllo dello spaccio, che ha parlato con criminali piccoli e grandi e conosciuto l’eroismo della gente comune.
Per me ormai liberale non significa più molto. Un po’ come conservatore. Diciamo che voglio la maggior libertà possibile – libertà dalla paura, dalla violenza e dall’ingiustizia- per tutti i cittadini del mondo. Certo, sono un idealista, ma senza la luce degli ideali come faremmo a muoverci in questi tempi bui?

Nel 1975, il suo romanzo è diventato un film di Sidney Pollack, I tre giorni del Condor, e lei è stato coinvolto nella scrittura della sceneggiatura. Nel cast c’erano, tra gli altri, Max von Sydow, Robert Redford e Faye Dunaway. Può raccontarci qualche aneddoto sulla produzione del film? E c’è qualcosa che secondo lei dovremmo assolutamente sapere sulla sceneggiatura?

In effetti non l’ho scritta io, quella sceneggiatura: avevo 25 anni, all’epoca, e mai e poi mai mi avrebbero lasciato mettere le mani in un progetto multimilionario. Devo dire, però che Dino, Redford, Sydney Pollack, sono stati tutti gentilissimi con me. Potevo andare sul set quando volevo, e loro mi mostravano tutto mi spiegavano il funzionamento delle cose, ecc.
Ma una cosa curiosa, su quella sceneggiatura la so, almeno a grandi linee: hanno continuato a scrivere e riscrivere il testo man mano che le notizie sul Watergate e sugli scandali della CIA e della politica saltavano fuori. Era il 1973, o forse l’inizio del 1974, e Nixon lottava per tenersi il posto.
Per quanto riguarda la sceneggiatura in generale, quello che gran parte delle persone non considera mai, è che una sceneggiatura è un po’ come uno schema tecnico, o un progetto per un edificio alla cui costruzione partecipano molte persone, e in circostanze che cambiano di secondo in secondo. È raro che lo sceneggiatore veda riprodotta su pellicola la sua idea proprio com’era sulla carta, anche perché tradurre la teoria nella pratica non è sempre così facile: tanto per dire, che succede se al momento di girare piove sempre e si finisce il budget per le riprese in esterno?

Recentemente, oltre a rivedere il film, ho riletto i Sei giorni del Condor. Era un po’ che non lo facevo. Che dire? Il suo libro ha la bella capacità di non annoiarmi mai, ed è una cosa molto rara. Posso chiederle come le è venuta l’idea? E si aspettava di avere tutto questo successo?

Grazie! Quello del 1971 è stato un inverno freddo. Io lavoravo al Campidoglio, e ogni giorno, arrampicandomi su per Capitol Hill, passavo davanti a un edificio d’angolo con le pareti imbiancate. In quella zona c’erano solo villette o bassi condomini, questo, invece era un palazzo alto tre piani. C’era una targa sulla porta, eppure non avevo mai visto nessuno entrare o uscire. Così pensai: e se fosse una copertura della CIA? Forse bastò qualche passo, o forse ci volle qualche giorno, ma mi venne una seconda idea: e se fossi rientrato in ufficio dalla pausa pranzo e avessi trovato tutti morti?
Due belle domande. Cercando di immaginare una risposta, con tutto quello che stava succedendo in quel periodo. Sapevo solo che Condor doveva essere un uomo comune, non un supereroe alla James Bond. Così è nato il mio romanzo. Chissà, forse tutta l’arte nasce da questo genere di domande.
Non avevo idea che Condor avrebbe avuto successo! Non ero neanche sicuro di riuscire a trovare un editore. Ma la scrittura mi aveva sempre attratto, fin da quando avevo sei anni, e questa storia la dovevo proprio scrivere. Tra tutte quelle che mi erano venute in mente, questa di Condor era la prima abbastanza forte da diventare un romanzo.

A un certo punto, Maronick dice a Condor che farebbe meglio a continuare a leggere, perché la sua fortuna è finita, e quando succede un uomo non vale poi molto. Ogni volta che arrivo a questo punto… B’e, non posso fare a meno di pensare che è fantastico.
Comunque, come ha detto lei, Joe Turner/Ronald Malcolm è un uomo comune, un accademico diventato spia. Pensa che questo tipo di relazione sia rappresentativo del modo in cui i giovani si rapportavano con l’establishment, e cioè essendone oppressi ma ribellandosi allo stesso momento?

In America, questo modo particolare di ribellarsi al controllo e all’oppressione, di contestare l’autorità e l’establishment è emersa negli anni ’60, tra il movimento per i diritti Civili, le proteste contro il Vietnam, e la paura di chi vive sotto la guerra fredda, sapendo che, con l’atomica, il mondo avrebbe potuto autodistruggersi in quindici minuti. L’idea era sì, ribellarsi, ma per creare “qualcosa di meglio”, come direbbe Camus. Volevamo essere costruttivi, non semplicemente distruttivi. Questo atteggiamento mi piacerebbe tanto ritrovarlo tra i giovani d’oggi.

Sul finale del film, di fronte agli uffici del Times, c’è un senso di solitudine, un certo malessere che nel romanzo mi pare meno palpabile. A questo punto del libro, Condor ha scoperto certe cose su di sé, cose che non sospettava; è cresciuto e maturato, e si è scoperto più portato di quanto credesse per lo spionaggio. In quanto autore del romanzo e del film, lei è forse l’unica persona al mondo che possa rispondere a una domanda così diretta: film o romanzo, I tre giorni o i Sei giorni del Condor, quale dei due ha il finale migliore?

Accidenti, bella domanda. Penso che per rispondere sia necessario prendere in considerazione le differenze tra due lavori. E penso che entrambi i finali abbiano una risonanza importante all’interno sia del testo, che del contesto in cui sono apparsi.
E sarà pur vero che sono l’unico al mondo che possa rispondere alla domanda, ma davvero non so cosa dire: mi piacciono sia il libro che il film. Il finale del film lascia forse più speranze a livello generale, mentre il romanzo è più incentrato sulla dimensione personale.

Come si sente a parlare ancora del suo libro, dopo tutti questi anni?

Fortunato. Mi sento incredibilmente fortunato a sapere che il mio lavoro è ancora vitale, ancora vivo. Come le ho detto, ogni tanto ancora mi stupisco.

In qualche modo, I tre giorni del Condor si allontana dai Sei giorni del Condor; nel film trovo tracce di una disillusione politica che nel libro è meno evidente. Pensa che questa differenza sia dovuta al confronto con il regista? E posso chiederle se e come ha collaborato a rivedere la trama originale?

Il disincanto e la prospettiva più ampia che si trovano nel film sono opera di Redford, di Pollack e di Dino; volevano fare un film importante, il più onesto e profondo possibile riguardo a quello che stava succedendo ai tempi. Probabilmente erano influenzati dai grandi film francesi e italiani degli anni ’60. Sentivano di avere delle responsabilità nei confronti del pubblico, la nazione, il mondo. Ci sembrava, a tutti noi, di correre dei grossi rischi politici e sociali, proponendo intrattenimento di questo genere: e se Nixon non fosse caduto? E se la CIA avessero prevalso sulle forze della giustizia e della verità? Nel momento in cui scrivevano e giravano il film queste possibilità non sembravano affatto remote. Condor è uscito prima di Tutti gli uomini del Presidente. Ma come ho già detto, io non ho partecipato direttamente alla scrittura del film.

I sei giorni del Condor è il primo capitolo di una serie; può dirci qualcosa degli altri romanzi? Quanti sono? E come sono stati accolti dal pubblico?

All’epoca delle riprese, e cioè nel momento in cui il libro stava per essere pubblicato, ho pensato di scrivere una serie di romanzi con Condor come protagonista, cinque in tutto; nell’ultimo lui sarebbe morto o impazzito. Gli agenti, l’editore, tutti quanti, cavolo: tutti gli esperti mi hanno consigliato di fare così. A metà della scrittura del secondo romanzo, però, mi sono reso conto che non avrei potuto competere con il Condor nella versione di Redford, e allo stesso tempo, che se insistevo a proporre una serie di storie, un certo numero di romanzi di questo tipo, avrei finito per essere etichettato, e pubblicare altri generi di storie che volevo scrivere sarebbe stato più difficile. Ovviamente non è né giusto né logico, ma è così che vanno le cose. Insomma, ho finito il secondo romanzo (L’ombra del Condor), e poi ho lasciato perdere il personaggio fin dopo l’11 settembre. Allora ho scritto un romanzo breve con un Condor “moderno” per esprimere la mia rabbia, tristezza, e preoccupazione per quello che stava succedendo. In seguito, ho pubblicato altri tre o quattro racconti o romanzi brevi, questi però con il Condor “originale”. E poi Condor appare anche in un cameo nel mio romanzo Mad Dogs. In fine, l’anno scorso, ho pubblicato il primo vero e proprio sequel, Il ritorno del Condor, in cui il protagonista cerca di sopravvivere allo stato di massima allerta seguito all’11 settembre.
Tutte le storie e i romanzi sono stati ben accolti dal pubblico. Il commento che preferisco lo devo al Washington Post: nella loro recensione si legge che Il ritorno del Condor fa pensare a Orwell e a Bob Dylan.

In chiusura, una domanda sulla situazione attuale: che ne pensa degli Stati Uniti di oggi? Nel giro di pochi mesi potreste ritrovarvi con il primo presidente donna, oppure…

Per me la cosa più importante, più ancora del rischio che Trump diventi presidente, è tutto il seguito che ha avuto. Il consenso nei suoi confronti ha rivelato la presenza di certe forze pericolose. Trump si è servito dei suoi averi per far leva sull’ignoranza, la paura, le bugie, l’odio, e la forza dei personaggi televisivi. E Se perde, be’, questo non significa che la verità, la giustizia, la razionalità, l’umanità e lo stile di vita americano hanno trionfato. Signfica solo che abbiamo scampato la catastrofe, e che ci aspetta un enorme lavoro di reinvenzione politica e sociale. Più che ottimista direi che sono speranzoso. E sì, sarebbe bello avere un presidente donna. Sarebbe ora che le donne venissero trattate davvero come pari, e che avessero la possibilità di realizzarsi appieno.

Che altro posso dirle? Grazie per avermi risposto. Se mi avessero detto, solo un paio di anni fa, che avrei avuto l’occasione di intervistarla, non ci avrei mai creduto. Ma be’, probabilmente è anche questa la forza del blogging e della stampa libera.

[Traduzione a cura di Fabrizio Fulio Bragoni]

Nota: recensione di I sei giorni del Condor, qui.

:: I sei giorni del Condor, James Grady (Rizzoli, 1975) a cura di Giulietta Iannone

18 Maggio 2016
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Maronick abbassò gli occhi sulla figura ai suoi piedi. “Addio Condor. Un ultimo consiglio. Continua a fare il lettore. La tua fortuna si è esaurita. E quando la fortuna ti abbandona, non vali gran che”. Scomparve nel bosco.                     

È quasi impossibile leggere I sei giorni del Condor (Six Days of the Condor, 1974) senza immaginarsi Robert Redford nei panni del protagonista, con la sua facciona da bravo ragazzo, i capelli biondo sporco, le giacche di velluto a coste.
È infatti difficilmente pensabile che ci sia ancora qualcuno che nel 2016 non abbia visto I tre giorni del Condor di Sydney Pollack, adattamento cinematografico del romanzo di James Grady. Viene passato nelle tv in chiaro praticamente a cadenza fissa, c’è una nuova versione restaurata che esce in DVD a circa 10,00. Insomma non si hanno molte scuse, il film è da vedere.
Per quanto riguarda il libro invece ci sono maggiori possibilità di non averlo letto, ed è un peccato, perché merita, merita davvero ed è per certi versi diverso dal film. Ci sono cambiamenti sostanziali nella trama, i nomi dei personaggio sono quasi tutti diversi, è molto più crudo e sovversivo, per certi versi, del film che è stato fatto.
Sia chiaro io adoro il film di Pollack, e per me è una delle migliori spy-story che abbia visto, ma il libro è diverso. Chiarito questo, non farò in questa recensione una comparazione puntuale tra libro e film (anche se sarebbe divertente) ma mi limiterò di fare un veloce cappello al film e approfondire il libro, con ampi spoiler, per cui se non avete letto il libro, o non amate anticipazioni sulle trame forse è bene che vi fermiate qui e che torniate a lettura avvenuta.
Allora I tre giorni del Condor è un classico film di denuncia e impegno civile, tipico della filmografia anni 70 post Watergate. Sotto le mentite spoglie della spy-story, o forse proprio usando il genere come grimaldello per scardinare sicurezze o illusioni, ci narra una generazione che ha perso l’innocenza e la fiducia nel sistema tipica degli anni ‘50 o ’60.
In questo il film è un capolavoro del genere, per quanto non sia privo di debolezze nella trama e sulla inverosimiglianza torneremo più approfonditamente nell’analisi del libro. Ciò che mi preme dire invece è che questa storia pur con i suoi difetti funziona, piace, ed è terribilmente efficace nel porre un uomo qualunque (un lettore di libri gialli) contro le derive del sistema, i meccanismi perversi che regolano il potere occulto, che è infondo il vero potere.
Nel film si parla di petrolio e Medio Oriente, nel libro di droga, ma insomma la sostanza non varia di molto. Ci sono poteri deviati, sottocellule non controllate dalla base capaci di commettere crimini, di uccidere, di essere al di sopra della legge. Ma noi abbiamo il nostro Davide contro Golia, il nostro Joe Turner/ Ronald Malcolm dotato di una fortuna sfacciata (ma anche di doti di adattamento e di improvvisazione non da ridere) che da topo di biblioteca (senza uno specifico addestramento per interventi sul campo) si trasforma in eroe. Nel libro non a caso a un certo punto Maronick/Jubert gli dice “La tua fortuna si è esaurita. E quando ti abbandona, non vali gran che”.
E il film, forse più del libro, è un autentico manifesto di tutto ciò con un finale tipico della cieca fiducia liberal nei media e nella carta stampata. Celeberrimo il finale davanti agli uffici del New York Times, con un lungo e ibrido “se”. Puntini di sospensione. Certamente un finale aperto più pessimistico del libro.
Detto questo veniamo al libro diviso in sei giorni da un mercoledì a quello seguente. Siamo a Washington, e non a New York, in primavera e non in autunno e il nostro Ronald Malcolm è un tipo forse più grezzo del Joe Turner /Robert Redford. Scoreggia, bestemmia, soffre di raffreddori ricorrenti e molto invasivi. E soprattutto non è lui a scoprire che qualcosa non va alla sezione, ma a farlo è un incolore economo, di nome Heidegger, (alcune discrepanze nelle casse di libri).
Segue la scena più geniale, e incisiva che abbia mai potuto leggere su carta o vedere al cinema: l’assalto armato all’ American Literary Historical Society, mentre Ronald Malcolm è fuori sotto la pioggia a comprare le colazioni (uscito da una porta sul retro, una vecchia carbonaia). Malcolm si salva, avventurosamente (è l’inizio della sua bizzarra fortuna) ma naturalmente “deve morire”.
E inizia la caccia.
Chi vuole ucciderlo? Perché?
Saranno le domande che ci accompagneranno nella vertiginosa caccia all’uomo. Parlavo di inverosimiglianza, e naturalmente c’è e è anche evidente, ma è giocata sul limite del credibile, in un modo così naturale e repentino, che sembra quasi inevitabile. Ricordiamoci che la parte più incredibile del libro, la sezione di Malcolm della CIA, il Gruppo 54/12, pur con altri nomi e le operazioni di Open source INTelligence, rispecchiano la realtà. Esistono davvero ricercatori che scartabellano giornali e libri, in cerca di fughe di notizie, suggerimenti, notizie utili. Già Lyndon Johnson disse:

“(…) i successi più importanti non vengono dalle operazioni di spionaggio condotte nell’ombra e nell’ mistero, ma nascono dalla paziente lettura, per ore e ore, di periodici tecnici altamente specializzati. Essi [i ricercatori della CIA] sono veri e propri studiosi professionali. E la loro opera è tanto oscura quanto inestimabile”.

Quindi dato questo assunto per vero, tutto il resto passa in secondo piano, il topo di biblioteca che compete con killer professionisti (senza un reale addestramento), la donna (Wendy) che viene rapita, gli crede, se ne innamora e lo aiuta, tutto in una manciata di ore, l’allacciamento dei telefoni per non farsi rintracciare (aveva fatto un lavoretto estivo per la Compagnia dei telefoni), l’incontro fortuito al Campidoglio tra Macolm e Wendy e Atwood e Maronick, Maronick stesso che nel finale gli salva la vita, sperando che questo venga considerato dalla Compagnia un suo gesto di amicizia che gli permetta poi di non essere a sua volta braccato. Insomma se sospendete l’incredulità la storia funziona, e funziona alla grande. E questa sospensione non necessita poi neanche di un grande sforzo (e in questo sta la bravura di Grady).
Va bene il finale non lo racconto, anche se sarei tentata, ma è certamente più ottimistico del film. Ronald Malcolm ormai è cambiato, non è più il lettore di gialli entrato nella CIA per aver fatto una lunga dissertazione su Nero Wolfe nelle sue prove di laurea.
Forse il punto in cui libro e film maggiormente divergono sta nel fatto che nel libro abbiamo un vecchio e Kevin Powell a ridare al sistema una legittimità e un’aura positiva, a fungere da anticorpi in un sistema tutto sommato sano che sa curare le sue ferite, saranno loro infatti a salvare o perlomeno ad aiutare Malcolm, anche se in realtà fa tutto da solo.
Insomma il sistema ha falle grandi come il traforo del Monte Bianco, ma esisteranno sempre uomini capaci di fare la differenza, schegge impazzite forse o non omologate, capaci di sfuggire dalle maglie oppressive del sistema e lottare per il bene. O ciò che resta del bene, in questo nostro mondo adulterato da debolezze e corruzione. E questo è il messaggio che resta invariato negli anni, che fa attraversare questo libro il tempo senza accusare grandi colpi.
Da leggere. Traduzione di Argia Micchettoni.

Leggete anche questi articoli di Davide Mana: qui (un altro punto di vista sul libro) e qui (sul film).

James Grady (1949) è giornalista e scrittore. È stato reporter investigativo, sceneggiatore per il cinema e la tv e ha pubblicato diversi romanzi che gli hanno valso numerosi premi tra i quali una nomination all’Edgar Award nel 1997, il Grand Prix du Roman Noir nel 2001 e il Raymond Chandler Award nel 2003. Dal primo episodio della trilogia, I sei giorni del Condor, è stato tratto il capolavoro di Sydney Pollack con Robert Redford. Il ritorno del Condor, l’ultimo romanzo della serie, è disponibile in BUR.

Nota: intervista a James Grady, qui.

Source: acquisto personale.

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