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:: Il Mediterraneo in barca di Georges Simenon (Adelphi 2019) a cura di Nicola Vacca

18 luglio 2019

csL’altra faccia di Simenon romanziere è il raccontatore di storie. Così si definisce nei suoi pezzi giornalistici e nei suoi reportage.
Dal 1931 al 1946 lo scrittore è stato un reporter singolare e tutto da scoprire.
Da Adelphi è appena uscito Il Mediterraneo in barca (nella traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Maria Laura Vanorio).
Il volume raccoglie una serie di articoli in cui il grande scrittore racconta storie, persone e fatti durante un viaggio a bordo di una goletta nel bacino del Mediterraneo.
Simenon, spinto da una curiosità morbosa, si avventura in mare e sa che il Mediterraneo è tante di quelle cose, lui con la sua penna in questi articoli si è permesso di filosofeggiare con la consapevolezza di raccontare le storie che accadono sul mare che ha dato al mondo il suo alfabeto.
Con l’inventore di Maigret viaggiamo da Genova, Nizza, passando per Tunisi e Hammamet. Simenon veste i panni del lupo di mare in cerca di storie da raccontare e di immagini da immortalare. (Nel testo sono presenti alcuni scatti che lo stesso Simenon ha fatto forse per dare un volto o una sensazione alle parole che andava scrivendo e che raccontavano la vita di bordo attraverso le persone).
Lo scrittore non è mai scontato nell’inventare le storie o nel raccontare semplicemente quello che accade durante il viaggio.
Anche nella sua attività giornalistica il grande scrittore mostra un volto convincente: quello di chi ha un desiderio di raccontare storie vere e inventate, tutte cullate dal Mediterraneo e dal suo mito.

«Resto così, con la penna a mezz’aria, in seria difficoltà, come quando da bambino, in piedi davanti alla lavagna, spostavo il peso da una gamba all’altra e intanto cercavo con la coda dell’occhio un compagno compassionevole.
Il Mediterraneo è …».

Simenon vorrebbe tanto dare una definizione di Mediterraneo, ma durante questo viaggio sulla goletta subisce tutto il fascino del suo mistero. Lui è uno scrittore.
Non gli resta altro da fare che navigare il mare, affrontarlo e contenerlo nelle parole delle sue storie, raccontarlo senza riserve, mostrargli il suo grande amore, come hanno fatto Stevenson e Conrad.
Il Mediterraneo in barca è il resoconto di un viaggio. Il grande romanziere su mare scopre la sua vocazione di «raccontatore di storie».
Ci piace molto quello che scrive, ma soprattutto ci affascina quello che racconta del Mediterraneo. Ce lo immaginiamo a bordo della sua goletta mentre osserva l’equipaggio e i suoi pensieri ondeggiano sulle onde. Simenon in queste pagine ha raccontato principalmente il Mediterraneo cha vissuto e attraversato e con la sua grande penna ce lo ha raccontato, seguendo i venti e le correnti e soprattutto la direzione che la sua barca di volta in volta ha preso inseguendo rotte tutte da esplorare.

Georges Simenon – Scrittore belga di lingua francese (Liegi 1903 – Losanna 1989). Tra i più celebri e più letti esponenti non anglosassoni del genere poliziesco, la sua produzione letteraria, soprattutto romanzi gialli, è monumentale: essa conta poco meno di duecento romanzi, fra cui emergono − per popolarità in tutto il mondo e per salda invenzione − quelli della serie di Maigret, quasi tutti tradotti in italiano. Dopo il suo primo romanzo, scritto a 17 anni (Au pont des arches, 1921), si trasferì a Parigi dove pubblicò sotto svariati pseudonimi opere di narrativa popolare. Nel 1931 con Pietr le Letton, che uscì sotto il suo nome, inaugurò la fortunatissima serie dei romanzi (circa 102) incentrati sul commissario Maigret, che rinnovarono profondamente il genere poliziesco. Negli USA dal 1944 al 1955, tornò poi in Europa, stabilendosi in Svizzera; nel 1972 smise di scrivere, limitandosi a dettare al magnetofono, e tornò alla scrittura solo per redigere i Mémoires intimes (1981). Autore straordinariamente prolifico, con stile semplice e sobrio ha narrato nei suoi romanzi, caratterizzati da suggestive analisi di ambienti, la solitudine, il disagio esistenziale, il vuoto interiore, l’ossessione, il delitto (La fenêtre des Rouet, 1946; Trois chambres à Manhattan, 1946; La neige était sale, 1948, trad. it. 1952; L’horloger d’Everton, 1954; Le fils, 1957). Gran parte di questa abbondante produzione, che ha ispirato molti film ed è stata tradotta in 55 lingue, è stata riunita nelle Oeuvres complètes (72 voll., 1967-73) e in Tout Simenon (27 voll., 1988-93). Ricordiamo inoltre i racconti e le prose autobiografiche (Je me souviens, 1945; Pedigree, 1948, trad. it. 1987; Quand j’étais vieux, 1970; Lettre à ma mère, 1974, trad. it. 1985; la serie Mes dictées, 21 voll., 1975-85), e le raccolte di articoli À la recherche de l’homme nu (1976), À la decouverte de la France (1976), À la rencontre des autres (1989). Nel 2009, in occasione del ventennale della morte, è stato pubblicato in Francia a cura di P. Assouline il monumentale Autodictionnaire Simenon, lungo le cui voci (in gran parte tratte da interviste, carteggi e appunti dello stesso S.) si snoda un’originalissima e dettagliata biografia dello scrittore.

Source: Libro inviato al recensore dall’Editore, ringraziamo Benedetta Senin dell’Ufficio Stampa “Adelphi”.

:: Gli Undici di Pierre Michon, traduzione di Giuseppe Girimonti Greco (Adelphi, 2018) a cura di Nicola Vacca

28 settembre 2018

copertina michonDopo lo splendido Vite minuscole, Adelphi prosegue nella pubblicazione dei libri di Pierre Michon. Adesso esce Gli Undici (nella traduzione di Giuseppe Girimonti Greco).
Romanzo pubblicato in Francia nel 2009 in cui lo scrittore con una parola potente rievoca il clima della Rivoluzione Francese.
Al centro delle vicende narrate c’è Gli Undici, il dipinto che ritrae i protagonisti di quel periodo storico visti da François Élie Corentin, allievo di Tiepolo.
In una fredda notte di gennaio del 1794 il pittore viene prelevato dalla sua abitazione da un drappello di sanculotti e viene portato nella chiesa di Saint –Nicholas- des – Champs dove gli viene commissionato il quadro.
Rappresentare Il Gran Comitato del Grande Terrore, dando nella tela a Robespierre e ai suoi la massima evidenza, questo è il compito che il pittore deve assolvere.
La carneficina e alle porte e quel quadro deve rappresentare la volontà di prepotenza di un potere lacerato al suo interno e tiranno.
Michon racconta la storia dell’ordinazione del quadro, la genesi di un capolavoro che rappresenta l’ultima cena laica di un potere che celebra se stesso e si appresta a annegare nel sangue le istanze di libertà che propaganda.
Gli Undici, scrive Michon, non sono un esempio di pittura storica: sono la Storia.
Quel quadro rappresenta la Storia in persona. Attraverso gli undici maggiorenti della Rivoluzione, la Storia è terrore allo stato puro. E questo terrore attira tutti come un magnete.
Il quadro che Corentin realizzerà ha la forza sinistra della Storia, seduce con tutto il male che raffigura attraverso quelle undici creature di terrore e d’impeto che con le loro azioni hanno procurato sgomento nel nome di valori universali.
Michon inventa personaggi e situazioni per dare vita a una storia che (attraverso la finzione di un quadro e del suo artista) pone l’accento sui pericoli sempre attuali della violenza della Storia che finisce sempre per instaurare nella vita degli uomini un clima esagerato di terrore.
Il quadro non esiste, come non è mai esistito il suo autore. Michon riesce con una scrittura tagliente a scrivere una romanzo politico che mette sotto processo la violenza della Storia che non sempre serve il bene dell’umanità.

«E invece gli undici uomini vivi sono la Storia in atto, al culmine dell’atto di terrore e di gloria che fonda la Storia – la presenza reale della Storia».

E noi siamo lì davanti, impotenti nel vedere il sangue che scorre.

Pierre Michon (Châtelus-le-Marcheix, 28 marzo 1945) è uno scrittore francese. Tra le sue opere tradotte in Italia Padroni e servitori, Rimbaud il figlio, Vite minuscole.

Source: libro inviato dall’editore al recensore.

:: Recensione di Zitto e muori di Alain Mabanckou (66th and 2nd, 2013) a cura di Giulietta Iannone

29 ottobre 2013

mabanckou_zitto_coverxwebNon smetto di pensare un solo istante al fatidico giorno che mi ha portato qua, al tardo pomeriggio di quel venerdì 13 in cui, invece di godermi l’estate appena arrivata, i parchi di Parigi, i lungosenna pieni di gente, le donne che passeggiavano mezze nude per la città, all’improvviso, in quella strada poco frequentata del XVIII arrodissment, ho visto calare una cortina scura sulla mia vita. Nessun altro ricordo mi ha mai tormentato tanto, e sono addirittura arrivato a credere di essere in balia di una specie di incubo, e che la mia esistenza attuale sia soltanto un miraggio che al mio risveglio svanirà.  

Oggi voglio parlarvi di un piccolo gioiellino noir che ho scovato prima leggendone la segnalazione su un blog, e poi leggendone la recensione di Lorenzo Mazzoni sul Fatto Quotidiano.
Si intitola Zitto e muori (Tais-toi et meurs, 2012) dello scrittore congolese Alain Mabanckou. Edito da 66thand2nd, giovane casa editrice romana che vi consiglio di tenere d’occhio, (ha una collana B-Polar con titoli decisamente interessanti come Non sta al porco dire che l’ovile è sporco del beninese Florent Couao- Zotti, e La bionda e il bunker della scrittrice francese, nata a Parigi da madre bosniaca e padre montenegrino, Jakuta Alikavazovic) e tradotto da Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, questo surreale e divertente noir ci porta nella multietnica e colorata Parigi dei giorni nostri, abitata da immigrati di tutte le nazionalità, la cui convivenza spesso turbolenta e indisciplinata, fatta non solo di solidarietà e aiuto reciproco ma anche di rivalità, gelosie e antagonismi, fa i conti con integrazione e razzismo.
La comunità congolese che ruota intorno al quartiere di Chateau-Rouge, definito con scherno e disprezzo da Mama La Padrona, proprietaria del ristorante l’Ambassade il “ghetto congolese”, fa da sfondo a questo romanzo insolitamente corale, sebbene narrato in prima persona da Julian Makambo, giunto a Parigi dal Congo-Brazzaville in cerca del suo pezzetto di futuro, in un mondo in cui il successo si misura anche solo nel potere mandare soldi a casa, o nei vestiti sgargianti dei Sapuer, membri del Sape (Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes), capaci di saltare i pasti pur di avere il guardaroba fornito di abiti firmati e scarpe di anaconda.
Ma Makambo, in lingala significa “guai” e al protagonista, sebbene clandestino con i falsi documenti di un certo Josè Monfort, i guai non mancheranno. Infatti l’amico e cognato Pedro Bolawa, piccolo delinquente che campa di espedienti e traffici illeciti, fornendo documenti falsi e abitazione e “lavoro” al clan di Rue de Paradis, è stato contattato per un colpo davvero grosso, pagato in contanti duecentomila euro, una sorta di regolamento di conti, perché il razzismo ha una doppia faccia ed esiste anche quello dei neri nei confronti dei bianchi, sembra dire l’autore con sincero disincanto, e sceglie proprio Julian come spalla e capro espiatorio. Perché nella comunità vige la legge dell’omertà e zitto e muori può essere inteso in modo metaforico o letterale, come spiega  Shaft al nostro esterrefatto Makambo che non ha nessuna intenzione di andare in galera per un crimine non suo.
Ecco in breve la trama di Zitto e muori, un noir africano che con ironia e sprazzi di vera comicità ci racconta di un mondo ai margini, vitale e pittoresco, se vogliamo anche naif, ma governato da regole spietate. La comunità africana a Parigi non è fatta tutta di delinquenti più o meno piccoli, ma c’è anche questo volto che Mabanckou ci descrive senza ipocrisie o falsità, ed è il bello di questo romanzo, privo di quel “buonismo” ipocrita che spesso accompagna il concetto che hanno alcuni dell’identità nera in Europa, e privo nello stesso tempo dei rugginosi preconcetti che fanno degli africani persone rozze e ignoranti. Esempio ne è lo stesso autore che ora vive in California e insegna alla Ucla.
Chiassoso, colorato, pieno di musica, non è un noir triste o che fa del facile vittimismo, anzi impreziosisce di pagine raccontate con uno stile elegante e fantasioso una narrazione anche eticamente importante. Sembra che non ci sia genere più indicato del noir per descrivere le ambivalenze e le oscurità della nostra società, – la critica del sistema legale francese è feroce, pur coi tratti dell’ironia (l’avvocato incapace, la psichiatra coi capelli grigi e ricci, i secondini)- , viste da un ospite, da uno straniero giunto in Francia per sfuggire alla povertà ma ancora legato alla sua terra d’origine, tenuta stretta con proverbi, musiche, aneddoti, ricordi.
La letteratura dell’immigrazione è ricca di perle come questa e dona nuova linfa ad un genere che sembra rinascere sempre con nuove facce. Spero di leggerne altri romanzi così. Vorrei segnalare come ultima cosa il simpatico disegno in copertina di Gigi Pescoldeung.                   

Eclettico e irriverente, il poeta e romanziere Alain Mabanckou è nato nel 1966 nella Repubblica del Congo. Figlio unico, è cresciuto nella caotica Pointe-Noire, capitale economica del paese, insieme all’amatissima madre, figura centrale della sua vita: non a caso tutti i suoi libri sono dedicati a questa donna forte e determinata che lo ha spinto nel 1989 a trasferirsi in Francia per completare gli studi. E a Parigi Mabanckou è rimasto per oltre dieci anni, assaporando il clima multietnico delle banlieue, dove culture diverse si incontrano e si scontrano, creando quel mix fertile che riaffiora nei suoi romanzi. Primo autore francofono dell’Africa subsahariana a essere pubblicato nella prestigiosa collana Blanche di Gallimard, Mabanckou ha ricevuto numerosi riconoscimenti per i suoi romanzi, tra cui il premio Renaudot per Memorie di un porcospino e il premio Georges Brassens per Domani avrò vent’anni. Attualmente Mabanckou insegna alla Ucla dove si è guadagnato il soprannome di «Mabancool» perché è considerato il professore più cool di tutta la California. Nel frattempo Black Bazar è diventato un disco, sono in preparazione due film tratti dai suoi libri e l’Académie française gli ha attribuito il Grand Prix de Littérature Henri Gal 2012 per l’insieme della sua opera.