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:: L’arte non è faccenda di persone perbene di Lea Vergine, (Rizzoli, 2016) a cura di Lucilla Parisi

30 dicembre 2016
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“L’arte è il magico e il mostruoso insieme”, e quando questo accade l’opera d’arte ti lacera senza che tu riesca, a parole, a spiegare il dolore. “Ci sono immagini che toccano chissà quali nodi del nostro inconscio, per cui ciò che stai guardando ti immobilizza”. E’ ciò che accade con la bellezza, quella bellezza che “può essere un colpo al cuore, un affanno.”
Così Lea Vergine, critica d’arte e autrice di numerosi libri, ci introduce nel suo viaggio attraverso la sua esperienza con la vita e con l’arte, dal suo passato “che non passa” e dove tutto cominciò – al quinto piano di un palazzo (“il grattacielo”) di Napoli situato nell’allora piazza Matteotti, oggi piazza Carità – al fermento culturale dei salotti milanesi, passando attraverso le Gallerie d’Arte romane, come La Tartaruga di via del Babuino o la Galleria Pogliani, solo per citarne alcune.
Era la fine degli anni Cinquanta quando, diciannovenne, lasciò gli studi universitari per scrivere d’arte su riviste e giornali napoletani, cimentandosi in quella che poi diverrà la sua professione di critica, nata dalla passione per l’arte e la scrittura. Dopo Napoli vennero Roma e Milano e, soprattutto, il necessario distacco dalla famiglia.
Lea Vergine ci racconta di un’infanzia complicata, fatta di separazioni e non detti: un pianerottolo divideva la sua casa, in cui viveva con i nonni paterni, dall’appartamento della madre e dei suoi fratelli più piccoli. Un compromesso per salvare le apparenze e le fragilità di un padre, morto giovanissimo, e di una madre incapace di volerla abbastanza e lei, Lea, stretta tra il peso delle aspettative dei nonni e i sentimenti contrastanti per una madre negata: “se l’infanzia è stata dura (ne posso parlare solo da un paio d’anni), l’adolescenza e la gioventù sono state molto peggio. Alla paura si è aggiunto il dolore e non mi riesce neanche adesso raccontarlo.
Nella delicata conversazione con Chiara Gatti che si sviluppa in queste pagine, Lea Vergine tenta di ricucire pensieri ed emozioni legate proprio a quel periodo della vita, rivivendo quelle immagini infantili come presagi carichi di significato. E vivi sono i ricordi di Napoli, come i sentimenti che ancora, la scrittrice, porta con sè: il turbamento alla vista dei colori dell’aurora sulla città, quella che – ventenne – correva ad ammirare, pescando, dal mare; la commozione per il tramonto sui muri delle case, il cui grigio e rosso pompeiano si mescolavano al viola, per compiere il miracolo; la nostalgia per i grandi spazi e l’architettura stratificata da secoli di storia, dominazioni e contaminazioni. E’ impossibile dimenticare l’esperienza di una città colma di tradizioni, profumi, suggestioni e Napoli, dal canto suo, non è una città che dimentica, anzi “è una città dove nessuno dimentica mai niente e dove tutto è successo ieri.
Roma e Milano vennero dopo, con gli incontri importanti e i luoghi di ritrovo, le occasioni di lavoro e gli scambi in un ambiente ricco di spunti e idee:

all’Hotel Continental, una volta alla settimana, Ettore Sottsass e Nanda Pivano tenevano banco. Erano incontri importanti per lo svecchiamento di Milano, perché Nanda arrivava dall’America e raccontava, mentre Ettore chiosava. A casa di Lalla e Gillo Dorfles esisteva l’idea di generosa ospitalità, proprio come a casa di Ottiero Ottieri e Silvana Mauri. […] La casa alternativa, oggi si direbbe, era quella di Achille Mauri, illuminata dalla presenza della moglie Diana, dove conobbi Carmelo Bene. […] Erano tutte case dove si cenava e poi si discuteva per ore, fino a notte. Tutto questo faceva di Milano una città diversa.

E poi il matrimonio con Enzo Mari “una pietra. Indispensabile.”
L’arte è il significato e la scrittura il mezzo: Lea Vergine scrive d’arte e non solo, e lo ha sempre fatto con cura, con la dovuta attenzione ai particolari, ai vezzi e al carattere.

Si scrive col corpo, dalla testa ai piedi. Muovo le mani sulla carta. Il tatto è imprescindibile. Devo sentire la materia della carta, devo sentire l’odore, e devo sentire la matita tra le dita, devo poter piegare il foglio in diversi modi. […] Le parole sono pietre che mi tengono ancorata alla scrivania. Sono particelle di un pensiero che prende forma. […] Butto sulla carta tutto quello che mi passa per la mente. Quando ho finito questo traffico, tra il demente e il demenziale, accendo un’altra sigaretta, prendo una forbice, ritaglio gli appunti, prendo una spillatrice e attacco gli appunti su un foglio. […] Spengo la sigaretta nel posacenere, lascio sul tavolo il testo concluso ed esco a comprare dei fiori. Fiori di stagione.

Non si può fare a meno dell’arte, e se lo si fa sarebbe davvero un peccato: trovarsi di fronte all’ “enigma”, al metafisico, all’inspiegabile è qualcosa per cui vale la pena rischiare la caduta, la lacerazione che spesso l’abbandono alla bellezza può portare.
Ciò che si guarda è il riflesso dell’ignoto che ognuno di noi si porta dentro: l’arte non fa altro che riportare a galla l’arcano e il magnifico insieme. Certo non è per tutti e sicuramente “l’arte non è faccenda di persone perbene.” D’altronde

chi non è intento all’ombra dell’immagine ignora il senso dell’immagine poiché è nell’ombra che l’immagine ristà, celata. L’immagine, come la persona, senza ombra è l’immagine che non ha il doppio. […] E tuttavia l’ombra resta inaccessibile perché noi siamo l’ombra, giacché siamo fondamentalmente quanto ci manca.

Lea Vergine, critica d’arte, è autrice di numerose pubblicazioni tra cui Il corpo come linguaggio / Body Art (1974); Attraverso l’Arte / Prati-ca Politica (1976); L’Arte ritrovata (1982); L’Arte in gioco (1988); Gli ultimi eccentrici (1990); Arte in trincea (1996); Body art e storie simili (2000); Ininterrotti transiti (2001); Parole sull’arte (2008) e La vita, forse l’arte (2014).

Source: libro del recensore.

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