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:: Recensione di Assassini di Philippe Djian (Voland, 2012) a cura di Giulietta Iannone

12 ottobre 2012

Marc era convinto che ce l’avessi proprio con lui per l’imprecisato numero di tonnellate di veleni riversatosi nel fiume. Certo, lì per lì avevo avuto uno scatto. Come chiunque altro. Ma l’indomani mattina ero tornato al lavoro alla Camex- Largaud. Come qualunque abitante di Héno­ch­ville. Una piccola arrabbiatura che non esplodeva, anzi andava spegnendosi prima ancora di uscire di bocca. Quanto a me, se gli avevo dato”dell’assassino”era per ragioni vaghe, perse nei meandri dell’amicizia. Riguardo ai pesci morti, certo, lo ritenevo un assassino. Ma non meno di me o Thomas, non meno di un qualsiasi impiegato della Camex-Largaud, non meno del più piccolo negoziante della città. Tutto qui. Eravamo invischiati in questa situazione da talmente tanto tempo che preferivamo non pensarci.

Benvenuti a Héno­ch­ville, ridente cittadina francese di montagna, in cui la natura sembra essersi impegnata al suo meglio per farne un piccolo paradiso: boschi di abeti, un fiume ricco d’acqua e di pesci, la  Sainte-Bob, cieli azzurri. Il posto ideale dove vivere se non fosse per il fatto che una fabbrica, la Camex-Largaud, di proprietà di Marc Largaud, riversando da anni rifiuti tossici nel fiume, inquinandolo inarrestabilmente, ne sta segnando la morte.
La gravità della situazione sembra impensierire il Ministero dell’Ambiente che ad ogni incidente manda nuovi ispettori a fare il punto della situazione. Di norma grazie a bustarelle e signorine compiacenti tutto si sistema, finché non capita l’imponderabile. Arriva in città Victor Brasset. Accetta i soldi, va a letto con la bella Luarence, ma poi sul punto di chiudere l’accordo risulta irremovibile: la Camex-Largaud deve chiudere.
Per gli abitanti di Héno­ch­ville la fabbrica è praticamente l’unica fonte di reddito, chiuderla significherebbe gettare sul lastrico intere famiglie, così un po’ perché la situazione gli prende la mano, un po’ perché Luarence colpisce in testa Victor Brasset, Marc e il suo migliore amico Patrick Shea­han, narratore in prima persona della storia, rapiscono l’ispettore e lo portano in una baita di proprietà di Marc. Il caso vuole che anche alcuni amici in gita gli facciano visita, così Thomas e sua moglie Jackie e la bella irlandese dai capelli rossi Eilen Mac Keogh, inquilina di Patrick Shea­han, si trovano imprigionati nella baita, perché nel frattempo un vero e proprio diluvio si è abbattuto nella zona rendendo impraticabili tutte le vie d’accesso.
Inizia così un soggiorno coatto, allietato da candele, ottimi vini e cibi raffinati, in cui emergono tutti i conflitti irrisolti tra i protagonisti, mentre la forza dell’acqua è sul punto di spazzare via tutto.
Assassini (Assassins, 1994) di Philippe Djian, primo volume di una trilogia composta anche da Criminels e Sainte-Bob, sebbene tratti di un argomento di stretta attualità, uscì in Francia per Gallimard ben 18 anni fa e solo oggi, grazie all’editore romano Voland, possiamo leggerlo anche in Italia, tradotto da Daniele Petruccioli.
A dispetto del titolo non ci sono veri assassini o un vero delitto, non almeno nel senso normale del termine. Certo i pesci del fiume muoiono e Marc Largaud, la sua fabbrica e tutti quelli che ci lavorano sono coinvolti, ma la presunta vittima che potrebbe rendere veramente assassini i personaggi, seppure dolorante e malridotta, continua a respirare per tutto il romanzo.
Può essere considerato lo stesso un noir a tutti gli effetti? Come in tutte le opere di Djian è lecito porsi questa domanda che inevitabilmente porterà a ponderare il fatto che come dice Djian stesso, i suoi lavori sono un qualcosa che nessuno aveva mai osato o voluto scrivere. Per me sono noir. Anche senza fiumi di sangue, pistole fumanti, e tutto il corollario a cui siamo abituati. Il noir nasce quando si sonda l’oscurità dei personaggi, e di oscurità in questo romanzo ce ne è parecchia.
Un attimo di spiazzamento quando a pagina 161 dalla prima persona passa alla terza ma “Non ho cercato di capire, ero troppo occupato a lottare contro Patrick Sheahan, con il quale tentavamo di strozzarci a vicenda” mi sembra un buon consiglio da seguire.

:: Recensione di Incidenze di Philippe Djian (Voland 2012) a cura di Giulietta Iannone

4 febbraio 2012

Diventare un bravo scrittore prima dei trenta, ecco una cosa davvero inimmaginabile salvo rare eccezioni, trent’anni è il minimo assoluto, attaccava sempre con i suoi studenti, pensate si impari a far risuonare le parole in un giorno, o anche in cento, o che la grazia caschi dal cielo in un attimo, state a sentire, voglio essere franco con voi, calcolate vent’anni, calcolate vent’anni prima di saper riconoscere la vostra voce, a prescindere da come vi ci metterete, questo per dire che se qualcuno tra voi nutre una pur vaga illusione in proposito si rassicuri, amici miei, ve lo dico io, non aspettatevi niente di importante, niente di sconvolgente, niente di veramente valido prima di vent’anni, seppiatelo. Intendo due decenni. Guardate, chi non ama il sacrificio è meglio se rinuncia subito. Ecco, ho scritto il mio nome sulla lavagna. Inutile cercarlo su Wikipedia. Non sono Michel Houellebecq. Spiacente.

Marc, il protagonista di Incidenze, titolo originale Incidences, traduzione di Daniele Petruccioli, breve e strano romanzo di Philippe Djian uscito l’anno scorso per Voland avvolto nell’aura di culto che in Francia circonda il suo autore, lo incontriamo per la prima volta una bella serata d’inverno imbiancata dalla luna, dopo tre bottiglie di vino cileno molto forte a bordo della sua malridotta 500 dalla marmitta assordante come un aereo a reazione, che se ne torna a casa con una ragazza ubriaca a fianco. Molto più giovane di lui, una sua studentessa per giunta di cui ricorda a malapena il nome e che ha un certo insolito talento cosa abbastanza insolita nella mediocrità assoluta che lo circonda. Già, perché Marc, cinquantatre anni, scrittore frustrato dalla mancanza di talento, non potendo scrivere si accontenta del suo surrogato più prossimo, insegnare scrittura in una piccola e sperduta università di provincia e quasi meravigliandosi lui stesso compensa ogni sua inadeguatezza letteraria, con un talento altrettanto appagante  apparire decisamente irresistibile per le sue giovani studentesse che si succedono nel suo letto a ritmo forsennato e lui è pronto ad approfittarne quasi con rabbia accecato da un’ oscura volontà tesa a mascherare il vuoto e la pochezza che è la sua vita. Barbara, questo è il nome della ragazza, se ne ricorderà infine qualche giorno dopo, si era appena iscritta al suo laboratorio di scrittura e lui non aveva cercato neanche per un secondo di lottare contro l’attrazione che provava per lei, un’attrazione eccessiva. Barbara non ha intenzione di rimanere un’avventura sullo sfondo senza importanza, ha deciso di conquistarsi un posto di rilievo nella sua vita. Aveva ventitre anni. Labbra a cuore. Fianchi pronunciati. Gambe un po’ tozze. Ed è inequivocabilmente morta il mattino dopo. Marc non si ricorda gran chè di quella notte, solo che lo avevano fatto. Non lo sfiora nemmeno il pensiero di averla uccisa, ma poi è davvero una morte accidentale, ne siamo proprio sicuri, pur tuttavia un certo senso di colpa lo spinge a nascondere le tracce ad attraversare il bosco che circonda la sua casa e digrada fino al lago e buttarla in un crepaccio prima di correre sporco di fango e impresentabile a lezione a parlare di John Gardner e della narrativa morale. La scomparsa della ragazza crea un po’ di agitazione, un funzionario di polizia viene incaricato di indagare e Marc, forte delle precauzioni prese, nasconde la verità e si finge anche stupito pure con la presunta madre adottiva Maryam, personaggio che riserverà qualche sorpresa, una vera donna finalmente in un mare di conquiste senza rughe e senza personalità, una donna di cui Marc non potrà che non innamorarsi perdutamente, a modo suo comunque. Gravato da un passato oscuro, la follia della madre ha lasciato cicatrici indelebili in lui e in sua sorella Marianne, una madre morta con suo marito nell’incendio della loro casa, e anche qui il dubbio che la mano di Marc adolescente non l’abbia appiccato si fa insistente, l’uomo si trova a combattere con la sua coscienza, con il licenziamento imminente, nelle mani di Richard Olso il direttore del dipartimento di letteratura, uomo mediocre, che ha acquistato un posto di potere senza merito, di una stronzaggine nauseante, una nullità incompetente e insignificante che insidia Marianne con le armi spuntate della sua pochezza, con il suo amore fino al finale improvviso, spiazzante privo di redenzione. Incidenze dicevo all’inizio è un romanzo strano, crudele se vogliamo, un noir cinico e triste, di una tristezza venata non di malinconia ma qualcosa di più cattivo, velenoso, rabbioso. Djian mette in bocca al suo protagonista riflessioni sulla letteratura, amare e spiacevoli quasi che con la scusa di imbastire una storia che ruota intorno al grumo oscuro di una verità negata, di menzogne ben congegnate, della differenza sottile tra vero e falso, in realtà si accanisse sui mali che affliggono la letteratura, sulle difficoltà di essere scrittore, sul fatto che essere un mediocre di successo a volte è tutto quello che conta. Il personaggio di Richard permette a Djian tutto questo e gli permette di far da specchio alle frustrazioni del protagonista personaggio in cui sebbene è ben difficile riconoscersi o identificarsi è per tuttavia portatore e depositario di alcune verità folgoranti che fanno quasi impressione in bocca a lui. Marc gioca sporco si sa, inganna il lettore ma non se stesso, ci porta  ad intravedere qualcosa che poi ci viene nascosto dietro il velo del dubbio e dell’incertezza. E’ un personaggio fluttuante, complesso, e schiacciato dalle incidenze che sembrano costellare la sua vita. La sua moralità è stata incenerita nell’infanzia, non aspettiamoci che sappia distinguere il bene e dal male, il rassicurante opportunismo e l’ipocrisia borghese non gli appartengono, e questa sua anima noir viene descritta con intensità e efficacia. Il morboso rapporto con la sorella, l’incesto che occhieggia e lascia un sapore acre fino all’ultimo, fino alla inutile telefonata con la sua studentessa nel bungalow a testimoniare, che non è cambiato, nè il sesso nè l’amore hanno avuto su di lui questo potere e quando accende l’accendino per fumarsi la sua ennesima sigaretta, sappiamo che non ci mancherà o forse sì.  Già questo dubbio non ci lascerà per un bel po’ di tempo anche dopo aver chiuso il libro.