
Il western, come sappiamo, vive di mitologemi inesauribili, situazioni e codici capaci di rigenerarsi pur restando riconoscibili. Certo, quanto detto vale per tutti i generi ma forse le grandi narrazioni sulla conquista dell’ovest poggiano su un apparato iconico che non ha precedenti, capace di porsi trasversalmente a molte forme dell’immaginario collettivo (quanto western c’è, per dire, nella saga di Star wars?). D’altra parte, proprio coloro i quali hanno dettato le regole hanno anche saputo trasgredirle. Penso, sul piano cinematografico, al ribaltamento visivo operato da John Ford nel miliare L’uomo che uccise Liberty Valance, in cui agli esterni della wilderness si sostituivano le pareti di un ristorante, il tracciato urbano e infine le sale rumorose della politica.
Un’operazione non dissimile viene tentata da Claudia Cravens nel suo romanzo d’esordio Le spietate (in originale Lucky red ma l’edizione italiana cerca, non senza ragioni, l’aggancio col classico contemporaneo di Eastwood Gli spietati): questa volta osserviamo l’epopea dell’ovest dalle finestre di una casa di tolleranza, topos non solo del western: a questo proposito, se volessimo continuare con le analogie cinema- letteratura, non potremmo non citare Maupassant. Se Boule de suif era il sottotesto di La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox poi tradotto in cinema da Ford nel suo celeberrimo Ombre rosse, qui potremmo fare riferimento a La maison Tellier, racconto maupassantiano che aveva al centro proprio un gruppo di prostitute raccontate nella quotidianità della loro casa d’appuntamenti. Cravens sceglie un bordello di alto profilo, ben frequentato perché sponsorizzato dalle autorità della città di Dodge city (altro luogo canonico, teatro tra le altre cose delle gesta di Wyatt Earp) come scena primaria per l’apprendistato di Bridget Shaughnessy, sedicenne dai capelli rossi, orfana forte solo della propria bellezza e intraprendenza. Dopo un incipit nel quale Cravens ci racconta la vita randagia di Bridget, vittima di un padre avventuriero destinato a fare una brutta fine, ecco che l’autrice fa reagire chimicamente il suo personaggio al contesto cittadino che la accoglie con inesorabile indifferenza dopo il suo vagare per lande desolate. Cosa può fare una ragazza sola per sbarcare il lunario se non usare i pochi mezzi sopra elencati? Lila e Kate, l’una più materna l’altra più brusca, entrambe maitresse del Buffalo Queen, riconoscono il potenziale di Bridget e la avviano sulla strada della prostituzione. Cravens non indulge nemmeno per un momento a cliché melodrammatici; caratteristica principale della sua protagonista è, pur nell’inesperienza e nella paura, la ferrea volontà di autodeterminazione. Su queste basi è leggibile anche il suo rapporto con i maschi. Bridget ha successo, piace ai frequentatori della casa, siano essi semplici cowboy o uomini d’affari ma soprattutto stringe un legame con il vicesceriffo Jim Bonney, personaggio che riserverà qualche sorpresa.
In linea con certe linee guida della narrativa contemporanea, il coté action viene garantito da un altro personaggio femminile, forse il più dirompente del romanzo: la cacciatrice di taglie Spartan Lee, carismatica e letale, capace di far breccia nel cuore di Bridget. Anche da questi brevi cenni di trama è facile capire come Cravens ribalti i valori formali in campo, declinando al femminile un genere che il luogo comune vuole eminentemente maschile (anche se ci sarebbero ragioni per obiettare e in quantità).
Le spietate è prima di tutto un romanzo di formazione e lo è nei suoi assunti ed esiti più tipici poi anche un romanzo d’azione svolto principalmente su un set unico ma non per questo sprovvisto di varietà e movimento. Le istituzioni concentrazionarie si prestano felicemente alla metafora e sono perfette per raccontare l’intero mettendone in scena solo una parte. In più abbiamo a che fare con il sesso e il desiderio. Bridget dimostra un talento innato nella gestione di queste inclinazioni ed è brava a capitalizzare dipendenze e vizi. Sono tematiche particolarmente fertili che Cravens riesce a trattare senza morbosità, con uno sguardo lucido e capace di far fruttare gli spunti narrativi che incontra. Ancora una volta torna alla ribalta il randagismo della cultura statunitense, la difficoltà ma anche la necessità di mettere radici (o il rifiuto, come dimostra la parabola di Spartan Lee), torna il Grande Carnevale Americano ben sintetizzato dalla scena dell’esecuzione pubblica così come da quella della festa di paese, luogo di sintesi e analogie terribili perché date praticamente per scontate nel loro rituale di aggregazione sociale. Le spietate dimostra una volta di più come un genere fondativo e ultraclassico possa resistere a scossoni e deragliamenti, tanto da capovolgerne le strutture consolidate, come una foto stampata al negativo. Traduzione di Serena Daniele.
Claudia Cravens è una scrittrice americana laureata in Letteratura al Bard College, e vive a New York. Le spietate è il suo romanzo d’esordio.

Credo che il più famoso scrittore di westerm (della letteratura, almeno) fu Holly Martins, personaggio non secondario de Il terzo uomo, e suo malgrado al centro di una piccola e divertita diatriba letteraria (un inside joke di Greene) che poneva la letteratura alta (di cui Holly Martins ne sapeva poco o niente) accanto alla letteratura di genere (di cui a tutti gli effetti il genere western, o più in senso lato il genere avventuroso, fanno parte). Holly Martins era un mediocre scrittorucolo senza ambizioni certo, ma è divertente vederlo scambiare per un autore di prestigio da una platea di sconcertati lettori convenuti per un reading. Che molta letteratura western sia dozzinale e standardizzata e soprattutto veicoli un immaginario forse superato e per certi versi reazionario (ci ha pensato la cinematografia degli anni 70 in poi a dare giusta dignità agli indiani per esempio e un giusto contesto storico, sempre più realistico) è pur vero, ciò non toglie che anche la peggiore è divertente e rilassante, insomma capace di intrattenere senza troppe fisime o snobistiche pretese intellettualistiche. Quando ho voglia di rilassarmi, e non riflettere sui massimi sistemi, insomma un buon western fa al caso mio, con buona pace di chi la ritiene letteratura spazzatura. Ed è così che quando mi è giunto tra le mani Il forte della vendetta (Fort Vengeance, 1957) di Gordon D. Shirreffs, tradotto da Alda Carrer, in una edizione speciale per Corriere della Sera, su licenza di Meridiano Zero di Odoya, l’ho letto con piacere. Lo stile è semplice, scorrevole, quasi ipnotico, i personaggi simpatici, l’ambientazione tipicamente western: l’Arizona selvaggia tra pini messicani, robinie e fichi d’india, fiumi e altipiani del 1870. (Non dimentichiamoci che Shirreffs scrisse anche il celebre Rio Bravo (1956), e per la sua vasta produzione è considerato a tutti gli effetti uno dei maestri del genere). Sarà che per me il western cinematografico ha il faccione sornione di John Wayne, mi è difficile non dare ai personaggi del romanzo le sembianze dei tipici attori western hollywoddiani anni ’50, ma lascio a ognuno di voi di sceglierli, se diverte anche voi questo gioco. Il forte della vendetta ha per protagonista il maggiore Dan Fayes, inviato quasi per punizione (ha un passato alquanto turbolento) a Fort Costain, uno sperduto avamposto della Frontiera, in cui i soldati invece di vivere in un regime di ordine e severa disciplina si lasciano andare alle più estreme (per l’epoca) dissipatezze: alcool, donne e gioco d’azzardo. Mettere un barlume di ordine è insomma il suo compito principale, e Dan Fayes lo prende molto seriamente, anche se diventa subito l’oggetto delle avance della seducente Melva sorella del medico militare. Anche Harriett, la figlia del padrone dello spaccio vicino al Forte, è molto gentile ed educata, insomma beato tra le donne si direbbe. Ma invece il nostro insospettito dal comportamento di alcuni soldati ha altro a cui pensare, e pian piano inizia a sospettare che ci sia davvero qualcosa di losco sotto. Infatti gli Apache di Vento Nero sono troppo aggressivi, muniti di troppe armi. Forse qualcuno all’interno del Forte li rifornisce? Dan con l’aiuto di una guida indiana, e dopo molte peripezie, (come di pragmatica), scopre cosa c’è sotto. Dunque una trama semplice e lineare, per un onesto romanzo di avventura. Buona lettura.























