
L’insieme dei testi proposti da Domenico Catalfamo configura un itinerario poetico di rara intensità, profondamente radicato nella memoria, nella povertà rurale, nella sofferenza collettiva e nella formazione etica dell’individuo. Come lettrice araba e studiosa di letteratura italiana, ho percepito in queste poesie una vibrazione umana universale che trascende i confini culturali: un’eco di sacrifici, dignità silenziosa e dolore condiviso che parla direttamente al cuore.
Un primo nucleo tematico centrale è la memoria familiare, che in Catalfamo diventa fondamento identitario e spazio etico. In Corpo e sangue, la figura del nonno emerge come simbolo di una generazione provata eppure moralmente integra. L’immagine del pane offerto — «il bianco pane che a te stesso forse e alla nonna togliesti di bocca» — mi ha profondamente colpita per la sua capacità di condensare in un solo gesto tutta la nobiltà del sacrificio umano. E la definizione del nonno come «cristo bestemmiatore senza peccato» racchiude quel paradosso struggente in cui la marginalità sociale si converte in purezza morale. Come lettrice araba, ho ritrovato in questo ritratto la stessa etica del sacrificio che attraversa molte narrazioni popolari delle nostre culture mediterranee.
Anche il rapporto tra temporalità e frattura esistenziale costituisce un asse di grande rilievo. In Sospensione, l’affermazione «il tempo è fermo. / Ma la vita è nell’ombra» restituisce una percezione interiormente lacerata del tempo, una sensazione che riconosco profondamente appartenere ai popoli che hanno vissuto instabilità e incertezze. La memoria, in Ricordo, diventa un archivio fragile: ciò che resta è conservato «nel silenzio dei ricordi», mentre tutto il resto svanisce. Questa poetica dell’intermittenza mi ha toccata con particolare forza, perché riecheggia modi di sentire ampiamente condivisi nelle culture arabe, dove il passato spesso sopravvive più nel cuore che nei fatti.
Le poesie di ambientazione rurale, come Pecorelle, descrivono un mondo contadino lontano da ogni idealizzazione. L’immagine delle pecore che procedono «sotto il peso lungo della vita» è una metafora antropologica potente, attraverso cui Catalfamo restituisce la fatica quotidiana degli ultimi. Leggere questi versi, per me, significa riconoscere una sofferenza universale, la stessa che segna la vita dei lavoratori rurali in molte regioni arabe.
La dialettica tra perdita e desiderio trova espressione raffinata in Amore rustico, dove l’amore non vissuto acquista una forza persino maggiore perché «finì prima ancora di cominciare». È una poetica dell’incompiuto che appartiene a tutte le grandi letterature, ma che qui ho sentito particolarmente vicina per la sua delicatezza emotiva.
L’esperienza della migrazione, centrale nella storia mediterranea, emerge con forza in Il padre dell’emigrante: l’«abbraccio… formalità di un addio» mi ha colpita come una delle immagini più dolorose dell’intera raccolta, perché evidenzia la natura burocratica e forzata di un distacco imposto dalle condizioni socio-economiche: un tema che risuona profondamente anche nei nostri mondi arabi.
In Per i caduti della «Gessolungo», la poesia assume invece una dimensione civile, raccontando la morte operaia senza retorica, come risultato di un sistema che consuma «le carni ancora tiepide d’affetto». Qui, come lettrice araba, ho sentito l’universalità della protesta contro l’ingiustizia e l’ineguaglianza.
Parallelamente, alcune liriche introducono un registro più contemplativo. In Fantasticherie, il sole che «chiude le ferite» indica la possibilità di una guarigione naturale, mentre Asterischi d’autunno rilegge l’autunno come fase transitoria in cui la fine diventa premessa di rinascita: «le cose muoiono per rinascere». Questa dialettica vita-morte costituisce un asse concettuale ricorrente.
La dimensione introspettiva culmina in Solitudine, con la rosa «votata alla morte più che alla vita», simbolo della fragilità umana, mentre in Dolce maestro la perdita di un giovane allievo diventa «tirocinio aspro della morte», un’immagine che mi ha profondamente turbata e che sintetizza tutta la potenza tragica della poesia.
Infine, Testamento chiude la raccolta con una dichiarazione etica limpida: non «casa» né «campi», ma solo «uno smilzo me stesso». Una confessione che, da lettrice straniera, ho avvertito come una lezione universale: l’eredità più autentica non è materiale, ma morale.
Nel complesso, Le parole e il tempo di Domenico Catalfamo si configura come un corpus poetico coerente, in cui memoria, povertà, dignità umana, sofferenza e speranza si intrecciano in un umanesimo essenziale. Come lettrice araba, ho percepito in queste poesie una risonanza profonda con la sensibilità dei popoli mediterranei: la stessa attenzione alla fragilità della vita, la stessa celebrazione del sacrificio silenzioso, la stessa fede ostinata nella dignità dell’essere umano. È un’opera che non si legge soltanto: si vive, si sente, e lascia nel cuore una traccia lunga.



























