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:: Un’intervista con Oriana Ramunno a cura di Giulietta Iannone

25 gennaio 2022

Oggi abbiamo il piacere di intervistare Oriana Ramunno, autrice del libro “Il bambino che disegnava le ombre”(Rizzoli) seconda classificata alla dodicesima edizione del Liberi di Scrivere Award.

Benvenuta Oriana su Liberi di scrivere e complimenti per il secondo posto. Ho sentito davvero pareri lusinghieri sul tuo libro, per alcuni uno dei migliori libri editi l’anno scorso in Italia. Ce ne vuoi parlare? Come è nata l’idea di scriverlo?

Grazie a voi per aver scelto Il bambino che disegnava le ombre tra i libri votabili, ve ne sono davvero grata.Questo libronasce in un momento più maturo del mio percorso di scrittrice, iniziato ormai dieci anni fa, in cui mi sono sentita finalmente pronta a raccontare l’Olocausto. Da piccola ho ascoltato e trascritto i ricordi di mio zio Angelo, un sopravvissuto ai lager nazisti, e nel tempo ho provato a capire i suoi racconti studiando la Storia, cercando di capire le origini di quella che è stata una delle pagine più brutte dell’umanità. Dopo aver sviscerato ogni aspetto di quelle pagine terribili, ho voluto raccontarle e ho deciso di farlo con un genere che da sempre sonda le ombre e le luci dell’animo umano, mettendoci di fronte alle nostre più grandi paure, ma offrendoci anche delle soluzioni finali catartiche: il giallo.

Vivi a Berlino è vero? Parlaci un po’ di te della tua infanzia, del tuo lavoro?

Ho vissuto a Berlino per tre anni, da settembre sono ritornata bolognese insieme a tutta la mia famiglia. Berlino è stata un’esperienza unica. È una città che ha un’anima, che si porta addosso i segni della Storia visibili in ogni angolo, nei buchi delle granate sui muri, nei memoriali che si trovano a ogni angolo di quartiere, nei pezzi di muro conservato a memoria di tutti. Berlino mi ha insegnato la malinconia di una città sospesa nel tempo ma anche l’ecletticità di una città trasgressiva e proiettata verso il futuro. In ultimo, mi ha offerto la possibilità di approfondire le mie ricerche sul tema dell’Olocausto.
Nonostante sia una girovaga, però, io sono e sempre sarò una ragazza del Sud. Sono nata a Rionero in Vulture, in Basilicata, ed è lì che ho imparato ad amare i libri grazie a una zia bibliotecaria. È in Basilicata, o Lucania come mi piace chiamarla, che sono cresciuta, assorbendo le energie di una terra che ancora vive di realismo magico, tradizioni e passato.

Come è nato il tuo amore per i libri e per la scrittura? Ricordi il primo libro che hai letto da sola?

Il mio amore per i libri è nato a sette anni, quando passavo i pomeriggi nella Biblioteca comunale dove lavorava mia zia. Avevo a disposizione qualunque libro. Il primo fu il GGG, il Grande Gigante Gentile. Ricordo perfettamente il momento in cui iniziai a leggerlo.

Parlaci dei tuoi esordi, come è andata. Hai avuto qualcuno che ti ha incoraggiata, spronata a scrivere?

Ho iniziato a scrivere al liceo per esigenza personale, ma ho continuato in maniera consapevole solo dopo i trent’anni, quando ho capito che non basta avere una passione ma che questa, come in ogni mestiere, va supportata dagli strumenti giusti. Ho iniziato a studiare da autodidatta le tecniche narrative e ho deciso di mettermi in gioco con alcuni racconti editi da Delos Digital, poi con vari concorsi della Mondadori. Dopo aver vinto il GialloLuna NeroNotte ed essere arrivata finalista al prestigioso Premio Tedeschi, l’editor Franco Forte mi ha commissionato un romanzo sul femminicidio per la collana de I gialli Mondadori, uscito col titolo “L’amore malato” nella raccolta “Amori malati”. Ho avuto anche l’occasione di partecipare, sotto pseudonimo, alla saga de “I Sette Re di Roma”, edita da Oscar Historica, col romanzo “Tullo Ostilio, Il lupo di Roma”, scritto con Scilla Bonfiglioli e Franco Forte.

Torniamo al libro, come è nato il tuo interesse per le tematiche legate all’Olocausto e ai campi di concentramento nazisti. Sei partita da ricordi familiari?

Come raccontavo nella domanda precedente, tutto parte dai ricordi di mio zio, internato prima in un campo di lavoro tedesco e poi trasferito in quello che veniva definito “campo di morte”. Le sue memorie, insieme a quelle di altri sopravvissuti del mio paese di origine, sono raccolte nel libro “Fiotti di memoria”, editato dal comune di Rionero in Vulture in occasione della Giornata della Memoria.

Come ti sei documentata?

Lo studio sull’Olocausto è una cosa che ho fatto a prescindere dal romanzo, e che ha impiegato numerosi anni e due esami monografici all’università. Di vitale importanza è stata, sicuramente, l’esperienza a Berlino, che oltre a fornirmi documenti introvabili in Italia mi ha offerto la possibilità di “sentire” la Storia. La stessa cosa vale per i campi di Auschwitz e Birkenau, di Sachsenhausen e di Ravensbrück che ho potuto visitare.

Parlaci del tuo personaggio principale, Hugo Fischer, come è nato?

Hugo Fischer nasce dall’esigenza di raccontare l’Olocausto dagli occhi di un tedesco comune, uno di quei cittadini che non appoggia Hitler, ma che per quieto vivere e paura non si oppone e per continuare a lavorare si iscrive addirittura al partito. Incarna la maggior parte di noi: difficilmente si è eroi, in certe circostanze.

E’ una storia di indagine, la vittima è Sigismud Braun, un pediatra che lavorava a stretto contatto con il famigerato Josef Mengele. Ci vuoi parlare di come questa indagine si dipana nella narrazione?

Quello che mi premeva mostrare, scegliendo il giallo come genere portante del romanzo, era la visione che i tedeschi avevano di coloro che chiamavano “subumani”: Sigismund Braun viene assassinato in un luogo in cui vengono uccise migliaia di persone al giorno, eppure la sua morte è l’unica che merita un’indagine, mentre le morti dei subumani sono considerate giuste, normali, necessarie a un bene comune. Hugo Fischer, che nulla sa di Auschwitz, si ritrova a indagare sulla morte di Braun, ma al tempo stesso è costretto a fare luce anche su un genocidio. Si ritrova, insomma, a cercare un assassino tra un sacco di assassini. Nella sua indagine, sia professionale che personale, viene aiutato da Gioele, un bambino ebreo con il dono del disegno. Ed è grazie ai suoi disegni che molte ombre si dipanano.

La popolazione civile tedesca sapeva ben poco di cosa succedeva nei campi, degli orrori indicibili che nascondevano, una mia zia tedesca mi ha assicurato che era così, che hanno scoperto tutto dopo la guerra. Hai anche tu testimonianze in merito?

È vero. Per tratteggiare il personaggio di Hugo Fischer mi sono servita di diverse testimonianze. Hugo Fischer è a conoscenza del dislocamento degli ebrei tedeschi, ma non sa dove effettivamente finiscano. In patria circolano voci di corridoio, ma è il caso di dire che nei lager la realtà superava la fantasia, e molti tedeschi non potevano immaginare che quei campi di detenzione fossero in realtà una vera e propria industria di morte. Quando anche le voci arrivavano chiare e precise, come nel caso di Fischer, subentrava un meccanismo di rifiuto e rimozione della realtà molto comune tra gli esseri umani.

Molti medici e scienziati tedeschi hanno usato i prigionieri come vero e proprio “materiale” di ricerca spingendosi ben oltre ai precetti deontologici considerando questi prigionieri “non persone” su cui si poteva perpetrare ogni abuso. Come ti spieghi tutto questo?

È il concetto di subumano di cui parlavo prima. Era molto radicato nei tedeschi. Il mito della razza ariana non viene inventato da Hitler, ma ha radici più vecchie. Hitler non ha fatto altro che riprenderlo in un momento storico favorevole ed esasperarlo. I medici che ottenevano di lavorare ad Auschwitz operavano sotto la ferma convinzione di non avere tra le mani degli esseri umani ma delle vere e proprie cavie, dei subumani. Mengele sosteneva di avere l’obbligo morale, in quanto scienziato e ariano, di far progredire la scienza attraverso la sperimentazione. E se in Germania era vietato l’uso di animali per la ricerca, nei campi tutto era consentito…

Tra i prigionieri c‘è un bambino Gioele, ci vuoi parlare di lui?

Gioele rappresenta una piccola luce dove tutto si sta spegnendo. È un bambino bolognese, ebreo, e insieme al suo gemello viene subito notato da Mengele. Ne diventa presto oggetto di studio perché in lui non c’è nulla di rappresentativo della razza ebraica, anzi: agli occhi di Mengele, che ragiona solo in termini razziali, Gioele ha più in comune con un bambino ariano che con un giudeo, con le sue iridi chiare, la spiccata intelligenza e la bravura nel disegno. Mengele si domanda come possa un subumano avere quelle potenzialità e ne rimane affascinato, al punto da tenerlo con sé al Blocco 10 per osservarlo.

È proprio Gioele ad aiutare Hugo Fischer nella risoluzione del caso e, prima ancora, a guidare la sua coscienza verso un cammino tortuoso, mostrandogli le ombre che gravano sul suo cuore, su quel lager e sulla Germania intera.

Progetti per il futuro?

Sto lavorando a un romanzo, questa volta di ambientazione italiana, con una protagonista femminile in grado di sfidare un mondo maschile agli albori della Grande Guerra. Spero possa vedere la luce, perché questo personaggio mi sta donando tanto.