Posts Tagged ‘Rosario Palazzolo’

:: Estratti d’Autore: Saggio sulla colpa di Rosario Palazzolo

3 ottobre 2017
anziana donna

Anziana donna tra le rovine di Agrigento, 17-18 luglio 1943 – Photograph by Robert Capa. © International Center of Photography/Magnum – Collection of the Hungarian National Museum

Oggi, l’anniversario
22 febbraio 2007

Mia nonna era stile amandalìr, però più rotta, mezza corta, fatta di una specie che non si capiva se era femmina oppure no, per primo perché c’aveva la voce grossa, a uso canina, che pure mio nonno ci tremava, e poi perché si truccava tutta rossetto e occhi pitturati che io non ce li ho visti mai, gli occhi veri, a mia nonna, e difatti quando camminava per la strada, pure se tutti si abbassavano la testa per la paura, in fondo sghignazzavano sicuro, e lei manco una felicità, c’aveva, nel senso di dimostrarla, e mai una parola bella per nessuno, e soprattutto per me che ero quello venuto male nella famiglia, il fesso di testa, e difatti io, quando ero piccolo io, mi pareva di essere il più sbagliato, l’errore costruito persona, e una cosa che facevo la facevo sempre male, per mia nonna, per mia madre, e capitava, per me, perché loro c’avevano un problema che il mondo era sempre migliore di loro, pure se facevano il tutto per non sembrarlo, era una cosa sviluppata nel femmineo della mia famiglia, e perdipiù in diagonale: suocera e nuora, una specie di germe nel cervello che le faceva proprio sicure che io non sarei riuscito mai a fare un passo senza che la gente pensava che ero scemo, e questo perché me ne stavo sempre in silenzio e per i fatti miei e invece i cugini giocavano tutti assieme nel giardino davanti casa e ridevano e gridavano, e pure quando combinavo danni li combinavo me con me, ché sono sempre stato solitario, io, nell’inguaiarmi, e per esempio mia nonna c’aveva questo cavalluccio a dondola colorato che noi nipoti non ci dovevamo salire perché era stato di mio padre e la nonna ci era affezionata e se lo teneva nella camera da pranzo, che era una camera piena di segreti, per noi piccoli, una camera come se c’era scritto vietato entrare sulla porta della camera, e io invece ci entravo, di nascosto, la domenica, e c’aveva una faccia proprio antipatica, ’sto cavallo, come mia nonna, e in quella casa, la verità, ogni cosa somigliava a lei: le persone dei quadri mia nonna, i cani di porcellana mia nonna e persino i tappeti c’avevano certi ghiricosi con la sembianza sua, e così, durante in pranzo, io, m’infilavo la cotoletta a pezzetti in bocca e la masticavo per bene e me la lasciavo lì, di lato, dentro le guance, e appena finivo mi alzavo finta che andavo in bagno e invece m’infilavo nella stanza segreta e c’avevo fatto un buchino dove c’era la bocca, al cavallo, e piano piano ci ficcavo la carne, ogni domenica una cotoletta, e
Questo cavallo puzza di morte…
disse un giorno mia nonna, a mio padre, e mio padre si girò il cavallo e lo alzò e vide il buco e insomma si scoprì che il cavallo finto era tutto un ripieno di carne vera, e subito vennero a pigliare a me, ché del resto
È una schifezza da scemi,
gridava, mia nonna, e in quella casa l’unico scemo ero io, e di solito però mi stavo fatti miei, in un angolo dell’ingresso perché c’avevo questa mania di costruirmi personaggi di tovaglioli, personaggi inventati che vivevano in case di tovaglioli, dentro stanze di tovaglioli, e li facevo parlare e lavorare e campare…
Fallo controllare, a questo, marì, è strambo,
e marì era mia madre e mia madre
Non fare lo strambo,
mi diceva, ogni domenica che andavamo a pranzo da mia nonna, con la faccia di mummia morta, e io non ce lo sapevo che significava non fare lo strambo, e se non facevo lo strambo sembravo ancora più strambo e difatti
È sempre più strambo…
diceva, mia nonna,
…quand’è che lo fai controllare?
e addirittura mi ero fatto peggiorato, dicevano,
Ora gli è presa pure la mania della lettura…
perché i fumetti di marcello me li leggevo e rileggevo pure a casa della nonna, e così un giorno mia madre mi portò dal dottore della testa e quello mi attaccò tanti serpentelli nella testa e disse
Oh oh, esce strambo, l’esame…
e mia madre sbottò a piangere e
Hai visto, hai visto? aveva ragione mia suocera…
diceva, piano, come la preghiera, e il dottore che ancora controllava l’esame disse
Per caso è stato acchiappato col…
e non mi ricordo che disse il dottore, maledizione, la parola, dico, non me la ricordo, il corpice o corfice, e insomma disse che siccome ero stato acchiappato con questo affare e allora l’esame usciva così corpiciato,
Non si preoccupi, signora, esce strano, l’esame, quando uno viene acchiappato col…
e non era corpice, la parola, buttanissima, e neanche corfice, e mia madre disse a tutti che l’esame era uscito normale e non raccontò a nessuno il fatto dell’acchiappo, epperò, quando stavo nell’angolo, lei, sempre mi guardava con la certezza egizia che ero scemo, e che pianti, mi facevo, la notte, me con me, perché non sapevo che fare, io, per non essere scemo, e sicuramente ero scemo, pensavo, pure se non mi sentivo scemo e capivo le cose, e del resto
Come si sente uno scemo?
mi chiedevo, e magari si sentiva proprio come me, lo scemo, si sentiva che non si sentiva scemo, e un giorno ci furono grida per tutta la casa che mio nonno l’avevano ammazzato e certo mio nonno non era proprio il campione della simpatia, e anzi mi pareva che tutti l’odiavano per il suo modo di comandare l’umanità, e perciò mi stupì questo via vai di parenti che si abbracciavano piangendo e che sbattevano le mani sul muro e io me ne stavo seduto nel mio angolo e non sapevo che fare, se alzarmi e gridare pure io, se abbracciare, e mi sentivo il cervello pazzo e cominciai a fare gridare i personaggi di tovaglioli, a sbattere le loro mani di tovaglioli sopra i muri della stanza di tovaglioli, e mia nonna passò lì vicino e urlò ancora più forte, e proprio le prese una frenesia per colpa mia e cominciò a pestarmi tutte i tovaglioli, gridava e pestava e diceva
Levatemi da qua ’sto cretino, il cretino che è, cretino cretino cretino, il cretino che è!
e mia madre venne a levare il cretino e schiaffeggiò il cretino e mi portò nel gabinetto e nel passaggio a tutti diceva
Scusate, è cretino… scusate, è cretino…
e io facevo scusa con la testa, da vero incretinito, che guarda un po’ avevo fatto impazzire la nonna, e
Povera nonna…
dicevano, tutti,
…già quella sta così,
e nel gabinetto mia madre mi scassò la testa a forza di cazzotti e me la sbatteva sul lavandino addirittura, anche se si capiva che non mi voleva ammazzare ma solo sbattere, come succede con le cose che si sono rotte e se uno le sbatte può essere che ripigliano a funzionare, e niente, io mi sentivo sempre uguale, sempre senza sapere che fare, che dire, sempre scemo… e questa era la mia vita di allora, quella della prima carta, con ogni cosa che c’era sempre qualcuno che la faceva migliore di me, più precisa, e perciò sono cresciuto col pensiero del riscatto, come se dovessi sempre dimostrare di non essere il cretino che sono, epperò purtroppo la voce si era sparsa nel rione e tutti per l’appunto mi chiamavano il cretino che è, e se giocavamo a pallone, mettiamo,
Passa la palla cretino che è!
mi gridavano, ma senza tono peggiorativo, con simpatia, e così a un certo punto diventai la bestia, io, diventai che se c’era da scannarsi volevo essere il migliore scannatore del quartiere, e m’impegnavo, e mi allenavo, e in realtà mica mi piaceva tanto di lanciare cazzotti, e soprattutto mi scocciava il rotolarsi per terra, o il sporcarsi tutto, ma almeno come canaglia volevo essere il migliore, e così col tempo e con la pratica mi ero imparato una tecnica invincibile del salto con schiaffoni a seguire, lo sguizzo col lampo, lo chiamavano tutti nel quartiere, e mi guardavano come se ero un bruslì stampato che nessuno mi avrebbe battuto mai, e difatti, quando c’era una sfida con qualcuno fuori rione, mi presentavo io, e non ero certo un mazingazèta di grossezza e invece gli avversari erano stile superpanza alla badspènzer, e peggio ancora col tempo che si spargeva la voce sempre di più grossissimi ne arrivavano, epperò, ogni volta, prima del comincio della lotta, qualcuno sospirava
Guarda guarda come lo ammazza, ora gli fa lo sguizzo col lampo,
e i badspènzer già cominciavano con la formica dentro all’orecchio della sconfitta, perché la mia mossa segreta era famosa ovunque, e ci facevano addirittura le leggende raccontate, e perciò quelli c’avevano la gamba giacomina dalla paura, e io me li guardavo per un poco giriàndo come la trottola e col mezzo sorriso cattivo e qualche finta di bacino ché mica ce lo facevo subito, lo sguizzo, no no, aspettavo l’istante giusto, giocavo con la loro paura, smussiàvo, e nel momento in cui non ci pensavano più, i bad, ecco che io sguizzavo e lampiavo, con le mani, forte, sulle tempie e quelli cadevano del tipo morte, e pure se magari non c’avevo fatto tanto male loro cascavano uguale, per l’impressione, o forse perché in fondo le leggende piacciono a tutti, e insomma era proprio un teatrino di testa, sicuro, e questo per dire che sono sempre stato bravo, io, col capire le persone, e infatti mi sarebbe piaciuta la scuola di studio, e ci sarei proprio impazzito a impararmi l’umanità, perché sono sempre stato capace con l’infilarmi nella testa delle persone, e sarei diventato uno scienziato sicuro, e avrei scoperto tutti i rompicazzi che s’immagina il cervello per rimanersi sempre attivo, capente, nonostante tutt’intorno si fa la gara della follia, e avrei fatto proprio l’apriscatole del pensiero, credo, nella mia vita, come mestiere, e c’avrei mollato gli schiaffoni con la tecnica della parola, a tutti, e li avrei fregati, gli avrei dimostrato che sono loro, il cretino che sono.

Quando morì, amandalìr, ci sputai dentro la bara, e del resto oramai c’avevo chiaro che era tutta una fesseria il fatto del sacrocielo: nessuno era arrivato, nessuno mi aveva grattato, e ci sputai davanti a tutti, come un teatro,
È scemo…
disse mia madre,
Scusate, è scemo!
avevo quattordici anni, e mentre lei mi portava al gabinetto, io, che già mi ero imparato a leggere la gente, facevo la faccia più scema che c’è.

Rosario Palazzolo è drammaturgo, scrittore, regista e attore, per il teatro ha scritto, fra gli altri: ‘A Cirimonia (2009), Manichìni (2011), Letizia forever (2013), Lo zompo e Mari/age (2016), primi due capitoli della quadrilogia Santa Samantha Vs – Sciagura in quattro mosse. Vincitore del Fringe al 18° Festival Internazionale del Teatro di Lugano, nel 2016 è stato insignito del Premio Nazionale della Critica per la sua attività di drammaturgo. Recentemente gli è stata dedicata una tesi di laurea (Possibilità Vs. Impossibilità: la drammaturgia di Rosario Palazzolo). Per il 2018 sono previsti approfondimenti monografici sul suo teatro presso alcune università italiane. Per la narrativa ha scritto la novella L’ammazzatore (2007), e i romanzi Concetto al buio (2010) e Cattiverìa (2013). A fine 2016 è uscita per Editoria & Spettacolo una raccolta di suoi testi teatrali: Iddi – Trittico dell’ironia e della disperazione.

:: Recensione di Cattiverìa di Rosario Palazzolo (Perdisa, 2013) a cura di Giulietta Iannone

2 giugno 2013

PerdisaImager.aspxCi sono romanzi misteriosi, che richiedono al lettore oltre ad una partecipazione attiva e consapevole – quale romanzo o qualsivoglia opera narrativa non lo richiedono, in fondo? – anche una precisa volontà creativa. Così è per Cattiverìa di Rosario Palazzolo, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e attore palermitano, già autore sempre per Perdisa di altre due novelle L’ammazzatore e Concetto al buio. Palazzolo richiede, anzi pretende con una certa forza, un lettore non spettatore, debordianamente considerato come un passivo consumatore a cui non resta che ammirare immagini che altri hanno scelto per lui, spot pubblicitari incanalati da un alter ego narrativo alternativo al tubo catodico (e il paragone televisivo non è pura speculazione ma, vedrete in seguito, ha una precisa ragione d’essere in tutto il romanzo). Se siete lettori pigri o distratti e non avete in voi un briciolo di sana follia, cambiate romanzo, Cattiverìa non fa per voi. Se viceversa amate l’esperienze un po’ estreme, e vi avviso subito Palazzolo non è un autore facile nè accomodante, leggendo questo libro vi divertirete, è un romanzo etremamente divertente, farete considerazioni profonde e inusuali, forse scomode, apprezzerete l’uso della parola creativamente proposta in molteplici e bizzarre combinazioni ai limiti della logica, ma comunque mai banali, mai consuete. L’uso spregiudicato del linguaggio è sicuramente la prima cosa che colpisce di questo romanzo, che un critico forse più sofisticato di me potrebbe definire d’avanguardia: deformazioni dialettali, annichilimento della punteggiatura sorvegliata o spesso assente, utilizzo di un italiano sgrammaticato ma comprensibile al servizio di un flusso di coscienza debordante e inframmezzato da citazioni dal sapore postmoderniasta, proverbi, testi di jungle pubblicitari, strofe di canzoni, preghiere, filastrocche, sproloqui. Ho riletto La società dello spettacolo di Guy Dabord mentre leggevo Cattiverìa, per precisa scelta dei situazionisti libera da copyright  e qui disponibile e non posso non citare L. Feuerbach, Prefazione alla seconda edizione de L’essenza del Cristianesimo. “E senza dubbio il nostro tempo… preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere… Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. O meglio, il sacro si ingrandisce ai suoi occhi nella misura in cui al decrescere della verità corrisponde il crescere dell’illusione, in modo tale che il colmo dell’illusione è anche il colmo del sacro.” Di verità si parla in Cattiverìa, di immaginario e di rappresentazione, e la chiave di lettura è in bella mostra nell’epigrafe tratta da Una specie di Alaska di Harold Pinter. Se seguirete i lunghi monologhi che si alternano nei capitoli, strumentalmente atti ad evocare i mondi interiori dei fittizi personaggi,  vi accorgerete del mistero sotteso, dell’equivoco di cui potreste essere vittime se non farete molta attenzione, e quando sul finale l’hitchcockiano colpo di scena vi svelerà tutto ribaltando le vostre certezze, avrete davvero la sensazione che Cattiverìa, (non vi svelo cos’è, lo scoprirete leggendolo, e anche il motivo di quello spostamento della ì, non temete), sia un ultimo scherzo, un’ illusione, un gioco in cui l’unico atto reale di  cattiveria dell’intero libro sia spiegarvelo, spiegarvi dove risiede la verità. Ma sarà un atto punito, in modo davvero definitivo. Ironica  e grottesca l’immagine di copertina: la caricatura di un tizio sbracato. Se fate attenzione noterete che tiene un telecomando in mano.