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:: Un’ intervista con Laura Liberale – Madreferro. Saga familiare minima a cura di Giulietta Iannone

5 giugno 2012

Grazie Laura per aver accettato la mia intervista e benvenuta su Liberidiscrivere. Raccontaci qualcosa di te. Chi è Laura Liberale?

Sono nata a Torino il 15 maggio del 1969. Ho vissuto per trent’anni a Favria Canavese, il paese che nel romanzo è, mutatis mutandis, Fabrica. Da bambina, in un tripudio di tic nervosi, controllavo ossessivamente che le porte fossero chiuse e i quadri appesi dritti; ora l’ansia di controllo si manifesta principalmente nella revisione di quel che scrivo… E così abbiamo carinamente rotto il ghiaccio.

Come è nato il tuo amore per la scrittura?

Prime poesie in terza, quarta elementare. Primo tentativo di scrivere un romanzo a dodici anni. La “chiamata” è stata nitida e precoce. Un bel po’ più tardivi i frutti.

Dai tuoi studi si deduce che nutri un grande interesse per l’Estremo Oriente e per l’India in particolare. In che misura le letterature di questi paesi hanno influenzato il tuo lavoro?

Hanno influenzato e influenzano continuamente la mia vita. Dalle semplici citazioni del libro tibetano dei morti in Tanatoparty sono passata a disseminare il testo di Madreferro di precisi riferimenti alla cultura indiana. Lo stesso rosario delle Madri che compare alla fine del racconto si ispira alle litanie indù dei nomi divini, un’espressione cultuale che per il mio percorso di studi ha avuto un’importanza primaria.

Il 6 giugno esce il tuo nuovo romanzo Madreferro. Saga familiare minimaedito da Perdisa. Un romanzo breve, o lungo racconto come l’hai definito in un’intervista. Come è nata l’idea di scriverlo? Quale è stato il punto di partenza del processo di scrittura?

Parecchi anni fa scrissi un raccontino davvero breve con cui vinsi un viaggio-premio nel Maine di Stephen King. Al viaggio in America dovetti rinunciare per causa di forza maggiore, ma quel raccontino a un certo punto ha chiesto a gran voce di essere ripreso.

Puoi riassumerci brevemente la trama?

Più che brevemente. È il ritorno, raccontato in 28 giorni (il numero non è casuale), di una donna al paese d’infanzia, per dare aria agli scheletri stipati negli armadi.

Parlami del titolo, l’hai scelto tu o è nato discutendone con l’editore?

I titoli papabili erano: “Ferro” e “L’età del ferro”. Poi il mio caro amico poeta Federico Scaramuccia, leggendo le bozze, ha coniato questo titolo bellissimo e pertinente, che naturalmente ha subito spazzato via gli altri due. Ecco, colgo l’occasione per ringraziarlo pubblicamente.

Madreferro è un romanzo bellissimo ma anche molto personale e misterioso. Non hai paura che non sia compreso? Pensi che ogni lettore debba trovare una propria chiave di lettura nel decifrarlo?

Davvero grazie per l’apprezzamento. Paura no. Credo, anzi, che sia un testo semplice, dove con “semplicità” intendo una semplicità archetipale, e quindi universale. Spero piuttosto che, anche grazie alla sua brevità, “arrivi” intensamente al lettore.

In Tanatoparty la morte diventava una forma d’arte in Madreferro ritorna in modo meno paradossale. La morte comunque sembra un elemento centrale delle tue opere. Cosa ti affascina di più di questo tema che ai più ispira paura e repulsione?

Come disse Zolla: “Dovunque e sempre ogni individuo ha un suo particolare mito, una sua recita personale che lo mette in comunicazione estatica con l’archetipo che lo tormenta”.  Alla base c’è molto di “ossessivo”, quindi. Da bambina sognavo continuamente cimiteri ed esequie premature, e garantisco che non era un bel dormire. Crescendo ho fatto della morte, della mortalità, un oggetto di studio e riflessione costanti, alleggerendomi via via del fardello nevrotico. Visto che anche nel terzo romanzo bazzico sempre lì, direi che a tutti gli effetti posso meritarmi il titolo di “narratrice tanatologa”!

Dal punto di vista prettamente stilistico, quali sono gli scrittori che ti hanno maggiormente influenzata, da cui hai più imparato?

I poeti, anzitutto. Ancora e sempre loro.

Laura, la protagonista, ritorna nel paese che l’ha vista bambina, figlia felice di due genitori che ha profondamente amato. Il tema del ritorno alle origini è un tema letterario ricorrente in narrativa, in che misura si differenzia per originalità nel tuo romanzo?

Nessuna particolare originalità. Soltanto l’evidenza che nel mio romanzo il ritorno alle origini si configura nettamente come un viaggio ctonio, una discesa infera incontro ai trapassati e ai demoni familiari.

Il paragone più immediato che mi viene in mente è con il realismo magico sudamericano per il tuo coniugare mito e realtà. Pensi che questo paragone abbia ragione d’essere?

L’intenzione di coniugare mito e realtà c’era tutta. Sì, a livello d’intenti può starci il paragone. I risultati poi, si sa, sono tutt’altra faccenda!

Parlami del rapporto tra realtà e memoria nel tuo romanzo?

Com’è stato perfettamente osservato in una recensione, il romanzo mette in scena una sorta di “reminiscenza allucinata”. I piani sono quelli di realtà, memoria, immaginazione\allucinazione, e i confini di ciascun piano sono volutamente sfumati.

Parlami di Laura, voce narrante del romanzo. E’ parte di te, ti somiglia, o è una creatura letteraria autonoma e indipendente?

È sicuramente parte di me. L’ho “costruita” affibbiandole elementi fortemente autobiografici. È l’Ombra che  andava portata alla luce e pacificata, ma è anche il puro piacere dell’invenzione.

Un libro non si scrive in un giorno. Molto spesso le cesure sono evidenti, nel tuo caso il narrato sembra invece molto fluido come in un unicum. Come hai reso ciò possibile?

Non l’ho reso possibile. È semplicemente avvenuto. Forse perché in Madreferro c’è  una nudità, una sincerità pressoché totale, a prescindere da quanto ho dovuto architettare in termini di finzione narrativa.

E’ un romanzo molto “femminista”. I personaggi principali sono donne, esiste un vero e proprio matriarcato, gli uomini quasi sfumano sullo sfondo. E stata una scelta cosciente, voluta, o è nata scrivendo, durante il cammino narrativo?

Già in Tanatoparty erano protagoniste delle donne. Credo che tutto questo mio “femminile” narrativo faccia parte di una personale elaborazione del mito della Magna Mater, mito che studio ormai da anni, soprattutto per ciò che concerne le forme assunte nel contesto indiano. E poi la mia infanzia è stata segnata per davvero da una specie di “matriarcato”, malgrado la presenza molto forte e positiva di mio padre.

Georgina de Martignac e il suo album di disegni, hanno un ruolo centrale nel romanzo, di guida. Pensi che i morti influiscano sulla vita dei vivi? Pensi che coloro che ci hanno amati in vita continuino a farlo anche da spiriti, che l’amore in una qualche misteriosa maniera sia davvero eterno?

Dei cantori mistici indiani hanno detto: “Fra ciò che è e ciò che non è lo spazio è l’amore”.

Finisci il romanzo con le parole “il mundus si è di nuovo aperto”. Il mondo dei vivi e dei morti è ritualmente in comunione. La vita è la morte sono un tutt’uno? E’ questo il significato nascosto del tuo libro?

Che vita e morte siano un tutt’uno non è il significato nascosto di un piccolo libro come il mio, ma IL significato. Tentare invano di tenerle separate, concepirle dualisticamente nei termini di un’opposizione equivale a votarsi alla sofferenza.

Oltre che narratrice, scrivi anche poesie. Il processo creativo è lo stesso o utilizzi strumenti e mezzi differenti? Da cosa nasce l’ispirazione poetica?

Ti rispondo con le splendide parole di Cortázar, che, per me, valgono sia in poesia che in prosa: “Mi avvicino alle Madri, mi collego con il Centro – qualsiasi cosa esso sia. Scrivere è disegnare il mio mandala e nello steso tempo percorrerlo, inventare la purificazione purificandosi”. D’accordo, il pezzo di Cortázar finisce con: “Compito da povero sciamano bianco con mutande di nylon”…

Infine per concludere ringraziandoti della tua disponibilità: a cosa stai lavorando ora?

Sto lavorando a un nuovo romanzo, intitolato Planctus, e a un progetto letterario “a due”, insieme alla bravissima amica Claudia Boscolo. Grazie di cuore a te per l’attenzione e lo spazio che hai voluto dedicarmi.

:: Recensione di Madreferro. Saga familiare minima di Laura Liberale (Perdisa, 2012) a cura di Giulietta Iannone

29 Maggio 2012

Arrivo in piazza costeggiando i tigli del castello. Il loro profumo per me è quello della festa patronale. Realizzo che mancano solo due settimane al 29 giugno SS. Pietro e Paolo, quindi festeggerò il mio ritorno con le giostre e i fuochi d’artificio, e questo pensiero, che immediatamente è anche ricordo (conta dei giorni, danza rituale contro lo spauracchio della pioggia rovinafeste, conquista della mezz’ora in più sull’orario di rientro, krapfen bisunti, ragazzi nuovi, musica, luci e ancora luci), spalanca la voragine del mezzogiorno, l’ora destata, l’ora tannica. Mi appoggio al muro settecentesco, chiudo gli occhi e aspetto che la vertigine passi, poi mi allontano svelta dall’assedio nauseante dei tigli e ritorno a casa.

Laura Liberale, dopo il suo esordio nel 2009 con Tanatoparty edito da Meridiano Zero, torna al romanzo con Madreferro. Saga familiare minima edito nella collana Arrembaggi diretta da Antonio Paolacci di Perdisa Editore e si assume la responsabilità di portare la scrittura ad un livello superiore e ben poco superficiale. Interpretando la scrittura come rituale catartico, come vera e propria cerimonia di iniziazione, l’autrice ci accompagna in un breve viaggio affascinati e quasi ipnotizzati dalla voce seducente e da sirena della protagonista, voce narrante del romanzo non privo di picchi inquietanti e delicati al tempo stesso, in cui il sangue, penso che ferro nel titolo richiami a questa sostanza, si fa veicolo di continuità e rugginosa percezione del reale attraverso gli occhi di una donna-bambina che cerca di comprendere cosa è difficilmente percepibile con la sola razionalità.
Laura, giovane ricercatrice alterego piuttosto manifesto dell’autrice o perlomeno sua incarnazione letteraria trasfigurata e liberatoria, grazie ad un congedo temporaneo di sei mesi torna a Fabrica piccolo paese della campagna canavesana in Piemonte, che l’ha vista bambina e ha abbandonato sette anni prima per la grande città. Apparentemente per svolgere delle ricerche per l’università, forse in realtà per iniziare a scrivere un romanzo, quello che non sa e che prenderà coscienza durante la narrazione, è che una chiamata l’ha attratta come una calamita in quel luogo di memoria e di ritorno, di rientro nel grembo materno, di riscoperta delle radici familiari e mitiche, dove le storie familiari si intrecciano indissolubilmente alla memorie fantastiche del luogo, alle masche, le streghe della mitologia piemontese, arse sul rogo secoli prima accusate di commerci con il Diavolo in persona, di cui esiste pure un’ immagine piuttosto inquietante nel sottotetto della canonica e che i bambini si divertono ad evocare nei loro giochi irriverenti Bade bade bade eh!.
Ora sono di nuovo a Fabrica, per inseguire orme vecchie di centosessant’anni, per parlare con i morti, visto che con i vivi non mi riesce più di farlo. Sono tornata da Angela, l’ultima donna di un mio matriarcato potente e invasivo. Dice la voce narrante e introduce i due temi centrali di questo misterioso romanzo breve: la morte o meglio i morti che come fantasmi affollano il mondo dei vivi e l’essere madre, condizione richiamata dal titolo, femminile potere vivificante e devastante nello stesso tempo che riflette quello ancora più terribile della Magna Mater.
Georgina de Martignac e il suo album di disegni, la zia Angela, la madre che riposa nell’urna a fiori viola che condivide con suo padre,  la giovane Elsa sono tutti personaggi femminili che declinano uno stesso volto di donna, la femminilità oscura e terribile che si autoafferma e porta a compimento una misteriosa missione di vita o di morte sta al lettore trovare la strada.
In libreria dal 6 giugno.

Giuseppe Iannozzi intervista Laura Liberale