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:: SAHRA WAGENKNECHT: CONTRO LA SINISTRA NEOLIBERALE a cura di Antonio Catalfamo

26 dicembre 2023

Sahra Wagenknecht è senza dubbio un personaggio politico scomodo. Lo è stata sin dagli esordi, come iscritta nel 1989 al Partito Socialista Unificato di Germania (SED), che era il partito guida nella parte orientale del Paese, governata da un regime comunista, transitata poi nel PDS, erede del SED, collocandosi nell’ambito della componente marxista, e, successivamente, nella Linke, formazione di sinistra nata, dopo l’unificazione della Germania, dalla convergenza tra i comunisti della parte orientale e la corrente di sinistra della socialdemocrazia, che ha assicurato alla compagine una presenza anche nella parte occidentale, la quale, per un certo periodo di tempo, ha superato complessivamente la soglia di sbarramento del 5%, eleggendo propri rappresentanti in seno al Parlamento nazionale, tra i quali c’era, con un ruolo di rilievo, la stessa Wagenknecht, che, però, ha assunto una posizione di dissenso sempre maggiore, fino ad abbandonare di recente la Linke, spaccando il gruppo parlamentare e ponendo le premesse per la costituzione di un nuovo partito, che dovrebbe esordire come tale, dopo aver assunto la configurazione di movimento, alle elezioni europee del 2024.

Sahra Wagenknecht è una studiosa dotata di una solida preparazione politica, economica, filosofica, una brillante giornalista, un’oratrice coinvolgente. Merita, dunque, di essere seguita negli sviluppi del suo pensiero e della sua azione. Attualmente le sue idee sono condensate in un corposo volume pubblicato in Italia, con prefazione di Vladimiro Giacché, nel 2022 per i tipi di Fazi editore di Roma. Il titolo è già significativo: Contro la sinistra neoliberale.

L’opera offre numerosi spunti di riflessione, che aprono nuovi orizzonti di ricerca, per i quali è uno stimolante punto di partenza. Per questo ha registrato un notevole successo di pubblico, in Germania e a livello internazionale.

Siamo in presenza di un’articolata analisi dei mutamenti genetici e teorici che hanno interessato la sinistra non solo tedesca, ma anche europea nel suo insieme, con un ampio orizzonte che coinvolge, allargandosi, tutto il mondo occidentale, compresi gli Stati Uniti d’America. Nonostante la parte dedicata all’Italia sia ridotta, possiamo trarre tutta una serie di conclusioni che riguardano la sinistra del nostro Paese, la sua involuzione, che è simile a quella dei partiti che si collocano nella stessa area a livello europeo.

Il mutamento riguarda il concetto stesso di sinistra, i suoi connotati ideologici, i suoi riferimenti di classe, la sua visione economico-sociale. E qui va evidenziato, come fa l’autrice, lo stretto legame che si è venuto a creare tra i mutamenti ideologici e, per l’appunto, le classi sociali di riferimento.

In passato, la sinistra era «sinonimo di ricerca della giustizia e della sicurezza sociale, di resistenza, di rivolta contro la classe medio-alta e di impegno a favore di coloro che non erano nati in una famiglia agiata e dovevano mantenersi con lavori duri e spesso poco stimolanti. Essere di sinistra voleva dire perseguire l’obiettivo di proteggere queste persone dalla povertà, dall’umiliazione e dallo sfruttamento, dischiudere loro possibilità di formazione e di ascesa sociale, rendere la loro vita più facile, più organizzata e più pianificabile. Chi era di sinistra credeva nella capacità della politica di plasmare la società all’interno di uno Stato nazionale democratico e che questo Stato potesse e dovesse correggere gli esiti del mercato» (p. 22). Così prosegue la Wagenknecht: «I partiti di sinistra, che fossero socialdemocratici, socialisti o, in molti paesi dell’Europa occidentale, comunisti, non rappresentavano le élite, ma i più svantaggiati. Gli attivisti provenivano loro stessi da quel milieu e volevano migliorare le condizioni di vita. Gli intellettuali di sinistra condividevano questo obiettivo o lo sostenevano» (p. 23).

Ma la sinistra ha cambiato riferimenti ideologici e di classe, segnatamente dopo il crollo del muro di Berlino, ci permettiamo di aggiungere noi, integrando l’analisi della Wagenknecht con nostre considerazioni, che ci sembrano doverose, perché consentono di capire il mutamento.

I partiti socialdemocratici e socialisti riformisti trovavano, infatti, la loro legittimazione, nell’ambito della logica capitalistica, nell’esistenza di un polo comunista, che andava contrastato, per impedire che esso si allargasse all’Occidente, attraverso una forza, socialdemocratica, per l’appunto, che garantisse ai ceti meno abbienti determinati diritti sociali (il cosiddetto «Welfare State»), impedendo, in tal modo, che si convertissero al comunismo.

Il Partito comunista italiano, da parte sua, nel suo gruppo dirigente, nei suoi quadri intermedi, in buona parte del suo elettorato, aveva già subito negli anni un progressivo mutamento genetico, attraverso una lunga marcia all’interno delle istituzioni borghesi, di cui la conversione ai valori liberal-socialisti rappresentava il naturale epilogo. Il crollo dell’Urss e dei regimi comunisti dell’Est europeo, il conseguente venir meno di un puntello fondamentale e di un ombrello protettivo avevano determinato il definitivo cambiamento di campo.

In mezzo c’erano stati tanti anni di concertazione, di consociativismo, di compromessi con il potere capitalistico, rappresentato in Italia dalla Democrazia cristiana, che avevano dissolto lo spirito rivoluzionario del partito. Settori estesi dell’elettorato comunista avevano beneficiato degli effetti dello Stato sociale, nella sua deformazione in Stato clientelare ed assistenziale, ottenendo un certo benessere sociale e trasformandosi in un ceto medio egoista, che non ne voleva sapere dei nuovi poveri, dai quali intendeva marcare le distanze. Con queste aggiunte, crediamo di aver reso comprensibile il mutamento genetico della sinistra con riferimento specifico all’Italia, integrando il quadro generale, a livello europeo, delineato dalla Wagenknecht.

Le trasformazioni sin qui descritte hanno dato vita ad una «sinistra neoliberale» o «alla moda», come la definisce l’autrice nel libro qui analizzato. Una sinistra che «non pone più al centro» della propria politica i «problemi sociali e politico-economici» (p. 24) dei ceti meno abbienti. Si rivolge, come proprio interlocutore e punto di riferimento sociale, ai ceti medi benestanti, ai laureati, perlopiù a «persone di buona cultura» e «in misura crescente anche con stipendi migliori» (p. 46), che abitano nei quartieri agiati delle grandi città. Si tratta, potremmo dire, con espressione foscoliana, di una «corrispondenza d’amorosi sensi»: la sinistra neoliberale ama questi ceti ed essi ricambiano, costituendone il bacino elettorale più fedele.

Sahra Wagenknecht sottolinea opportunamente che questa sinistra va oltre, ha un atteggiamento di intolleranza nei confronti delle classi disagiate, delle loro riserve obbligate nei riguardi di un modello di sviluppo che le danneggia e che non possono adeguatamente sostenere. Vengono lanciate vere e proprie campagne propagandistiche di demonizzazione. Chi sostiene che «il proprio governo si occupi prima di tutto del benessere della popolazione interna» e lo protegga dalle «conseguenze negative della globalizzazione», ponendo limiti e controlli ai flussi migratori, «viene etichettato» tout court dalla sinistra liberale come «nazionalsociale, a volte persino con il suffisso ista» (p. 35). In buona sostanza, un nazista. «E chi non trova giusto trasferire sempre più competenze dai parlamenti e dai governi prescelti a una imperscrutabile lobbycrazia a Bruxelles è di certo un antieuropeo» (ibidem).

L’intolleranza della sinistra neoliberale investe anche coloro che «consumano carne da discount», «guidano auto diesel» (p. 28), continuano a riscaldarsi con impianti al metano, perché, per motivi economici, non riescono a stare al passo coi tempi, ad accedere alle fonti energetiche alternative. Queste persone vengono considerate sbrigativamente «nemiche del clima». L’antipatia è reciproca: i ceti popolari, a loro volta, guardano con ostilità e fastidio alla sinistra neoliberale: «Ciò che rende i rappresentanti di questa sinistra di moda così antipatici agli occhi di molti e soprattutto dei meno fortunati è la loro innata tendenza a giudicare i propri privilegi come virtù personali e a presentare la propria visione del mondo e il proprio stile di vita come la quintessenza della responsabilità e del progresso. E’ il compiacimento di sé di chi si reputa moralmente superiore, cosa che accade di frequente nella sinistra alla moda, è la convinzione, palesata in modo troppo insistente, di essere dalla parte del bene, del giusto e della ragione. E’ la supponenza di chi guarda dall’alto in basso lo stile di vita, i bisogni e persino il linguaggio di coloro che non hanno potuto frequentare l’università, vivono in piccoli centri e comprano da ALDI i prodotti per la grigliata perché il denaro deve bastare fino a fine mese. E’ l’innegabile mancanza di empatia nei confronti di tutti coloro che devono combattere molto più duramente per un po’ di benessere e che forse anche per questo risultano a volte più coriacei e astiosi e spesso di cattivo umore» (pp. 28-29), mentre i rappresentanti della sinistra neoliberale sono ottimisti, allegri, le loro manifestazioni di piazza sono vivaci, variopinte, festose. Esse raggiungono un’élite di privilegiati, mentre la gran massa rimane estranea, anzi ostile.

In conseguenza di questo mutamento genetico i partiti socialisti riformisti, socialdemocratici, gli ex comunisti italiani che si sono fusi con gli ex democristiani nel Partito democratico (aggiungiamo noi a completamento), hanno perduto consensi e sono stati sconfitti elettoralmente dalla destra, perché sono stati artefici della seconda ondata di neoliberismo, che ha seguito la prima di cui sono state portavoce, negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, le destre della Thatcher in Inghilterra e di Reagan negli Stati Uniti (pp. 48-49).

Neoliberismo, globalizzazione, europeismo estremo sono i cavalli di battaglia di questa sinistra neoliberale. In Italia basta pensare alla flessibilità del lavoro e dei salari introdotta dal governo Prodi e perseguita da tutti i governi di centro-sinistra o «tecnici» di cui hanno fatto parte il Partito democratico e i suoi predecessori, alle privatizzazioni, che hanno smantellato le imprese pubbliche, facendo lievitare i prezzi dei beni e dei servizi, all’adozione della moneta unica europea, di cui Prodi è stato l’artefice principale, che, già nell’immediato, ha portato al raddoppio dei prezzi, demolendo il potere d’acquisto delle famiglie, abbassando il livello dei consumi e il livello di vita dei ceti meno abbienti.

Questa politica antipopolare spiega perché oggi il Pd non supera la soglia del 20% dei consensi elettorali. I ceti popolari non lo votano, anzi lo detestano. Analogo declino sta subendo, nonostante l’attuale collocazione al governo nell’ambito di una maggioranza ibrida, il partito socialdemocratico tedesco (Spd), che rappresenta anch’esso le classi benestanti. La stessa sorte è toccata alla Linke, che, alla sua nascita, rappresentava soprattutto le classi disagiate della Germania orientale, fortemente colpite dall’unificazione imposta dall’alto, e che aveva esteso i propri consensi anche nella parte occidentale del Paese, difendendo i ceti deboli. Ma, ad un certo punto, essa ha registrato un’involuzione simile a quella dei socialdemocratici, in quanto ha cambiato i propri riferimenti di classe: non più le classi meno abbienti, bensì quelle acculturate appartenenti al ceto medio. Fatale è stata anche l’alleanza con la socialdemocrazia in diversi Länder, che sono stati governati contro gli interessi dei ceti disagiati. Anche i verdi tedeschi sono un partito di benestanti. I socialisti sono addirittura falliti in Francia, occupando un ruolo assolutamente marginale sulla scena politica, soppiantati da una forza di sinistra radicale raccolta intorno alla figura di Mélenchon, i cui connotati sono tutti da studiare e da approfondire.

Gli elettori della sinistra neoliberale hanno ragione a sostenere la globalizzazione e l’integrazione europea, perché essi sono tra i privilegiati che se ne sono avvantaggiati, avendo la possibilità di accedere a corsi di lingua, con lunghi tirocini all’estero, master, stage, che sono costosi, ma costituiscono il presupposto per avere lavori qualificati e ben retribuiti (pp. 107-112). Costoro diventano i «tecnici» del sistema, esercitano quelle professioni di cui il neocapitalismo ha bisogno per svilupparsi e progredire. Sono egoisti ed individualisti, sono disinteressati alle sorti delle masse, che, anzi, disprezzano, essendo convinti che il loro successo dipende da capacità individuali superiori. Hanno un elevato tenore di vita: viaggiano, consumano cibi biologici, hanno auto elettriche e abitazioni con tutti i comfort che utilizzano le fonti energetiche alternative, si considerano perciò i veri difensori del clima e dei diritti civili: i cittadini modello, insomma. E disprezzano quelli che non riescono a tenere il passo, considerandoli incapaci e retrogradi (pp. 27-29).

Sahra Wagenknecht ha avuto il merito di condurre una critica spietata, senza timori reverenziali e senza sconti, nei confronti della sinistra neoliberale di moda. Non è poco, perché le critiche che sinora sono state avanzate anche dalla sinistra radicale, dalla cosiddetta «estrema sinistra», non sono mai andate fino in fondo, hanno sempre lasciato uno spiraglio per la trattativa e un futuro compromesso, ai quali, difatti, spesso si è pervenuti. Sono emblematici, in tal senso, il caso della Linke in Germania, che ha finito per diventare la stampella dei socialdemocratici dell’Spd in vari Länder, e quello del Partito della rifondazione comunista (Prc) e del Partito dei comunisti italiani (Pdci) in Italia, i quali, dopo rotture provvisorie, sono pervenuti a forme di collaborazione, come la cosiddetta «desistenza», prima, e l’appoggio, poi, a governi, locali e nazionali, dominati da forze di centro-sinistra, nelle loro diverse varianti (Pds, Ds, Pd), ritagliando un piccolo spazio, un “orticello”, per se stessi e per i propri dirigenti. Siamo in presenza di tradimenti storici dell’elettorato popolare, delle classi meno abbienti, che rendono difficile la rinascita di forze comuniste o, comunque, alternative al sistema capitalistico, in quanto hanno seminato sgomento e sfiducia nel popolo di sinistra autentica.

Ma Sahra Wagenknecht va oltre. Nella seconda parte del suo volume, aggiunge alla fase destruens quella construens. Delinea un programma imperniato sul rilancio, in nuove dimensioni, degli Stati nazionali, basati non tanto sul patrimonio genetico e sul vincolo di sangue, quanto sul concetto di «cultura guida», che si deve intendere come «insieme dei valori basati su tradizione culturale, storia e narrazioni nazionali nonché tipici modelli di comportamento all’interno di una nazione, elementi questi che sono parte della sua identità comune e su cui si fonda il senso di appartenenza» (p. 313). Deve trattarsi di Stati che collocano al centro della loro attenzione i bisogni e gli interessi dei più deboli, promuovendo, attraverso un intervento pubblico massiccio nell’economia, il loro benessere e la loro sicurezza sociale.

Va qui richiamato, a nostro avviso, il concetto gramsciano di «nazional popolare», laddove il termine «popolo» abbia ben precisi connotati di classe, evitando il nazionalismo interclassista proprio della cultura di destra, che immagina un irrealistico Stato etico, che sta al di sopra delle classi e si fa mediatore dei loro interessi. E Gramsci, nei Quaderni del carcere, ha denunciato tutta l’ambiguità del cosmopolitismo dell’Alto Medioevo, che equivale alla globalizzazione attuale, che, sotto le mentite spoglie dell’abbraccio fraterno tra i popoli, sacrifica gli interessi dei deboli a quelli dei potentati che operano a livello transnazionale. Non a caso, il grande intellettuale sardo esalta l’«eresia comunale», l’esperienza dei Comuni italiani, legati, per converso, al territorio, alla sua cultura viva, ai suoi valori. Di questa «eresia» fu il massimo esponente, secondo Gramsci, Guido Cavalcanti, da lui contrapposto a Dante Alighieri e al suo cosmopolitismo, fondato sul primato di papato ed impero, pur nella loro autonomia reciproca.

Va richiamato, inoltre, il concetto di «biogeografia culturale», secondo il quale il territorio non ha solo una dimensione geografica, ma è concrezione di storia, di vita, di cultura. In esso si sono stratificate tutte le civiltà succedutesi nel corso dei secoli, anzi dei millenni, con i sentimenti e i valori di cui esse erano depositarie. La stessa stratificazione si realizza nel singolo individuo, se si sente in armonia col proprio territorio. Si crea, in tal modo, una «corrispondenza biunivoca» tra individuo e territorio, per cui egli è in grado di cogliere e di “decriptare” i “messaggi” provenienti dal proprio territorio di riferimento e di uniformare ad essi il proprio modo di vivere e di agire.

Uno «stile di vita», dunque, contrapposto a quello della sinistra neoliberale e dei suoi sostenitori, basato sulla rottura con il territorio di appartenenza, sostituito da un nuovo cosmopolitismo, che si chiama globalizzazione e integrazione europea, e che presenta il carattere di artificiosità e di imposizione che ebbe quello dell’Alto Medioevo e che usa violenza, fisica e morale, ai popoli nazionali e ai loro valori.

Sahra Wagenknecht, infine, ha denunciato un fenomeno sinora sottovalutato. Gli intellettuali che non si uniformano alle «narrazioni», cioè alle rappresentazioni culturali della realtà che la sinistra neoliberale tenta di imporre con un apparato propagandistico ben oleato, che beneficia spesso dell’amplificazione da parte di ampi settori dei mass-media, vengono debitamente emarginati, con lo scopo, neanche tanto paludato, di «ridurre al silenzio e distruggere» (p. 32) questi soggetti scomodi, sottoposti alla «cancel culture». In Italia, solo per fare un esempio, la cultura marxista è quasi scomparsa dal mondo universitario.

La Wagenknecht va a fondo nella ricerca degli strumenti culturali ed ideologici, che sono stati utilizzati per imporre una certa visione del mondo. Fa riferimento allo «strutturalismo», affermatosi nella cultura di sinistra a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, con centro di irradiazione le università francesi, al «decostruzionismo» (p. 124) a cui va aggiunto, a nostro avviso, il «post-modernismo». Tutte queste teorie, che partono dal campo letterario per espandersi negli altri settori culturali, sono fondate sull’idea che è la lingua a creare la realtà: «al di là della lingua, in pratica, non esiste alcun mondo reale a cui riferirsi» (ibidem). Il che significa che chi possiede il controllo degli strumenti di diffusione della parola può imporre qualsiasi «realtà», al di là di quella oggettiva, che, invece, esiste. Un’operazione prettamente ideologica camuffata con presunte teorie scientifiche.

S’impone, dunque, un ritorno alla realtà, al «pensiero forte», come strumento di analisi razionale del reale.