Posts Tagged ‘Michelle Yeoh’

:: Visioni di cinema: La Tigre e il Dragone di Ang Lee (2000)

2 novembre 2025

La tigre e il dragone (Crouching Tiger, Hidden Dragon) di Ang Lee, vincitore di quattro Premi Oscar, tra cui Miglior film straniero, e acclamato quasi unanimemente dalla critica internazionale è un film che se vogliamo filtrò il meglio dell’immaginario del cinema orientale destinandolo forse specificatamente a un pubblico occidentale che in alcuni casi per la prima volta si accostava al “wuxia pian” quel genere che unisce combattimenti marziali, valori cavallereschi e dimensione trascendente e spirituale perlopiù taoista e buddista.

Un incontro di civiltà, prima di tutto, che portò ed elevò il genere wuxia a una dimensione universale e lirica, capace di attirare l’interesse anche di spettatori per cui quello non era il loro humus culturale, ma incuriositi dall’esotico fascino di quella civiltà si sono lasciti trasportare in una storia in cui il peso delle scelte morali guida le azioni e i sentimenti dei personaggi, sì eroi classici tradizionali ma anche esseri umani concreti con sentimenti, paure, aspirazioni appunto universali. Ang Lee riuscì a trasformare un’opera di avventura, con elementi fantastici, in una metafora del desiderio, dell’amore, della disciplina e della rinuncia, comprensibile a tutte le latitudini, e capace di trasmettere anche un senso di lirismo e poesia rari, tramite sia i dialoghi di una bellezza struggente, che gli scenari sia paesaggistici che d’interni.

Ispirato al romanzo “Crouching Tiger, Hidden Dragon” di Wang Dulu (1909–1977), uno scrittore cinese fino allora poco conosciuto in Occidente, il film di Ang Lee prende principalmente spunto da questo libro, ma adattandone molto liberamente la trama, ed enfatizzando alcuni temi filosofici e poetici più che aderire fedelmente al testo, in quel tentativo metanarrativo di universalizzazione di cui parlavamo prima.

Ambientato nella Cina del XIX secolo, durante la dinastia Qing, La tigre e il dragone narra le vicende di Li Mu Bai (Chow Yun-Fat) e Yu Shu Lien (Michelle Yeoh), due maestri d’arti marziali, legati da un profondo sentimento d’amore che per un senso del dovere e un’adesione a un codice morale superiore non possono vivere, perché Shu Lien era la promessa del defunto fratello d’armi di Mu Bai.

Li Mu Bai stanco dei combattimenti e in cerca di una via di pace che lo porti all’illuminazione decide di consegnare la sua leggendaria spada il “Destino Verde” a Yu Shu Lien perché la consegni al Signor Tie. Il furto della spada dà inizio a tutta la vicenda e porta i protagonisti sulle tracce della giovane Jen (Zhang Ziyi), una fanciulla di nobili origini che sogna la libertà e la vita di combattimenti dei guerrieri erranti, ma che si ritrova intrappolata tra le severe regole del suo clan e il richiamo della propria natura ribelle.

Il film è visivamente grandioso ed emozionante non solo per le scene di combattimenti sospese tra i tetti, e gli alberi, coreografate con grazia come scene di danza, ma soprattutto per il suo valore filosofico e morale al di là delle aspirazioni terrene. La fotografia di Peter Pau, premiata con l’Oscar e le musiche di Tan Dun (da segnalare il violoncello di Yo-yo Ma) rendono poi il film un’esperienza sensoriale di rara bellezza. Da vedere e rivedere, magari perderà la magia della prima visione ma sarà sempre un’esperienza gradevole. Buona visione.

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:: Visioni di cinema: Memorie di una Geisha di Rob Marshall

20 ottobre 2024

Il mondo delle geishe è un mondo piuttosto misterioso, fatto di segretezza ed evanescenza, anche di fragilità se vogliamo, per cui aveva fatto un certo scalpore prima il libro di Arthur Golden, Memorie di una Geisha, e poi l’omonimo film di Rob Marshall del 2005, ispirato al libro. Sembra che il libro avesse travisato molto dei racconti e delle testimonianze della vera geisha, Mineko Iwasaki, da cui fu in parte tratta la storia, rendendo pubblico il suo nome (violando le clausole di riservatezza) e costringendo la donna a scrivere una contro-memoria per chiarire i malintesi (“Geisha: A Life” di Mineko Iwasaki, per chi fosse interessato). Credo che ne seguì pure una causa in tribunale, per dire quanto la questione divenne seria. Ho visto comunque il film di Marshall e da occidentale che viene ammessa in una cultura altra, e soprattutto considera l’opera, un’opera d’arte dove molto gioca la fantasia e quindi non un documentario, mi è piaciuto molto, tutto ricreato in studio certamente ma l’effetto è molto artistico e sontuoso.

Due attrici cinesi recitano due delle parti principali, certo per un richiamo anche internazionale che la produzione voleva, poi c’è Michelle Yeoh che anche lei giapponese non è, credo sia malese di origine cinese, ma insomma dato che in Occidente non si capisce la differenza, orientali sono e va bene così sebbene la questione dell’appropriazione culturale sia seria e dibattuta e ci ritorneremo. Nel film c’è anche una storia d’amore, che forse in realtà è la cosa più proibita di tutta la storia, ma le attrici sono bravissime soprattutto Zhang Ziyi di straordinaria lievità ed eleganza, ma anche Gong Li, cattivissima nella parte di Hatsumomo, e Michelle Yeoh, materna e protettiva nella parte di Mameha. Pensato per il mercato internazionale il film di Marshall c’è da dire ha alcuni grandi meriti, a prescindere dal valore artistico intrinseco del film o dagli errori culturali eventualmente commessi: avvicinare Occidente e Oriente, presentando un lato della cultura giapponese che ha sempre affascinato noi occidentali, e sfatare una volta per tutte il preconcetto, tutto occidentale, che le geishe fossero prostitute, erano artiste e intrattenitrici, che si dedicavano a varie forme di arte, come la musica, la danza e la conversazione, dotate di doti e capacità non comuni e molto considerate e rispettate a livello sociale, che acquisivano il titolo onorifico di geishe dopo un apprendistato che durava anni. Tradizionalmente il loro ruolo principale era dunque quello di intrattenere gli ospiti nelle teahouse e durante eventi sociali, piuttosto che offrire servizi sessuali.

Le prostitute naturalmente esistevano e il termine per definirle era oiran e avevano legali licenze per esercitare la propria professione. E in una società rigidamente strutturata come era quella giapponese questa distinzione era molto importante e denota mancanza di sensibilità e rispetto il fraintendimento. Un’altra cosa che ha creato un certo sconcerto e scalpore è la pratica denominata “mizuage” assimilabile al nostro cosiddetto ius primae noctis pratica a quanto pare sulla cui storicità ci sono molti dubbi e perplessità. Fatta la precedente distinzione tra geisha e oiran, era illegale per una geisha vendere la propria verginità, e la casa a cui apparteneva poteva perdere la licenza se scoperta a praticare questo, non che non succedesse date soprattutto le alte spese sostenute per gli studi e l’apprendistato o anche solo l’acquisto dei kimono, i cui costi potevano essere esorbitanti. E una geisha a inizio carriera, non ancora affermata, poteva averne necessità, per cui questo rito di passaggio poteva essere mercificato ma non era una pratica comune, come invece sembra trasparire dal film, nè onorevole.

La bellezza del film oltre allo splendore e la ricercatezza dei costumi, all’eleganza che traspare da gesti e movenze, al ripetere riti millenari come la crerimonia del tè, sta sicuramente nel descrivere un mondo rarefatto di donne tra cui le rivalità, l’invidia, le piccole vendette si alternano a gesti di grande generosità, di complicità, d’affetto. Un mondo lontano, forse scomparso per sempre, che racchiude in sè tutto il fascino che l’Antico Giappone ancora possiede. Certo un film girato da un occidentale, pensato per un pubblico globale, che apprezza però immergersi in un mondo altro con rispetto e curiosità.

Il film, pur essendo dunque una storia di finzione, ha il merito di offrire uno sguardo rispettoso e onesto sulla vita delle geishe mostrando le loro capacità e la loro importanza nel mantenere vive tradizioni secolari di estrema importanza per preservare la cultura giapponese. C’è anche da fare un’altra riflessione, il mondo delle geishe si ammanta di segretezza, ci sono codici morali e di comportamento custoditi da generazione in generazione che determinano anche parte del loro fascino, esporli senza reticenze può essere stato un motivo valido per suscitare critiche e scontento, o spingere anche solo Mineko Iwasaki a riscrivere la sua storia. Consola il fatto di sapere che ancora molto resta nascosto e celato allo sguardo non solo di noi occidentali, ma anche degli stessi giapponesi, tra cui la sofferenza, la severità, le piccole e grandi crudeltà che queste artiste dell’effimero sapevano trasformare e sublimare in pura bellezza. Fatte queste premesse è un film da vedere, grandioso nella messa in scena, e interessante nel seguire l’evoluzione di una bambina, che diventa ragazza e poi donna affrontando le mille difficoltà della vita sorretta da un unico grande amore per il Direttore Generale Iwamura. Perchè oltre la maschera, dietro il trucco perfetto, la bellezza algida e remota le geishe erano (e sono) donne con una propria individualità e sensibilità, capaci di amare e di perseguire con determinazione le proprie aspirazioni e la propria felicità.