
Film di culto, vincitore di 9 premi Oscar, tra cui miglior film, e migliore regia, L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci è un film che ha fatto la storia della cinematografia mondiale, valorizzando le eccellenze italiane dell’artigianato cinematografico, dal montaggio, alla scenografia, ai costumi, al truccco. Molto si è detto del film, e molto se ne parla ancora oggi, considerato che fu girato nel 1987, e la tecnologia digitale era ancora agli albori, e per le scene di massa vennero utilizzate comparse in carne ed ossa, che lavorarono per mesi accanto allo staff della produzione. Nel 2013 è stato restaurato utilizzando il digitale ma in tutta sincerità l’opera era perfetta già in originale. Che dire ancora di un film così iconico che ha se vogliamo cambiato la percezione che abbiamo del momento storico preciso in cui l’antica società cinese feudale diventava una repubblica ed entrava nella modernità? Bertolucci presentò la sceneggiatura alle autorità cinesi che l’approvarono dandogli l’autorizzazione, forse per la prima volta concessa a un regista occidentale, di girare molte scene all’interno della Città Proibita, dando veridicità alla storia perlopiù incentrata sul personaggio di Pu Yi, l’ultimo imperatore cinese, interpratato dall’allora emergente John Lone, in un ruolo significativo per gli attori di origine asiatica (anche se non vinse piuttosto inspiegabilmente nessun premio per questa parte). A impreziosire il cast Peter O’Toole, nella parte di Sir Reginald Fleming Johnston, diplomatico, docente universitario, e precettore personale dell’imperatore cinese Pu Yi, autore di “Il crepuscolo della città proibita” (Twilight in the Forbidden City), con prefazione dello stesso Pu Yi. Bertolucci optò per una visione non lineare della storia, costruendo il montaggio alternando flashback e momenti presenti, con il pretesto che nel campo di prigionia dove Pu Yi venne internato come criminale di guerra gli fu chiesto di riscrivere la sua storia, dall’infanzia, alla Seconda Guerra Mondiale. Immagini d’epoca sul bombardamento di Shanghai, e gli effetti della guerra batteriologica sono fatti vedere come un cinegiornale ai prigionieri riuniti in una sala comune e il valore documentaristico si intreccia con la ricostruzione storica accurata fino all’ultimo dettaglio, con scrupolo quasi maniacale. Tra le critiche, perchè non mancarono neanche quelle, l’appropriazione culturale non mancò soprattutto rivolta a un regista europeo che decise di ricostruire con la sua sensibilità e il suo talento artistico un periodo piuttosto controverso della storia cinese. Al netto di questo c’è da dire che il film fu accolto più o meno da tutti come un capolavoro, grazie anche a una colonna sonora strepitosa composta da David Byrne, Ryūichi Sakamoto e dal cinese Cong Su. Esiste una director’s cut, ricca di scene tagliate nella versione definitiva, di cui consiglio sicuramente la visione, soprattutto perchè permette un approfondimento del personaggio di Pu Yi non così remissivo durante il periodo di dentenzione nel carcere maioista. Alcune scene danno la dimensione del fatto che non abbia mai abbandonato l’idea di essere imperatore, e anche dopo i dieci anni di detenzione e di rieducazione, che lo trasformarono in un semplice giardiniere, ha sempre conservato questo sogno che si esprime nelle scene finali quando passa il testimone al figlio del custode del Palazzo Imperiale.
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