
Con il passar del tempo la gente si diradava. Partivano, partivano per l’Italia o la Spagna. Non eravamo ben informati, ce ne rendevamo conto solo più tardi quando vedevamo l’erbaccia cresciuta davanti alle porte di coloro che erano partiti. Un giorno parlavo con la comare Săviţa che era dall’altra parte del recinto; aveva due ragazzi, uno in Austria e l’altro non ho mai saputo dove.
– Non senti la loro mancanza? Non li nomini quasi mai! O ti sei abituata?
– E che devono fare a casa? Quel pezzettino di terra lo lavoro da sola, non ho bisogno del loro aiuto, magari si trovano una sistemazione! Non hai visto quanti sono partiti? Guardati un po’ intorno! Da quella casa lì all’angolo è partito Toader, da quella di Ica è partito Marcel, da quella di Maria di Chioru è partito suo figlio, Ionel, da quell’altra casa, quella gialla, sono partiti tutti. Fai il conto, di sette case ne sono rimaste solo due «intere». La gente parte, uno tira l’altro, perché sono giovani e si dice che stiano molto meglio laddove vanno a finire.
Questa Italia era per me come un buco nero che ingoiava tutti. Non sapevo allora che più tardi avrebbe ingoiato anche me.
Una scrittura semplice e antica, quasi ipnotica, legata a una saggezza popolare cadenzata dalla natura, dal cambiare delle stagioni, dall’attenzione per le cose minime, minute, quotidiane caratterizza le pagine de L’imperatrice (Împărăteasa, Humanitas, Bucarest 2017) di Liliana Nechita, già autrice del fortunato Ciliegie amare edito in Italia con Laterza. Di madre lingua romena, da anni vive in Italia come badante, è il suo lavoro principale, e ha appreso per osmosi un italiano letterario, immaginifico e naïf. Dotata di una capacità linguistica eccellente Liliana Nechita cadenza il suo narrato sulla melanconia del ricordo, della memoria raccontandoci la storia di Olga, sua suocera, una semplice contadina, poco istruita, vittima della povertà, di un passato anche doloroso ma piena di saggezza, e con l’incedere di un Imperatrice. La Romania di Ceausescu, il comunismo reale ne emerge trasfigurato e lontano, perché la campagna, con il suo attaccamento alla terra e alle tradizioni, è quasi isolata dalle grandi città come Bucarest, quasi un altro mondo. Una società matriarcale, in cui le donne lavorano la terra, costruiscono con le loro mani le case e si sposano per fuggire alla fame, non per amore, finendo spesso vittime di mariti alcolizzati e violenti. Nonostante questo le donne restano l’ossatura portante di queste società contadine anarchiche se vogliamo, arcaiche forse ma coese e solidali. Poi l’avvento dei fenomeni migratori ha spopolato i villaggi, e l’autrice guarda a questo con dolente rassegnazione, si parte per non tornare, per vivere nuove vite lontano dalle terre di origine, lontano dalle proprie radici in Italia, in Spagna, in Francia e questo spaesamento porta con se un lutto, una frattura che trasfigura il passato con i colori del rimpianto e dell’affetto. Sincera, diretta, buffa la scrittura di Liliana Nechita incanta e affascina, perché sono forti anche in Italia le radici contadine, che l’industrializzazione e il progresso non hanno del tutto estirpato. I cibi semplici, la polenta condivisa con un fiasco di vino nuovo, la cadenza delle feste religiose come la Pasqua o il Natale, il profumo dei cibi cucinati la domenica, l’attaccamento alle fiabe e alle leggende non solo alle superstizioni. C’è tanta nobiltà nelle pagine di questo libro, nobiltà autentica, e speranza. Se un mondo scompare vive nella memoria, con umile comprensione, legittimando vissuti a cui si dà poco conto, poco valore. E Liliana Nechita ci ricorda quanto ci sbagliamo, perché la felicità sta nelle piccole cose anche quando non immaginiamo neanche di poterla ottenere. Una saga familiare dunque capace di portare alla luce la memoria di chi abbiamo amato, di chi abbiamo rispettato ed è stato per noi modello di vita. Con riconoscenza e autentica umanità.
Liliana Nechita è nata nel 1968 in Romania e vive in Italia da più di 15 anni. Esordisce nel 2013 con un libro sul drammatico fenomeno migratorio delle donne e delle madri romene, Cireşe amare, che ottiene grande attenzione da parte del pubblico e della critica, pubblicato in Italia nel 2017 dall’editore Laterza col titolo Ciliegie amare. Nel 2013 le viene conferito il Premio Donna dell’anno per la promozione e la difesa dei diritti delle donne. Tra i suoi libri, caratterizzati da forti tematiche sociali e impegno civile, ricordiamo L’imperatrice (2016; prima ed. italiana fve, 2021), Bambole di fango (2019) e Piccola mamma (2020), suo primo lavoro scritto in lingua italiana.
Source: libro inviato dall’editore. Ringraziamo Anna dell’ufficio stampa dedicato.