
La donna della domenica di Fruttero & Lucentini fu uno spartiacque, che se vogliamo coincise con un punto di non ritorno: il giallo si guadagnava (finalmente, oserei dire) un posto di rilievo nel mondo letterario italiano. L’aura di nobiltà letteraria guadagnata da questo libro da quel momento accompagnò anche opere di ingegno precedentemente ritenute solo bassa letteratura “popolare” (con snobbismo dispregiativo) di genere. Tutto ciò lo dobbiamo a Carlo Fruttero e Franco Lucentini, enfants terrible della letteratura italiana. Colti, eleganti, ironici, forse troppo intelligenti, divertenti, conoscitori delle dinamiche sociali e morali di un’Italia che forse si è persa, ma che loro fotografarono nel periodo di maggior fulgore post boom economico in cui albergavano già i germi della decadenza. Era il 1972, iniziavano gli Anni di piombo (la strage di Piazza Fontana era del 1969), il clima era teso, lugubre, la gente non scherzava più, anche la letteratura rifletteva questo malessere diffuso. E Fruttero & Lucentini cosa fecero? scrissero un’opera lieve, divertente, buffa, “leggera”, capace di far riflettere e nello stesso tempo rassicurare i lettori prendendo bonariamente in giro una alta borghesia sabauda, contornata da un mondo in fermento. Fruttero & Lucentini ebbero il pregio di scrivere un libro stilisticamente splendido, un tripudio di intelligenza, una piccola perla che poneva di colpo Torino, con i suoi vizi e le sue poche virtù, sotto i riflettori. La Torino degli anni ’70 torna grazie a questo libro a rivivere, e lo fa con grazia e discrezione. Gli autori, seppure una velata critica sociale la facciano, non vollero cavalcare l’onda del risentimento o inasprire di ingiustizie e diversità sociali esistenti all’epoca, vollero invece semplicemente creare un teatro umano in cui sentimenti, passioni, e anche odi assursero a protagonisti, usando il meccanismo del giallo e dell’indagine poliziesca, come pretesto, come mero stratagemma narrativo. Lungi da me voler fare un’analisi sociologica di questo capolavoro letterario, il mio commento è più un omaggio al talento e al genio deglli autori che non dando importanza a mode e pregiudizi hanno portato una ventata di freschezza e novità in un panorama asfittico e di maniera. Dopo di loro anche grandi scrittori poterono dedicarsi al giallo senza vergognarsene. Se Umberto Eco scrisse Il Nome della Rosa, un po’ lo deve anche a loro, e molti altri autori furono debitori dell’irriverenza e della preveggenza di questa coppia di autori così fuori dagli schemi. Ipocrisie, false morali, avidità, intrallazzi, meschinità, ce ne è per tutti. Anche se il tono resta leggero, i temi tratatti sono seri e più scaviamo in questo testo e più troviamo gemme e tesori. La Mondadori esce con una nuova edizione del libro, per i più giovani che hanno il privilegio di leggere questo testo per la prima volta. E’ divertente, grottesco, surreale, e paradossale per certi versi, certo nessuno si scandalizza più per l’arma del delitto (un fallo di pietra) che sicuramente negli anni ’70 creò un certo scompiglio, pur tuttavia l’umanità nel suo substrato più profondo resta la stessa, e la modernità di questo libro ci accompagna ancora oggi con garbo e ironia, parole forse fuori moda, che caratterizzano però la torinesità nel suo intimo più profondo. Che Anna Carla Dosio divenne grazie anche a Jacqueline Bisset che la interpretò nel film omonimo di Comencini il sogno proibito di mezz’Italia maschile, fa forse sorridere, oggi consumiamo tutto con così grande velocità che non si può non guaradre con tenerezza e con rimpianto a quegli anni, forse idealizzati per alcuni, ma sicuramente vivi e vitali.