Posts Tagged ‘John Lone’

:: Visioni di cinema: The Moderns, di Alan Rudolph (1988)

17 novembre 2025

Allievo prediletto di Robert Altman, Alan Rudolph è l’artefice di un piccolo gioiellino sperduto nella cinematografia dei tardi anni ’80 dal titolo quantomai emblematico The Moderns, con riferimento esplicito alla corrente artistica del Modernismo.

Ambientato nella Parigi bohemienne del 1926, il film segue le accidentate vicende di Nick Hart (da notare l’assonanza co Art), interpretato da un ottimo Keith Carradine, pittore squattrinato americano che si guadagna da vivere disegnando schizzi per l’edizione parigina del New York Herald Tribune. Artista di talento, ma dalle alterne fortune, figlio di un affermato falsario d’arte, sembra avere il destino segnato nel seguire le orme paterne e infatti rimasto in bolletta accetta di copiare alcune opere d’arte per conto di Libby Valentin (Genevieve Bujold) amica e mercante d’arte anche per aiutarla ad uscire da un divorzio difficile.

Nel frattempo, reincontra sua moglie Rachel (Linda Fiorentino) da cui non ha mai legalmente divorziato, ora “sposata” in odore di bigamia con Bertram Stone (John Lone), un pericoloso e ambiguo collezionista d’arte americano, con una passione per l’escapologia, espatriato anche lui, che nonostante la sua enorme ricchezza fatica non poco ad essere accettato dal bel mondo parigino. Tra Rachel e Nick riesplode la passione e da qui in poi le cose assumono il tono della farsa più che della tragedia.

The Moderns si svolge in uno scenario evocativo e decadente tra caffè, ristoranti, salotti culturali, palestre di boxe, soffitte e gallerie d’arte, e ci narra una storia che se vogliamo è una severa critica a tutto quello che ruota intorno al mondo dell’arte, dai critici cinici e spietati, agli avidi mercanti d’arte, agli investitori, un mondo chiuso e molto elitario in cui più che giudizi estetici predominano dibattiti economici sull’autenticità delle opere. La mercificazione dell’arte infatti diventa il perno di una critica feroce, sul senso ultimo di un mondo che vive di apparenza, dove la verità e l’illusione si alternano in un susseguirsi di gag semiserie dal retrogusto al curaro.

E se vogliamo questa critica è più riferita alla Hollywood degli anni ’80, che al mondo dell’arte parigina degli anni ’20.

Tra i tanti espatriati incontriamo Hemingway, e Gertrude Stein, animatrice di uno dei più effervescenti salotti letterari parigini, ma non è tanto la ricostruzione storica che interessa al regista più l’atmosfera e lo spirito di un’epoca che ha segnato in modo non marginale l’immaginario del Novecento.       

:: Visioni di cinema: Zì Yú Zì Lè (Master of Everything / Bamboo Shoot, 2004) di Li Xin

31 ottobre 2025

Oggi voglio parlarvi di un delizioso film cinese indipendente, e a basso budget, dal titolo Zì Yú Zì Lè, (titolo internazionale: Master of Everything / Bamboo Shoot) del regista Li Xin, scritto da Sara Chen Yan e uscito nel 2004 in Cina.

Sebbene non sia una produzione mega hollywoodiana, si avvale tuttavia di seri e stimati professionisti, tra cui il direttore della fotografia, Wong Yue-tai, è un grande nome nell’industria della fotografia di Hong Kong, avendo vinto cinque Golden Horse Awards e cinque Hong Kong Film Awards e il compositore, Hummie Mann, è un compositore canadese che ha vinto due Emmy Awards, che contribuisce con sensibilità a creare un’atmosfera sospesa tra poesia e realismo.

Percepito come strano, bizzarro, troppo onirico (divertente la scena nel bosco di bambù, che cita o fa la parodia di una scena analoga ne La Tigre e il Dragone) ha subito una certa critica istituzionale negativa, pur essendo invece quasi inaspettatamente premiato al botteghino già dalle prime settimane di uscita con un crescente successo di pubblico nonostante il tono sperimentale lo rendeva un po’fuori dal mainstream commerciale dominante. Tuttavia, il film è stato nominato per il miglior lungometraggio cinese al Golden Deer Award per l’innovazione tecnologica e per la migliore interpretazione femminile al 7° Changchun Film Festival. Oltre che candidato al Chinese Film Media Award sia per la migliore protagonista, che per la migliore coprotagonista.

Dirvi che mi è piaciuto è poco, è poetico, delicato, divertente, a tratti commovente, e penso sinceramente possa interessare anche a un pubblico occidentale, sebbene credo sia circolato quasi esclusivamente nel mercato cinese, o perlomeno asiatico. Non di facile reperimento qui da noi, non credo ci sia nelle piattaforme principali di streaming doppiato in italiano, ma dato il doppio titolo internazionale penso che almeno nelle intensioni era pensato anche per il mercato internazionale, in inglese. Anche se attualmente non è disponibile per lo streaming neanche negli Stati Uniti, ma era disponibile su Amazon Video fino almeno al settembre 2015. La mancanza di una campagna promozionale internazionale o accordi di distribuzione può aver limitato la sua “uscita” fuori Cina.

Se vogliamo riprende la storia di Pigmalione, o meglio una versione rurale cinese di My Fair Lady, ma lo fa con tale delicatezza e originalità da risultare un piccolo gioiello da riscoprire.

Debutto cinematografico della cantante Coco Lee, che si impegnò davvero molto, e duramente, studiando privatamente e pagando di tasca sua insegnanti di recitazione e di dizione, e arrivando a girare le scene di azione senza controfigura, facendosi anche male, e questo si trasmette nella freschezza e spontaneità del personaggio, arricchendolo e valorizzandolo, il film si avvale anche della partecipazione straordinaria di John Lone, il protagonista maschile del film, star internazionale di prima grandezza anche se qui a fine carriera, che tornò nella Cina continentale appositamente per girare questo film per la prima volta dai tempi dell’”Ultimo Imperatore”, forse per aiutare proprio la talentuosa e amica Coco Lee nel suo lancio cinematografico,  per una volta in una parte romantica, ed bravissimo in questo ruolo di innamorato un po’ attempato. Ma è all’altezza tutto il cast tra attori professionisti e amatoriali, o semplici comparse.

È un film corale: tutto il villaggio cinese in cui è ambientato è protagonista, anche se resta una storia d’amore, in realtà, non solo sentimentale ma anche per il cinema in sé. Ah, dimenticavo è tratto da una storia vera, quella di Zhou Yuanqiang, il capo della stazione culturale nella città di Jingcheng, Jingdezhen, provincia di Jiangxi.  

Veniamo alla trama: in un pittoresco villaggio di montagna della Cina meridionale, dove la troupe visse per due mesi, di una bellezza paesaggistica stupenda, lo scapolo Mi Jihong (John Lone) si innamora di Luhua (Coco Lee) la bellissima figlia del capo villaggio (un dolcissimo Tseng Chang) e amica intima di sua sorella Alian (Tao Hong). Timido, introverso, ingenuo, anche preoccupato per la differenza di età Mi Jihong fatica a confessare i suoi veri sentimenti, ma quando Luhua, che ama esibirsi sul palco per gli abitanti del villaggio e sogna un futuro nel mondo dello spettacolo, viene scartata in modo abbastanza cattivo dopo un provino per un film, Mi Jihong incapace di sopportare la sua tristezza compra una videocamera digitale e propone alla ragazza di recitare da protagonista in un dramma amatoriale di arti marziali, “L’eroina di Guanzhong”, usando mezzi rudimentali e tanta fantasia, per realizzare il suo sogno di diventare una star.

Mi Jihong, sempre per amore, assume i ruoli di regista e direttore della fotografia, chiede al proprietario del ristorante del villaggio di investire nel film, e recluta il falegname del villaggio come sceneggiatore e attrezzista.

Da qui in poi il film racconta come il film viene girato dalla scelta del cast alla realizzazione vera e propria di tutte le scene, fino al successo finale e all’attenzione che gli riservano i media nazionali.  Anche i due corteggiatori di Alian, Wang Shengli (Xia Yu) e Wang Ergou (An Hanjin), si uniscono alla troupe, dando un tocco di comicità alla storia. Lieto fine assicurato con Mi Jihong e Luhua finalmente sposi dopo il buffo tentativo del padre di lei di cercargli un marito della sua età.

Il film esplora vari temi: il cinema o l’arte in genere come forma di riscatto e di crescita, l’importanza e la forza della comunità e della solidarietà che anche con basso budget e produzioni limitate riesce a fare un prodotto artistico di pregio, il contrasto tra vita rurale semplice e il mondo dello spettacolo visto come irraggiungibile, il tono che mescola commedia e comicità a temi più seri come la forza del sogno e il confronto con la realtà.

Il film si fa notare per una certa originalità e sincerità di intenti, il fatto che il soggetto è preso da una storia vera è ben caratterizzato ed espresso, poi per l’ottima interpretazione degli attori, ci sono momenti davvero toccanti e pieni di grazia, e pure Coco Lee pur non essendo ancora un’attrice professionista è adorabile e perfetta nel ruolo.

Infine, forse questo è il fulcro del film: lo spirito meta-cinematografico, perché in fondo il film è un film sul fare un film, e lo fa con grazia e leggerezza senza appesantire o annoiare, né voler essere didascalico o saccente o peggio grottesco. Si riflette insomma sul mezzo cinema, sui sogni e le aspirazioni dei singoli attori e sulle difficoltà che si incontrano quando si passa dal sogno alla realizzazione filmica, ovvero alla realtà.

Nel complesso un film umile ma con un grande cuore e buone intenzioni onestamente mantenute. Un film meritevole, infine, per chi è interessato a un cinema prodotto dal basso, poco noto, fuori dai grandi circuiti, ma di grande valore. Con l’augurio che riprenda a circolare anche in occidente, o doppiato o perlomeno con i sottotitoli in inglese, se non in italiano. 

:: Visioni di cinema: The Shadow di Russell Mulcahy (1994)

28 ottobre 2025

L’Uomo Ombra (The Shadow), diretto da Russell Mulcahy nel 1994, è un film singolare che all’uscita non raggiunse un gran successo al botteghino, né tanto meno di critica, ma nel tempo si conquistò la fama di piccolo cult, entrando nel cuore di molti spettatori amanti del genere fantastico coniugato col noir.

Ambientato nella cupa e oscura New York degli anni ’30, The Shadow segue le avventure di Lamont Cranston (Alec Baldwin), sfaccendato e affascinante playboy di giorno e giustiziere mascherato di notte. Dopo anni in Tibet, era diventato in Oriente uno dei tanti Signori della guerra, tra oppio e battaglie, redento, sotto la guida di un monaco, aveva acquisito il potere di diventare invisibile — tranne la sua ombra, da qui il nome con cui veniva chiamato.

Tornato in America con i suoi nuovi poteri — invisibilità e controllo mentale — si mette dunque dalla parte del bene per combattere il crimine, e soprattutto per redimere sé stesso dalle colpe passate.

A questo punto è bene precisare che The Shadow affonda le radici in una delle figure più iconiche della cultura popopolare americana pre-supereroistica. Nato negli anni ’30 come voce misteriosa di un programma radiofonico (tra le cui voci ci fu per un periodo anche Orson Welles) e poi trasposto in pulp magazine e fumetti, The Shadow fu una delle prime incarnazioni dell’eroe mascherato tormentato, ispirando direttamente personaggi come Batman.

Quando Russell Mulcahy porta il personaggio sul grande schermo nel 1994, lo fa in un momento in cui Hollywood tenta di riscoprire gli archetipi del passato sulla scia del successo stratosferico dei due Batman di Tim Burton e del Dick Tracy di Warren Beatty (1990). Tuttavia, il film non si limita a un’operazione puramente nostalgica: tenta di costruire un immaginario a metà strada tra mito, noir e spiritualità orientale.

Un equilibrio molto difficile da raggiungere, ma il regista ha il buon gusto di non prendersi troppo sul serio, lasciando all’ironia — se non a sprazzi di vera comicità — campo libero. A questo proposito, come non citare la splendida interpretazione di Tim Curry? Sì, in un ruolo da caratterista, non da protagonista, ma straordinario.

Tornando alla trama, il nemico principale di The Shadow è Shiwan Khan (John Lone), ultimo discendente di Gengis Khan, intenzionato a soggiogare il mondo con un’arma nucleare rudimentale. Tra intrighi, misteri e atmosfere noir, The Shadow dovrà fermarlo, nascondendo però la sua vera identità anche alla donna che ama, Margo Lane (Penelope Ann Miller), che qualche potere telepatico possiede anche lei.

Buffa la scena al ristorante, dove ringrazia Cranston per il complimento sul vestito che indossa e lui si schermisce dicendo che non ha detto niente, ma solo l’ha pensato.

L’Uomo Ombra è un film che mescola azione pulp, atmosfere gotiche e suggestioni art déco; e sicuramente i vestiti splendidi — soprattutto del cattivo — sono uno dei punti forti del film. C’è una scena in cima all’Empire State Building dove un marinaio in libera uscita fa un commento vagamente omofobo sulle vesti di Shiwan Khan, e lui, infastidito, con la forza del pensiero costringe il malcapitato a buttarsi giù.

Il regista Russell Mulcahy, noto per il suo stile visivo forse anche eccessivamente barocco e visionario, già visto in uno dei suoi maggiori successi, Highlander, punta molto su un’estetica fortemente stilizzata: luci al neon, fumo, ombre e riflessi dominano la scena, evocando l’iconografia del cinema noir classico e del fumetto pulp.

E qui la fotografia di Stephen H. Burum riesce a rendere New York un palcoscenico irreale e onirico. Che gli scenari siano di cartone, che il trenino della metropolitana sopraelevata sia vistosamente un modellino, poco importa — anche grazie a quel “non prendersi troppo sul serio” di cui parlavamo prima.

Gli effetti speciali sono buffi, forse esagerati, ma non ridicoli: costruiti anche con un certo senso teatrale, che non ho trovato affatto fuori luogo. La regia predilige il movimento fluido e la composizione simmetrica, con effetti ottici che rimandano all’invisibilità del protagonista e al suo potere di confondere la percezione. Specchi, vetri, riflessi e dissolvenze creano una costante ambiguità visiva tra realtà e illusione.

Mulcahy non punta al realismo a tutti i costi, ma a un’estetica volutamente artificiale, fumettistica, dove la forma diventa sostanza — un approccio che oggi potremmo definire “meta-pulp”. E non si può non citare l’omaggio a La signora di Shanghai, nel finale tutto specchi. Ma le citazioni e gli omaggi sono numerosi: basta saperli cercare.

Alec Baldwin, ai tempi già famoso e con una significativa filmografia alle spalle, offre una performance carismatica, divertita e ambigua, incarnando un antieroe affascinante e tormentato, mentre John Lone dà spessore al villain con eleganza, ferocia e un tocco di spaesamento che lo rende, a suo modo, anche buffo. Penelope Ann Miller è semplicemente perfetta: dolce, bellissima e intelligente. Non una dark lady da film noir classico, ma una degna coprotagonista femminile, che a tratti ruba la scena al nostro eroe.

Ian McKellen, poi, come scienziato pazzo e daltonico, se la gioca con Tim Curry per bravura.

Forse non può essere definito un capolavoro, ma rimane un interessante esperimento visivo e uno dei primi tentativi degli anni ’90 di riportare sullo schermo gli eroi pre-comics. Apprezzato per la sua atmosfera retrò, la colonna sonora di Jerry Goldsmith e il fascino dark del suo protagonista, The Shadow resta un film che è piacevole vedere e rivedere, scoprendo sempre nuovi dettagli magari precedentemente sfuggiti.

Ah, mi raccomando: Il sole splende e il ghiaccio è sdrucciolevole. Non si sa mai servisse.

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:: Visioni di cinema: Le ombre del pavone di Phillip Noyce (1987)

16 ottobre 2025

Le ombre del pavone, titolo originale: Echoes of Paradise (anche noto come Shadows of the Peacock) del regista australiano Phillip Noyce, è un film decisamente interessante, perso tra le varie commedie sentimentali con sfondo esotico tipiche degli anni Ottanta, in cui esotismo, ricerca di sé, e il viaggio come metafora della trasformazione interiore, avevano un certo appeal nelle aspettative di un pubblico ancora non del tutto assuefatto e anestetizzato dal turismo di massa.

Il film di Noyce si differenzia per alcune tematiche peculiari che arricchiscono una trama narrativa abbastanza abusata: una donna, Maria, interpretata da una intensa e credibile Wendy Hughes, prima perde il padre, poi scopre il tradimento del marito, un affermato politico locale, e la sua vita rispettabile e borghese cade in pezzi, perdendo i suoi punti di riferimento sente crollare il suo mondo interiore e le sue aspettative, e tutto questo è descritto con grande sensibilità e attenzione alle dinamiche e fragilità interiori della protagonista.

Un’amica più smaliziata, Judy (Peta Toppano), che sta partendo per la Thailandia, la invita ad andare con lei per interrompere il tran-tran familiare, e riprendersi in un luogo esotico lontano da tutto. Maria dopo qualche esitazione, (non ha mai lasciato soli i suoi figli piccoli) accetta e parte per Phuket, la più grande isola della Thailandia, (originariamente il set era ambientato a Bali, ma per una serie di vicissitudini, che portarono a diverse riscritture della sceneggiatura e scontri redazionali si scelse un luogo altrettanto esotico ma meno suggestivo e di nicchia).

Ad accoglierle trovano Terry (Rod Mullinar), proprietario del resort che le ospita, che, come un maestro di cerimonie, le porta a conoscere i segreti dell’isola e le presenta a Raka (John Lone), danzatore balinese, affascinante e misterioso di cui Maria subito si innamora, corrisposta. Questo amore è molto più che una semplice scappatella, o una vendetta per il tradimento subito dal marito (Steve Jacobs), ma è una sorta di iniziazione, anche spirituale, a un mondo altro, a una ricerca di sé più autentica e profonda dove non contano solo le aspettative degli altri.

Ma la passione, l’amore non basta, e dopo una serie di incomprensioni Maria sente di non appartenere a quel luogo, e neanche a Raka, e torna in Australia dal marito e dai bambini, pur essendo cambiato qualcosa nel suo animo e avendo acquistato una nuova consapevolezza.

L’esotismo non stereotipato, il rispetto per la cultura altra, la sacralità tutta orientale delle cerimonie e i riti, le combattute recriminazioni interiori sull’abbandono di ruoli e responsabilità, rendono il film non usufruibile come mero intrattenimento commerciale, ma avvicinano lo spettatore a qualcosa di più serio e profondo. Bellissime le scene di danza, i costumi, il trucco, per non parlare del paesaggio che da sfondo a un Paradiso dove la felicità sembra a portata di mano, seppure a misura di turista.

Forse una delle opere minori di Philip Noyce, ma ricca di un fascino sottile, che resta impresso nell’anima e arricchisce lo spettatore. Da riscoprire.

:: Visioni di cinema: L’anno del Dragone di Michael Cimino, a quarant’anni dall’uscita

11 ottobre 2025

L’anno del Dragone (The Year of the Dragon, 1985), diretto da quel genio eclettico, e per certi versi troppo visionario per l’epoca, di Michael Cimino, è un film che non smette di far discutere cinefili, appassionati o semplici spettatori. Quarto lungometraggio di Cimino, cinque anni dopo le vicessitudini di I Cancelli del Cielo, (Heaven’s Gate, 1980), con sceneggiatura oltre che sua anche di Oliver Stone, basata sul romanzo bestseller del 1981 di Robert Daley, scrittore, giornalista ed ex ufficiale di polizia di New York (che rinnegò piuttosto accesamente il lungometraggio di cui aveva venduto i diritti, soprattutto per la rappresentazione delle forze dell’ordine), L’anno del Dragone divise gli spettatori tra l’ammirazione per le indubbie qualità tecniche e la resa visiva, quasi di stampo operistico, e le criticità che hanno attirato molte opposizioni specie in America nelle organizzazioni cino-americane. Pur essendo radicato nella società americana degli anni ’80, di reaganiana memoria, conserva tuttavia un grumo di autenticità sopravvissuto integro anche ai giorni nostri, sebbene siano passati 40 anni esatti e sia il tessuto della società americana sia profondamente cambiato, sia la percezione delle comunità “altre”, in questo caso cinesi.

Protagonista principale del film è Stanley White, un invecchiato per ragioni di scena Mickey Rourke, allora al culmine della sua bellezza e della sua fama, pur non trascurando le doti recitative (da ex pugile le scene dei pestaggi sono molto realistiche), che non riesce proprio a far sembrare antipatico un personaggio che fa di tutto per esserlo: veterano reduce del Vietnam, poliziotto decorato per meriti di servizio non di scrivania, razzista, violento, intransigente, del tutto privo del senso delle gerarchie, allergico ai compromessi, insensibile verso le sensibilità altrui, ma tuttavia dolorosamente onesto (non è un poliziotto corrotto) seppure incarni tutto quello che c’è di negativo nell’idea, forse un po’ preconcetta, di uomo bianco, arrogante e prevaricatore. Comunque c’è da sottolineare che Stanley White è un personaggio che incarna perfettamente la paranoia securitaria dell’epoca reaganiana, e il film ne è uno specchio, forse distorto, e Cimino ne è ben consapevole.

Dopo l’assassinio, in un ristorante, sotto gli occhi di tutti, del boss di Chinatown a New York, Jackie Wong, White viene assegnato al Quinto distretto e subito fa capire che c’è aria nuova in città. A lui non interessano i patti, i compromessi con gli anziani della comunità cinese locale per quieto vivere, lui come un bulldozer vuole fare piazza pulita di tutto e restaurare l’ordine, il suo personale ordine di poliziotto di origini polacche, un immigrato anche lui anche se ormai completamente integrato nel tessuto sociale americano (“se mi arrendo io si arrende il sistema”, dice sconsolato a un collega).

A contrastarlo, Joey Tai, (John Lone), giovane, ambizioso elemento emergente della Triade o Tong newyorchese, genero del boss locale assassinato e probabilmente mandante del suo assassinio. Joey Tai vuole il potere, con ogni mezzo, a costo di scatenare una guerra personale con Stanley White, con tutto il dipartimento della Polizia di New York, e con tutta la società americana che relega ai margini l’etnia cinese permettendogli di farsi strada solo nella criminalità. C’è in lui rabbia, rivalsa, ambizione, sebbene sotto a una patina glaciale di gelido autocontrollo che l’attore che lo interpreta rende memorabile.

White è il suo opposto, quello che pensa dice, non trattiene commenti sferzanti né volgari o profondamente razzistici, detesta i giochi politici, non è aristocratico, non è ben educato o elegante, non è istruito, è mosso da un suo personale senso di giustizia e da un grumo di odio verso la gente asiatica che si porta dietro dal Vietnam, dove gli asiatici rappresentavano il nemico. Ma mentre in Vietnam, nella jungla, non ne vedeva il volto, qui a New York li può guardare in faccia, sfidare apertamente, affrontare in prima persona, in un processo di rozza semplificazione in cui gli asiatici sono ai suoi occhi tutti un’unica entità senza differenziazioni.

A Cimino non interessa il politicamente corretto, lui vuole opporre un ricalco della realtà, sebbene drammaturgicamente filtrata, descrivendoci una Chinatown, dove si muovono i personaggi, ricostruita nei minimi dettagli (dalle botteghe, ai vicoli, ai ristoranti, ai locali di scommesse) con tutto il folklore delle feste, delle processioni funebri, dei rituali che non sono solo un’esibizione esteriore, ma fanno parte di un senso etnico di comunità, un’adesione alle tradizioni di una cultura altra impiantata quasi a forza nel contesto urbano statunitense.

Non solo una Chinatown da cartolina, ma in filigrana una micro-città sotterranea con regole e microstrutture di potere parallele se non ostili a quelle ufficiali.

Le scene d’azioni sono veloci, sincopate, violente (se non iperviolente) e si alternano a momenti più riflessivi dove i personaggi parlano, si confrontano, si lasciano andare come nelle scene d’amore tra White e Tracy Tzu, la giornalista nippo-cinese che volente o nolente aiuterà White e di cui si innamorerà, dando vita a una relazione interetnica piuttosto insolita per il periodo, o al battibecco coniugale in cucina tra White e la moglie (una splendida e sciupata Caroline Kava).

La violenza urbana si fa strumento narrativo, come nella scena della strage al ristorante, Shanghai Palace, o nel pestaggio nei bagni della discoteca, o nell’uccisione del giovane poliziotto infiltrato cinese, Herbert, a cui è concessa una scena memorabile nell’appartamento high tech di Tracy Tzu, che esprime orgoglio identitario, dove difende con passione la superiorità della sua cultura millenaria, con orgoglio e altruismo. Ma ce ne sono altre anche meno sfumate ma piuttosto disturbanti, con i mezzi dell’epoca, con il sangue che a una visione contemporanea può risultare posticcio.

Tuttavia, ritengo che il passare del tempo non abbia scalfito eccessivamente la visionarietà del narrato, sebbene molto distante dalla sesibilità contemporanea alla luce del Stop Asian Hate, soprattutto per quanto riguarda la veridicità della dimensione psicologica dei personaggi, vibrante, autentica, necessaria seppure a tratti estremizzata ed eccessiva.

Non condivido completamente la critica che si fa del fatto che tutta la comunità cinese è vista come criminale, violenta, mafiosa, in filigrana c’è anche una dimensione onesta, laboriosa, risparmiatrice attenta ai valori familiari. Come Herbert, i lavoratori silenziosi della fabbrica, i camerieri dei ristoranti, la stessa Tracy Tzu, o il personaggio che lavora nella fabbrica di soia e chiama la polizia quando riviene i corpi dei due attentatori del ristorante, e lavora da oltre quarant’anni in quella fabbrica simile a una prigione e conserva tutti i suoi risparmi alla Chase Manhattan Bank, o anche semplicemente nel padre di Tracy Tzu che fa lo spedizioniere. Tutta una massa silenziosa a cui non si dà eccessivamente luce perchè il film focalizza l’analisi sulla criminalità, essendo appunto un noir moderno o ibrido, legato più alla tradizione del poliziesco metropolitano violento che al noir codificato degli anni ’40-’50.

Nel complesso è un film che non si fruisce come mero intrattenimento poliziesco ma invita a riflettere su veri temi morali, etici e sociali, portando lo spettatore a un livello di comprensione delle dinamiche in corso più alto e problematico. È senz’altro un’opera ambiziosa, non senza frizioni, per certi versi scomoda e conflittuale, che tuttavia porta avanti un discorso autoriale coerente, e non svenduto ai meri interessi commerciali di cassetta, grazie anche al fatto che trovò in De Laurentis un produttore illuminato, sebbene pretese alcuni tagli della sceneggiatura per limare alcuni eccessi e pretendendo un finale abbastanza convenzionale con la sparatoria al molo, ma concesse per esempio di girare in Thailandia alcune scene come chiedeva il regista. Insomma alcuni compromessi in via di produzione furono fatti, ma Cimino potè abbastanza liberamente esprimere la sua linea di pensiero.

Uno dei film più interessanti di Cimino dopo Il cacciatore (The Deer Hunter) e al netto delle polemiche che ha suscitato al tempo dell’uscita nelle sale soprattutto in America (1), mentre quando uscì a Honk Kong fu accolto appunto come un film d’azione d’autore (2) o ancora oggi, un ritratto aderente al mondo reale, o perlomeno alla percezione che in certi ambienti si aveva della comunità cinese nell’America degli anni ’80. Per il suo valore di testimonianza attuale ancora oggi.


  1. https://www.latimes.com/archives/la-xpm-1985-08-28-ca-25184-story.html
  2. https://www.upi.com/Archives/1985/11/22/Dragon-debuts-in-Hong-KongNEWLNHong-Kong-welcomes-Year-of-the-Dragon/2262501483600

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:: Visioni di cinema: Shadow of China di Mitsuo Yanagimachi

7 ottobre 2025

Shadow of China (“China Shadow”) del regista giapponese Mitsuo Yanagimachi è un film del 1989 decisamente anomalo, e sottovalutato, sia nella produzione del regista, noto più per produzioni più intimiste, e attento all’interiorità di personaggi minimi e poco addentro con le dinamiche del potere, sia per la filmografia dei tardi anni Ottanta legata al passaggio della Cina da colonia britannica al ritorno alla madrepatria, e sia ai fatti di Tienanmen e alle rivolte studentesche atte a richiedere al governo centrale cinese più libertà e democrazia. Tratto dal romanzo giapponese di Masaaki Nishiki, Snake Head, piuttosto irreperibile e di difficile consultazione, narra la storia partendo dal 1976, anno della morte di Mao e l’arresto della Banda dei Quattro, e focalizza l’attenzione su due personaggi Wu Chang (interpretato da un carismatico e sensibile John Lone) e Moo-Ling sua compagna (interpretata da una deliziosa e sofferta Vivian Wu), due ex guardie rosse (portano la fascia nera al braccio in segno di lutto) che scelgono l’esilio a Hong Kong per sfuggire ai tumulti legati alle repressioni rivolte verso le Guardie rosse. Arrivati a Hong Kong con altri rifugiati politici, le loro strade si separano: Moo Ling diventa una celebre cantante di Club e Wu Chang, nel frattempo conosciuto come Henry Wong, per porre una distanza dal suo passato, un importante banchiere la cui ricchezza resta di origini dubbie e sconosciute. La storia riprende quando Henry Wong cerca di organizzare, tramite il suo consulente finanziario Burke, l’acquisizione dell’importante quotidiano in lingua cinese Wah Min Daily di proprietà dell’anziano signore della droga Lee Hok Chow. Avendo capito che la sua grande ricchezza può essere utilizzata come strumento politico, e che i Media possono costruire l’opinione pubblica nella formazione della Nuova Cina. Come strumento destabilizzante entra in gioco il giornalista giapponese Akira alla ricerca di informazioni su Kazuo Obayashi, un giapponese ex Guardia rossa, che poi si scopre essere lo stesso Henry Wong. La trama è davvero complessa e intricata, e non voglio spoilerare troppo della trama per coloro che non hanno ancora visto il film (segnalo che ci sono diversi rimontaggi a secondo del pubblico di destinazione) sospetto ci sia una versione estesa a cui non ho avuto ancora accesso che segnala scene tagliate, o rimontate, ma per le versioni che ho visto il materiale è degno di nota e ricco di spunti di analisi non banali, anche se è possibile che i tagli siano dovuti a un edulcorazione dei temi troppo caldi per rendere il film più commerciale e libero dai vincoli della censura. In conclusione, devo dire che è un film davvero notevole, non premiato al botteghino all’epoca, soprattutto per la sua visione innovatrice e futuristica, e può giovare vederlo oggi, col senno di poi, soprattutto dopo gli sviluppi che ha preso la storia. L’interpretazione di John Lone soprattutto si segnala come sofferta e partecipata, e frutto di un’analisi attenta del capitalismo postcoloniale, con un’attenta disanima dell’origine delle ricchezze e dei suoi legami con la criminalità o perlomeno con pratiche poco etiche. Nel finale, molto evocativo si attua la parabola morale del protagonista che decide di tornare nella Cina Continentale per continuare la lotta verso una nuova Cina, frutto dei suoi sogni anche di gioventù. Da rivalutare.

:: Visioni di cinema: L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci

25 ottobre 2024

Film di culto, vincitore di 9 premi Oscar, tra cui miglior film, e migliore regia, L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci è un film che ha fatto la storia della cinematografia mondiale, valorizzando le eccellenze italiane dell’artigianato cinematografico, dal montaggio, alla scenografia, ai costumi, al truccco. Molto si è detto del film, e molto se ne parla ancora oggi, considerato che fu girato nel 1987, e la tecnologia digitale era ancora agli albori, e per le scene di massa vennero utilizzate comparse in carne ed ossa, che lavorarono per mesi accanto allo staff della produzione. Nel 2013 è stato restaurato utilizzando il digitale ma in tutta sincerità l’opera era perfetta già in originale. Che dire ancora di un film così iconico che ha se vogliamo cambiato la percezione che abbiamo del momento storico preciso in cui l’antica società cinese feudale diventava una repubblica ed entrava nella modernità? Bertolucci presentò la sceneggiatura alle autorità cinesi che l’approvarono dandogli l’autorizzazione, forse per la prima volta concessa a un regista occidentale, di girare molte scene all’interno della Città Proibita, dando veridicità alla storia perlopiù incentrata sul personaggio di Pu Yi, l’ultimo imperatore cinese, interpratato dall’allora emergente John Lone, in un ruolo significativo per gli attori di origine asiatica (anche se non vinse piuttosto inspiegabilmente nessun premio per questa parte). A impreziosire il cast Peter O’Toole, nella parte di Sir Reginald Fleming Johnston, diplomatico, docente universitario, e precettore personale dell’imperatore cinese Pu Yi, autore di “Il crepuscolo della città proibita” (Twilight in the Forbidden City), con prefazione dello stesso Pu Yi. Bertolucci optò per una visione non lineare della storia, costruendo il montaggio alternando flashback e momenti presenti, con il pretesto che nel campo di prigionia dove Pu Yi venne internato come criminale di guerra gli fu chiesto di riscrivere la sua storia, dall’infanzia, alla Seconda Guerra Mondiale. Immagini d’epoca sul bombardamento di Shanghai, e gli effetti della guerra batteriologica sono fatti vedere come un cinegiornale ai prigionieri riuniti in una sala comune e il valore documentaristico si intreccia con la ricostruzione storica accurata fino all’ultimo dettaglio, con scrupolo quasi maniacale. Tra le critiche, perchè non mancarono neanche quelle, l’appropriazione culturale non mancò soprattutto rivolta a un regista europeo che decise di ricostruire con la sua sensibilità e il suo talento artistico un periodo piuttosto controverso della storia cinese. Al netto di questo c’è da dire che il film fu accolto più o meno da tutti come un capolavoro, grazie anche a una colonna sonora strepitosa composta da David Byrne, Ryūichi Sakamoto e dal cinese Cong Su. Esiste una director’s cut, ricca di scene tagliate nella versione definitiva, di cui consiglio sicuramente la visione, soprattutto perchè permette un approfondimento del personaggio di Pu Yi non così remissivo durante il periodo di dentenzione nel carcere maioista. Alcune scene danno la dimensione del fatto che non abbia mai abbandonato l’idea di essere imperatore, e anche dopo i dieci anni di detenzione e di rieducazione, che lo trasformarono in un semplice giardiniere, ha sempre conservato questo sogno che si esprime nelle scene finali quando passa il testimone al figlio del custode del Palazzo Imperiale.

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:: Visioni di cinema: “M. Butterfly” di David Cronenberg

16 ottobre 2024

“M. Butterfly”, diretto nel 1993 dal regista canadese David Cronenberg, suo primo film internazionale girato in parte a Pechino, e in parte a Budapest e Toronto (per gli interni) con alcune scene a Parigi, si presenta come un’opera singolare nella filmografia di questo geniale cineasta e si colloca tra la spystory e il dramma, esplorando e ridefinendo il concetto di identità come proiezione e materializzazione di illusioni. Questo film offre inoltre una riflessione profonda e seria sul colonialismo e sulla dialettica tra Occidente e Oriente, evidenziando le dinamiche di potere e sfruttamento insite in queste relazioni sempre imperialiste, anche se a volte reciproche, come dice un personaggio. Basato sull’omonima pièce teatrale di David Henry Hwang, liberamente ispirata alla vera storia di Bernard Boursicot e Shi Pei Pu, “M. Butterfly” di Cronenberg si discosta dalle radici politiche del materiale originale per focalizzarsi sulla complessa relazione tra il diplomatico René Gallimard, interpretato da Jeremy Irons, che riesce a trasmettere magistralmente la vulnerabilità e la curiosità per una cultura altra del suo personaggio e la cantante d’opera cinese Song Liling, interpretata da un convincente e affascinante John Lone. La narrazione si snoda attorno a un legame che si sviluppa per oltre vent’anni, rivelando le fragilità e le illusioni di un uomo che, immerso nella sua visione del mondo, ignora totalmente o decide razionalmente di ignorare, nel senso etimologico del termine, le verità più evidenti su sè stesso, la sua sessualità, la sua identità. La figura di Gallimard infatti rappresenta l’archetipo del burocrate occidentale, la cui ignoranza e incompetenza geopolitica lo portano a non riconoscere le reali dinamiche di potere in gioco, emblematica la scena in cui fa le sue scorrette valutazioni e previsioni (influenzate da Song Liling) sulla presenza statunitense nel sud est asiatico a uno sconcertato ambasciatore Tuolon, interpretato in modo impeccabile da un elegantissimo Ian Richardson, perdendo così ogni credibilità all’interno dell’ambasciata che successivamente lo reimpatrierà in Francia. Se avesse anche solo compreso che nel teatro classico cinese le parti femminili erano recitate da attori maschi,- perchè solo gli uomini decidono come una donna debba comportarsi spiega Song Liling alla compagna Chin-, avrebbe potuto intuire la vera identità di Song Liling, – identità sessuale a tutti nota nel suo entourage (come a noi spettatori, data la grande fama dell’attore che lo interpreta), tranne che a lui,- una spia che sfrutta la loro relazione per raccogliere informazioni per il governo comunista cinese. Se anche aveva sospettato, perlomeno inconsciamente, che Song Liling fosse un uomo, la forza del sogno e dell’illusione, e la proiezione del suo desiderio sono troppo forti, come l’deale di bellezza che Song Liling incarna troppo perfetto, per permettergli di accettare che ama un uomo sotto l’involucro puramente esteriore di una donna, per quanto idealizzata. La rivelazione della verità avviene per lui in modo drammatico durante il processo, quando Gallimard si trova di fronte alla realtà della sua illusione, circondato dagli sghignazzi e dal ludibrio della corte, che non riesce a credere alla sua ingenuità e soprattutto al fatto che non abbia mai capito che Song Liling fosse un uomo dopo anni di convivenza. Quando il giudice chiede a Song se sapesse che lui era un uomo, accrescendo così la gravita delle accuse che gli vengono mosse, Song risponde che non lo sa, non gliel’ha mai chiesto, non tradendo infine l’architettura di fili di seta tra illusione e realtà che li ha legati.

Gallimard rappresenta un esempio emblematico della figura borghese, un contabile abile nel maneggiare cifre e numeri, ma intrappolato in una visione del mondo che riflette le contraddizioni del capitalismo. La sua capacità di individuare le incongruenze nelle spese di agenti diplomatici corrotti è solo un aspetto della sua professione, mentre la sua arroganza e ignoranza rivelano una supposta superiorità culturale radicata, tipica dell’uomo occidentale nei confronti dell’Oriente e delle sue tradizioni, seppur subisca il fascino di una cultura altra che affonda le sue ferme radici in millenni di civiltà, come afferma Song Liling quando gli spiega che i cinesi non sono certo diventati occidentali perchè vivono in case con la luce elettrica. La sua incapacità di riconoscere l’assurdità di far interpretare il ruolo di una ragazza giapponese a una donna cinese durante una rappresentazione di alcune arie della “Madama Butterfly” di Puccini, durante una soirée all’ambasciata svedese, dove Gallimard e Song Liling si incontrano per la prima volta, mette in luce la sua mancanza di consapevolezza storica e culturale. Ignora, ad esempio, il tragico passato in cui i giapponesi utilizzarono prigionieri cinesi per esperimenti di guerra batteriologica. Questo episodio non è solo un errore di interpretazione, ma un sintomo della sua preparazione inadeguata e della superficialità con cui affronta questioni complesse. La sua conversazione con Frau Baden, la moglie dell’ambasciatore tedesco, rivela ulteriormente la sua fragilità intellettuale. Gallimard, consapevole della sua ignoranza riguardo all’opera, teme che la verità possa compromettere l’immagine di un uomo dotato di una profonda cultura, un’illusione che il sistema capitalistico e le sue dinamiche sociali alimentano. In questo modo, la sua figura diventa un simbolo delle contraddizioni e delle ingiustizie insite in una società che privilegia l’apparenza rispetto alla sostanza.

Tra le riflessioni di genere, interessante lo scambio di battute, alle spalle della Grande Muraglia cinese, quando Song Liling narra un antichissimo proverbio cinese: “Dare insegnamenti a una ragazza è utile come gettare riso al vento“, riportando che sia la società antica cinese che quella contemporanea alla narrazione (siamo negli anni ’60 del Novecento poco prima dell’avvento delle Guardie Rosse), opprimono le donne e le tengono nell’ignoranza, cosa che teoricamente non dovrebbe avvenire nell’evoluto Occidente, per spiegare come sia possibile l’attrazione di una donna cinese verso un occidentale, e lusingando l’ego di Gallimard in un gioco di seduzione e attrattiva reciproca sia intellettuale che fisico.

La relazione tra Gallimard e Song Liling, pur basata su dinamiche di potere e reinterpretazione della realtà, evolve in un sentimento che, sebbene inizialmente costruito su menzogne in un contesto di seduzione e manipolazione, dove Song Liling, incarnando un ideale di donna costruito da Gallimard, diventa un oggetto di desiderio e di controllo, si trasforma in qualcosa di autentico. Questo processo di oggettivazione riflette le disuguaglianze di classe e di genere, in cui l’identità e la soggettività di Song Liling vengono sacrificate per soddisfare le fantasie coloniali e patriarcali di Gallimard. Quando Gallimard si confronta con la realtà della sua illusione e decide di porre fine alla sua vita attraverso il seppuku, si manifesta una crisi profonda non solo del suo individuo, ma anche delle strutture sociali che hanno alimentato la sua visione distorta dell’amore. La tragica conclusione segna un punto di non ritorno, mentre Song Liling, in un momento di vulnerabilità, piange sull’aereo che lo riporta in patria, rivelando la complessità e l’ambiguità dei sentimenti umani.

David Cronenberg esplorando i temi di identità e genere, inganno e disillusione si distingue per la sua visione del reale complessa e provocatoria. Gallimard è attratto dall’immagine romantica e idealizzata della Cina e della femminilità, della sottomessa donna orientale, schiava del diavolo straniero, ma la sua relazione con Song si rivela essere un intricato gioco di inganni, in cui le identità di genere e le aspettative culturali vengono sovvertite. L’atmosfera di tensione e ambiguità accresce questo divario culturale ed esistenziale in cui questioni come il colonialismo, la sessualità, le costruzioni sociali di genere, si fanno materia viva della narrazione. Le performance di Irons e Lone sono straordinarie nel creare l’illusione e l’ambiguità che fino all’ultimo accelera stemperandosi nel drammatico e catartico finale quando è l’Occidente a soccombere rispetto all’Oriente, sovvertendo la dinamica pucciniana dove è la ragazza giapponese a suicidarsi per amore di un occidentale. Gallimard metabolizza in un’opera di metamorfosi (già la libellula donata dal pescatore preludeva simbolicamente a questo) questa dinamica diventando lui stesso la proiezione dell’Oriente che ha sempre avuto e con il disvelamento, nel cellulare che li porta in prigione, del corpo nudo di Song Liling ha perso per sempre. Resta un’opera magistrale nell’esplorazione delle complessità dell’amore e dell’identità, temi da sempre al centro delle riflessioni del regista canadese.

Cronenberg, pur affrontando un flop commerciale, ha considerato questo film un successo personale, poiché sintetizza molte delle sue riflessioni estetiche e poetiche, rivelando le contraddizioni e le tensioni insite nelle relazioni tra culture e identità. In questo contesto, lo spettatore è invitato a riflettere non solo sull’incredibile ingenuità di Gallimard riguardo all’identità sessuale di Song Liling, ma anche, e soprattutto, sul mistero stesso dell’amore, un sentimento che sfida le categorizzazioni e le interpretazioni, fondendo reale e ideale. Cronenberg, con la sua visione unica, ci offre un’opera che trascende il tempo, ponendo interrogativi che risuonano ancora oggi. Una curiosità: gli hutong, i tradizionali vicoli di Pechino, dove furono girate alcune scene, ora non ci sono più buttati giù per i piani di ristrutturazione e sostituiti con palazzi e grattacieli.

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