Ci sono libri capaci di creare intorno a sé un alone di mistero, con venature vagamente soprannaturali; ci sono libri che forse racchiudono realmente segreti ed eventi inspiegabili capaci di intrigare e far scervellare generazioni di lettori.
Questa sorte capitò, nel bene e nel male, a Il mistero di Edwin Drood, opera incompiuta, di quel genio monumentale ottocentesco che fu Charles Dickens, poi pubblicata postuma nel 1870.
Con la sua morte Dickens rese sconosciuto per sempre il finale della sua storia e diede involontariamente inizio ad un fenomeno singolare detto droodismo, (che Valerio Magrelli spiega esaurientemente in un suo interessante articolo apparso recentemente su Repubblica intitolato “Il circolo Dickens se la vita d’ autore diventa un giallo”).
In sintesi il droodismo può essere spiegato come un fiorire di variopinte ipotesi sul finale de Il mistero di Edwin Drood, dalle più scontate alla più eccentriche, e non mi stupirei che qualcuno avesse fatto una seduta spiritica per chiedere a Dickens in persona lumi in proposito.
In questo affollato filone droodista si inserisce a pieno titolo Drood di Dan Simmons, autore dell’ Illinois acclamato per le sue opere di fantascienza e conosciuto soprattutto per la saga nota come i Canti di Hyperion.
Non ostante sia americano, Simmons è riuscito a ricreare una Londra vittoriana con così tanta cura per i dettagli e uno stile così raffinato ed elegante da soddisfare anche i palati più esigenti. Ma diamo uno sguardo alla trama per analizzare le originali soluzioni del caso date da Simmons.
Tutto ruota intorno agli ultimi cinque anni di vita di Charles Dickens narrati in prima persona, non privi di una velata beffarda ironia dissacratoria, da Wilkie Collins, schiavo del laudano, anch’egli scrittore, anch’egli amico o più che altro rivale di Dickens, (maggiormente conosciuto per i suoi romanzi gialli e per la celeberrima La donna in bianco, capostipite assieme ad alcune opere di Edgard Allan Poe di tutta la letteratura poliziesca che pone nei colpi di scena e nella suspense il segreto del suo successo).
Drood entra in scena in modo misterioso e inquietante il 9 giugno del 1865 su un luogo di un disastro che coinvolse Charles Dickens. Ma andiamo con ordine. Wilkie Collins ci informa che Dickens soffrendo di superlavoro si era preso una settimana di pausa dalla scrittura e si era recato in vacanza a Parigi con una misteriosa signora di cui si sa ben poco oltre al fatto che non era sua moglie.
Sbarcati a Folkestone, Dickens e la sua amante presero il treno delle quattordici e trent’atto per Londra, ignari che sul percorso un gruppo di operai era intento a svolgere alcuni lavori di manutenzione che consistevano nella sostituzione di alcune vecchie travi ormai usurate. Per un disguido del tutto fortuito l’espresso Folkstone-Londra con a bordo Dickens si trovò così lanciato a tutta velocità verso un binario mancante.
Inevitabile il deragliamento con tanto di vagoni precipitati nel fiume sottostante. Fu allora, tra morti e feriti agonizzanti, che Dickens come in una visione soprannaturale vide per la prima volta un uomo alto e magrissimo che indossava una cappa nera e pesante.
Magro fino ad essere scheletrico, pallidissimo, con una testa calva e bianca, occhi spiritati e cerchiati di nero, senza palpebre, un naso cortissimo simile a “due fenditure nere che si aprivano su una faccia dal biancore di una larva”, denti a aguzzi e distanziati, Drood si preannuncia più come uno spettro che un uomo e da questo momento in poi ossessionerà le vite sia di Collins che di Dickens.
Decisi infatti a far luce sul suo mistero gli intraprendenti scrittori si lanceranno sulle sue tracce inseguendolo per tutto il libro nelle viscere più oscure e pericolose di Londra, altrimenti detta “Babilonia” o il “Grande Forno” espressioni predilette da Dickens per indicarne i peggiori sobborghi, in luoghi dai nomi sinistri come Whitechapel, Ratcliff Cross, Gin Alley, Three Foxes Court, Butcher Row, Continental Road, the Mint, tra sinistri e umidi sotterranei, fumerie d’oppio clandestine e sette segrete depositarie di agghiaccianti culti.
Ma Drood sarà sempre un passo davanti a loro, avvolto dalla sua fama e dalla sua aura di straordinarietà, protetto dalle tenebre, lasciando nei suoi inseguitori il dubbio se sia una creatura diabolica capace di più di 300 omicidi o un essere superiore dotato di poteri soprannaturali.
A voi scoprire se il mistero di Drood verrà svelato, quello che posso dirvi senza rovinarvi il piacere della lettura è che è un viaggio allucinato e sconvolgente negli abissi della mente umana, dove il genio si confonde con la follia, o forse è anche un viaggio alle origini del processo creativo di uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi perduto nei mondi creati dalla sua immaginazione, per lui forse più reali della realtà stessa.
Drood è a mio avviso un libro bellissimo che ho avuto la fortuna di leggere non facendomi spaventare dalla mole, sono ben 800 pagine, e che mi ha stregato un po’ per lo stile e un po’ per il fatto che ogni pagina è un gioco di intelligenza, non ci sono sbavature, parole inutili, parti che vorresti saltare per arrivare più in fretta al finale.
La ricostruzione storica è impeccabile, si ha davvero la sensazione di vivere in un mondo ormai scomparso per sempre fatto di carrozze a cavalli, lampioni a gas, treni a vapore, caminetti scoppiettanti, donne in crinolina e uomini in panciotto, orologio da tasca e cappelli a cilindro. Simmons è un maestro nel creare suspense e tensione aggiungendoci un tocco di soprannaturale con venature horror davvero inquietanti.
Sembra di vederle muovere le zampette dello scarabeo che Wilkie Collins ritiene Drood gli abbia messo nel cervello.
Traduzione di Anna Tagliavini.
Tag: Anna Tagliavini, Dan Simmons, Drood, Fantascienza Fantasy Horror, Giulietta Iannone, letteratura americana
1 dicembre 2010 alle 0:12 |
vorrei segnalare un articolo su
http://totanisognanti.blogspot.com/2010_10_03_archive.html
3 novembre 2011 alle 18:06 |
Ho interrotto la lettura subito dopo aver letto l'obbrobio "non ostante". Come si fa a scrivere una cosa simile…
3 novembre 2011 alle 18:25 |
Secondo il mio modesto parere è ammessa la dualità di forma.