
La tigre e il dragone (Crouching Tiger, Hidden Dragon) di Ang Lee, vincitore di quattro Premi Oscar, tra cui Miglior film straniero, e acclamato quasi unanimemente dalla critica internazionale è un film che se vogliamo filtrò il meglio dell’immaginario del cinema orientale destinandolo forse specificatamente a un pubblico occidentale che in alcuni casi per la prima volta si accostava al “wuxia pian” quel genere che unisce combattimenti marziali, valori cavallereschi e dimensione trascendente e spirituale perlopiù taoista e buddista.
Un incontro di civiltà, prima di tutto, che portò ed elevò il genere wuxia a una dimensione universale e lirica, capace di attirare l’interesse anche di spettatori per cui quello non era il loro humus culturale, ma incuriositi dall’esotico fascino di quella civiltà si sono lasciti trasportare in una storia in cui il peso delle scelte morali guida le azioni e i sentimenti dei personaggi, sì eroi classici tradizionali ma anche esseri umani concreti con sentimenti, paure, aspirazioni appunto universali. Ang Lee riuscì a trasformare un’opera di avventura, con elementi fantastici, in una metafora del desiderio, dell’amore, della disciplina e della rinuncia, comprensibile a tutte le latitudini, e capace di trasmettere anche un senso di lirismo e poesia rari, tramite sia i dialoghi di una bellezza struggente, che gli scenari sia paesaggistici che d’interni.

Ispirato al romanzo “Crouching Tiger, Hidden Dragon” di Wang Dulu (1909–1977), uno scrittore cinese fino allora poco conosciuto in Occidente, il film di Ang Lee prende principalmente spunto da questo libro, ma adattandone molto liberamente la trama, ed enfatizzando alcuni temi filosofici e poetici più che aderire fedelmente al testo, in quel tentativo metanarrativo di universalizzazione di cui parlavamo prima.

Ambientato nella Cina del XIX secolo, durante la dinastia Qing, La tigre e il dragone narra le vicende di Li Mu Bai (Chow Yun-Fat) e Yu Shu Lien (Michelle Yeoh), due maestri d’arti marziali, legati da un profondo sentimento d’amore che per un senso del dovere e un’adesione a un codice morale superiore non possono vivere, perché Shu Lien era la promessa del defunto fratello d’armi di Mu Bai.

Li Mu Bai stanco dei combattimenti e in cerca di una via di pace che lo porti all’illuminazione decide di consegnare la sua leggendaria spada il “Destino Verde” a Yu Shu Lien perché la consegni al Signor Tie. Il furto della spada dà inizio a tutta la vicenda e porta i protagonisti sulle tracce della giovane Jen (Zhang Ziyi), una fanciulla di nobili origini che sogna la libertà e la vita di combattimenti dei guerrieri erranti, ma che si ritrova intrappolata tra le severe regole del suo clan e il richiamo della propria natura ribelle.

Il film è visivamente grandioso ed emozionante non solo per le scene di combattimenti sospese tra i tetti, e gli alberi, coreografate con grazia come scene di danza, ma soprattutto per il suo valore filosofico e morale al di là delle aspirazioni terrene. La fotografia di Peter Pau, premiata con l’Oscar e le musiche di Tan Dun (da segnalare il violoncello di Yo-yo Ma) rendono poi il film un’esperienza sensoriale di rara bellezza. Da vedere e rivedere, magari perderà la magia della prima visione ma sarà sempre un’esperienza gradevole. Buona visione.
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