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:: “Lettere dal carcere (1927- 1928)” di Alcide De Gasperi, Marietti1820, in libreria dal 27 giugno

17 giugno 2025

Una voce che resiste alla prigione, un padre che scrive alla moglie e alla figlia, un uomo politico che si interroga sul destino dell’Europa. Le Lettere dal carcere di Alcide De Gasperi — raccolte in questa nuova edizione edita da Marietti1820 in libreria da venerdì 27 giugno — restituiscono l’umanità profonda, la fede incrollabile e la lucidità di pensiero di uno dei protagonisti della rinascita democratica italiana. Come scrive Angelino Alfano nella prefazione: «Queste lettere sono un atto d’amore verso la famiglia, ma anche una straordinaria lezione di educazione civica. Sono un’eredità morale per l’Italia di oggi e di domani».

Arrestato nel 1927 per la sua opposizione al regime fascista e rinchiuso nel carcere romano di Regina Coeli, De Gasperi scrive in condizioni durissime, con pochissimi contatti con l’esterno, sotto censura e sorvegliato. Ma quelle lettere, rivolte soprattutto alla moglie Francesca e alla figlia Maria Romana, diventano testimonianza viva della sua dignità personale e della sua vocazione pubblica. «Le mie mani sono legate, ma il mio spirito resta libero. E libero vuole restare», scrive a poche settimane dall’arresto.

Il carcere non spegne in De Gasperi il senso della responsabilità. Al contrario, acuisce la sua sensibilità morale. «Non sono triste per me – scrive – ma per l’Italia che vedo addormentarsi nella paura». Nelle lettere trapela la volontà di non cedere alla disperazione, anche quando la salute vacilla e le notizie dalla famiglia si fanno scarse. «Mi mancano le tue parole, la tua voce – fa sapere alla moglie Francesca – . Ma soprattutto mi manca il tuo sguardo, che era per me come la luce del mattino».

Il tono non è mai lamento, ma riflessione. In un passo toccante scrive: «Sento che ogni ora qui dentro deve essere offerta, non sprecata – riflette – . Se non posso parlare, allora pregherò. Se non posso agire, allora penserò. Anche questo, in fondo, è un servizio».

A commuovere il lettore è la delicatezza con cui De Gasperi si rivolge a Francesca e alla piccola Maria Romana, cercando di proteggerle persino dalla propria sofferenza. «Di’ alla nostra bimba che papà la pensa ogni giorno, e che le manda un bacio con tutto il cuore», scrive in una delle prime lettere. E in un’altra: «La tua pazienza è per me come un mantello caldo in questa cella fredda. Ogni tuo pensiero mi arriva come una carezza».

Questa dimensione familiare si intreccia con la fede: «La mia consolazione è sapere che preghi con me. Quando il dolore ci separa, la preghiera ci riunisce». Le lettere diventano un vero e proprio “Vangelo laico”, dove ogni parola è pensata per custodire l’amore, l’onestà e la speranza.

La fede come forza morale

L’aspetto spirituale è centrale in queste lettere. Per De Gasperi, Dio non è una consolazione astratta, ma una presenza concreta che accompagna le giornate più dure. «Non ho paura, perché so che la mia croce ha un senso. E se anche non riesco a capirlo, continuo a portarla». In un altro passaggio, scrive: «Mi affido a Lui, e chiedo solo che mi dia la forza di non perdere la pazienza, la lucidità, la carità».

Questa fede si esprime in parole sobrie, mai enfatiche. È la fede di chi ha conosciuto il silenzio, il buio, il dubbio, e ha scelto comunque di restare saldo. «Il Vangelo non promette facilità», riflette De Gasperi «ma verità. E in questa cella, in questa solitudine, io cerco ogni giorno un po’ di verità».

Nonostante le sbarre, lo sguardo di De Gasperi resta rivolto al futuro. In molte lettere si avverte la sua visione di un’Europa nuova, libera e solidale. «L’Italia risorgerà solo se saprà ritrovare il senso del bene comune», afferma. E ancora: «La politica vera non è potere, è servizio. E anche nel silenzio del carcere, si può continuare a servire».

La sua idea di democrazia è radicata nell’esperienza personale del dolore e della dignità: «Chi ha sofferto l’ingiustizia, non potrà mai permettersi di infliggerla ad altri. Io voglio che la mia pena diventi seme di libertà per chi verrà dopo».

Lo stile delle lettere è essenziale, privo di retorica. Anche nei momenti di maggiore fatica, De Gasperi non rinuncia alla gentilezza, all’ironia, alla sobrietà. «In questa cella ho come compagni i libri, i pensieri e i ricordi. Non sono solo, perché il mio amore per voi due mi accompagna sempre». È una scrittura che consola e interroga, che illumina l’oggi attraverso le parole di ieri.

Le Lettere dal carcere sono un libro necessario per comprendere l’uomo De Gasperi, ma anche per riflettere su cosa significhi davvero libertà, responsabilità, testimonianza. In un’epoca in cui la politica rischia di perdere contatto con la vita reale, queste lettere ricordano che il servizio pubblico nasce, sempre, dalla coscienza individuale.

Come scrive in uno degli ultimi messaggi: «Se sopravvivrò, sarà per continuare a servire. Se non sopravvivrò, queste mie parole siano almeno una piccola luce per chi resta».

Alcide De Gasperi (Trento, 3 aprile 1881 – Borgo Valsugana, 19 agosto 1954) è stato uno dei principali artefici della rinascita democratica italiana nel secondo dopoguerra. Deputato al Parlamento austro-ungarico e poi a quello italiano, fu leader del Partito Popolare e successivamente fondatore della Democrazia Cristiana. Oppositore del fascismo, fu arrestato nel 1927 e incarcerato a Regina Coeli. Dopo la caduta del regime, guidò il governo italiano dal 1945 al 1953, promuovendo la ricostruzione economica, l’integrazione europea e l’adesione dell’Italia alla NATO. Uomo di profonda fede cattolica e di rigore morale, è considerato uno dei padri fondatori dell’Europa unita. Il suo stile politico sobrio e il forte senso del dovere ne hanno fatto un simbolo di etica pubblica. La figlia Maria Romana ha dedicato gran parte della sua vita alla conservazione della memoria del padre.

La Fondazione De Gasperi custodisce e promuove da oltre quaranta anni gli insegnamenti ideali, morali e politici di Alcide De Gasperi, padre fondatore dell’Italia democratica e dell’Unione Europea. Questa nuova edizione delle Lettere dalla prigione (1927-1928) è stata realizzata nell’ambito dell’Anno Degasperiano, il programma di celebrazioni promosso dalla Fondazione in occasione del settantesimo anniversario del-la scomparsa dello statista e leader politico, avvenuta il 19 agosto 1954.

Fishke lo zoppo, Mendele Moicher Sfurim, Marietti 1820 (2021) A cura di Viviana Filippini

29 luglio 2021

“Fishke lo zoppo” è un romanzo scritto da Mendele Moicher Sfurim, pubblicato da Marietti 1820. La narrazione ha appunto per protagonista Fishke con la sua vita e quella della comunità ebraica con la quale lui si relaziona e vive. Fishke ha famiglia, o meglio è sposato con una donna cieca, ma è anche profondamente innamorato di una ragazza gobba. L’autore è bielorusso di origine ebraica – Sholem Ynkev Abramowitsch- che scelse come pseudonimo un nome che significa “Mendele il venditore di libri”, perché è quello che lui stesso voleva essere per la comunità ebraica, un venditore ambulante di libri che portava alla scoperta di storie di vita, tra le quali quella di Fishke lo zoppo. Quello presentato da Sfurim è un mondo composto dagli ebrei più poveri, da quelli che ogni singolo giorno della loro vita, più che vivere, cercano di sopravvivere. In ogni capitolo che compone il libro, comparso per la prima volta nel 1869, ci sono tante vite di ladri, accattoni, vagabondi, uomini miseri sul lastrico che si arrabattano come possono per avere un piccolo guadagno. Sono l’umanità più povera, quella che vive ai margini e che sta sempre lì con un occhio di riguardo per individuare quelle azioni che potrebbero essere, ma non è detto che lo siano, una fonte di guadagno economico. Poi arriva Fishke. Nel senso che di lui si parla, o meglio ne parlano Mendele e Alter, solo nel capitolo undicesimo. Il suo presentarsi al lettore ci pone immediatamente catapultati nella vita di un uomo che diviene nel corso della lettura la rappresentazione di un popolo intero. Perché dico questo? Perché è come se Fishke avesse in sé tutti – o almeno molti- degli aspetti esistenziali del popolo ebreo povero e minato nell’animo e nel corpo da ferite sempre aperte e molto dolorose. Altro aspetto interessante del viandante Fishke che viaggia viaggia fino ad arrivare a Odessa, è la sua incapacità di riuscire ad adattarsi e ad accettare il mondo attorno a lui. Un universo in cambiamento all’interno del quale è nato e cresciuto e dal quale il protagonista non riesce a sradicarsi, in quanto è profondamente legato ad esso. Mendele utilizza l’ironia per raccontare il comportamento dell’ebreo orientale Fishke come se volesse istruirlo e fargli capire che il cambiamento e la trasformazione in qualcosa di meglio, sono possibili. Lo stesso umorismo viene utilizzato anche per narrare l’amore che il giovanotto ha per la ragazza gobba, una relazione con effetto a sorpresa per i lettori. Nel complesso “Fishke lo zoppo” è un romanzo interessante, ironico, curioso perché l’autore fa un vero e proprio ritratto di un individuo e, allo stesso tempo, quello di un intero popolo povero che non è comunque in grado di cambiare la propria esistenza anche nel caso in cui si presentino possibilità di progresso e mutamento per il proprio vissuto.

Mendele Moicher Sfurim (1833-1917), pseudonimo di Sholem Yankev Abramowitsch, è il primo grande autore classico della letteratura ebraica jiddisch dell’Est europeo.

Source: richiesto all’ editore. Grazie all’ufficio stampa 1AComunicazione.