
Allievo prediletto di Robert Altman, Alan Rudolph è l’artefice di un piccolo gioiellino sperduto nella cinematografia dei tardi anni ’80 dal titolo quantomai emblematico The Moderns, con riferimento esplicito alla corrente artistica del Modernismo.
Ambientato nella Parigi bohemienne del 1926, il film segue le accidentate vicende di Nick Hart (da notare l’assonanza co Art), interpretato da un ottimo Keith Carradine, pittore squattrinato americano che si guadagna da vivere disegnando schizzi per l’edizione parigina del New York Herald Tribune. Artista di talento, ma dalle alterne fortune, figlio di un affermato falsario d’arte, sembra avere il destino segnato nel seguire le orme paterne e infatti rimasto in bolletta accetta di copiare alcune opere d’arte per conto di Libby Valentin (Genevieve Bujold) amica e mercante d’arte anche per aiutarla ad uscire da un divorzio difficile.

Nel frattempo, reincontra sua moglie Rachel (Linda Fiorentino) da cui non ha mai legalmente divorziato, ora “sposata” in odore di bigamia con Bertram Stone (John Lone), un pericoloso e ambiguo collezionista d’arte americano, con una passione per l’escapologia, espatriato anche lui, che nonostante la sua enorme ricchezza fatica non poco ad essere accettato dal bel mondo parigino. Tra Rachel e Nick riesplode la passione e da qui in poi le cose assumono il tono della farsa più che della tragedia.

The Moderns si svolge in uno scenario evocativo e decadente tra caffè, ristoranti, salotti culturali, palestre di boxe, soffitte e gallerie d’arte, e ci narra una storia che se vogliamo è una severa critica a tutto quello che ruota intorno al mondo dell’arte, dai critici cinici e spietati, agli avidi mercanti d’arte, agli investitori, un mondo chiuso e molto elitario in cui più che giudizi estetici predominano dibattiti economici sull’autenticità delle opere. La mercificazione dell’arte infatti diventa il perno di una critica feroce, sul senso ultimo di un mondo che vive di apparenza, dove la verità e l’illusione si alternano in un susseguirsi di gag semiserie dal retrogusto al curaro.

E se vogliamo questa critica è più riferita alla Hollywood degli anni ’80, che al mondo dell’arte parigina degli anni ’20.
Tra i tanti espatriati incontriamo Hemingway, e Gertrude Stein, animatrice di uno dei più effervescenti salotti letterari parigini, ma non è tanto la ricostruzione storica che interessa al regista più l’atmosfera e lo spirito di un’epoca che ha segnato in modo non marginale l’immaginario del Novecento.
























