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:: Iron Mask – La leggenda del dragone di Oleg Stepchenko (2019)

21 novembre 2025

Dunque vediamo il film di cui vi parlerò oggi si intitola Iron Mask – La leggenda del dragone un action-fantasy sino-russo del 2019 diretto da Oleg Stepchenko, sequel del film Viy – La maschera del demonio, distribuito nel 2015 con il titolo, per il mercato Europeo, di Forbidden Empire che scoprii sul blog di Davide e mi piacque parecchio per cui aspettai con una certa curiosità il seguito che si anticipava sarebbe stato ambientato in Cina. Voi sapete io non amo tanto il fantasy occidentale, ma amo molto quello orientale, e i film di arti marziali, per cui presi con un certo entusiasmo il DVD che mi assicurava il doppiaggio in italiano. Il film riunisce un cast internazionale sorprendentemente variegato, in cui spiccano Jason Flemyng, Arnold Schwarzenegger, Jackie Chan, Charles Dance (fece un pregevole Il fantasma dell’Opera) e Rutger Hauer in una delle forse sue ultime apparizioni cinematografiche. La storia narra le avventure un po’ bislacche dell’esploratore e cartografo inglese Jonathan Green in un viaggio dall’Europa alla Cina, dove si troverà coinvolto in una vicenda che mescola magia, arti marziali, draghi e complotti imperiali.

E’ un film un po’ caotico, i piani narrativi si intrecciano in modo un po’ confusionario ma quando Jackie Chan prende il controllo delle scene di combattimento diventa godibile per eleganza e rapidità, rispecchiando lo stile dei migliori film d’avventura asiatici. A Davide sarebbe piaciuto, si sarebbe divertito come un matto, avrebbe preso una vaschetta di pop corn e avrebbe apprezzato questo film sicuramente ricco di immaginazione e una certa folle anarchia. E’ un tripudio di colori, costumi elaborati, paesaggi da fiaba orientale e ci si diverte. E’ anche a misura di bambino, non ci sono parolacce nè scene di violenza efferata, è meno horror del precedente. Infatti è consigliato per tutti.

Jackie Chan e Arnold Schwarzenegger poi si divertono come pazzi, e sebbene abbiano un tempo sullo schermo piuttosto limitato, le loro scene – soprattutto lo scontro nella prigione – valgono da sole il prezzo del biglietto. L’aspetto visivo è sicuramente il lato migliore di questo film se vogliamo bizzarro, eccessivo e volutamente sopra le righe. Forse chi cerca coerenza narrativa a tutti i costi o un prodotto raffinato potrebbe invece rimanere deluso e storcere il naso, ma per chi ama i film d’avventura “alla vecchia maniera”, è una chicca. E poi è un curioso esperimento, un esempio di coproduzione internazionale che tenta di fondere l’estetica del fantasy orientale con la solida struttura dell’evventura classica europea.

Dal punto di vista tecnico, Iron Mask alterna effetti digitali di buona fattura ad altri decisamente meno convincenti, generando un risultato abbastanza straniante. L’impatto visivo rimane comunque il vero punto di forza, con un uso dei colori e un design scenico tipicamente orientale che catturano l’occhio dello spettatore, e incantano i più piccoli.

Nel complesso, Iron Mask – La leggenda del dragone è un film che punta più allo spettacolo e al divertimento che alla coerenza narrativa: un film imperfetto, certo, a tratti anche caotico, come dicevo prima, ma non privo di fascino per gli amanti dell’avventura fantastica.

E poi diciamocelo, a volte i film caciaroni e senza troppe pretese sono i migliori per passare qualche ora di sano svago, senza troppi pensieri.

Da recuperare anche il precedente, che mi vedrò oggi appena torno dal lavoro, per rinverdire i vecchi tempi, che sembrano sempre migliori del presente. Buona visione!

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:: Visioni di cinema: Rouge (1987) di Stanley Kwan

21 ottobre 2025

“La vita è preziosa”

Rouge (1987), diretto da Stanley Kwan, basato sull’omonimo romanzo di Lilian Lee, scrittrice e sceneggiatrice famosa, tra l’altro, per aver scritto il romanzo Addio mia concubina, è un film di culto appartenente alla Second Wave della cosiddetta “Hong Kong New Wave”.

Nonostante sia acclamato da più parti come un capolavoro, e abbia avuto riscontri sia di pubblico che di critica (Anita Mui la protagonista ha vinto per la parte l’Hong Kong Film Award e il Golden Horse taiwanese), non credo esista una versione restaurata e doppiata in italiano, esiste solo la versione in lingua originale con al massimo i sottotitoli in inglese.

Prodotto da Jackie Chan, al tempo pensava di fare un film di cassetta invece si trovò un piccolo film d’autore che paradossalmente circolò più all’estero nei festival, nelle rassegne nei club d’essai, che in Cina, che dopo il passaggio di Hong Kong alla Cina continentale mise forte il vincolo della censura soprattutto per il fatto che i personaggi fanno largo uso di oppio.

Star indiscusse del film sono Leslie Cheung e la già citata Anita Mui, icone tragiche del cinema e della musica hongkonghese dei tardi anni ’80, amati, se non venerati, da uno stuolo di fan che ne conserva la memoria fino a oggi.

Il film è un melodramma struggente con ampie venature di sovrannaturale. Cercherò di evitare gli spoiler, perlomeno quello finale, anche se lo spoiler principale è che Anita Mui, per buona parte del film, è un fantasma che dopo cinquant’anni torna sulla terra per cercare l’uomo che amava, Chan, interpretato appunto da Leslie Cheung.

Fleur, questo era il suo nome, era infatti una prostituta d’alto bordo che, per opposizione della ricca famiglia di lui, non aveva potuto sposare il suo amato. Separati dalle convenzioni sociali decidono così di suicidarsi con resina d’oppio per restare almeno nell’aldilà sempre insieme.

Ma qualcosa va storto, e il fantasma di Fleur, un fantasma cinese in carne ed ossa, si reca nella redazione di un giornale per mettere un’inserzione per persona scomparsa. Incontra così un simpatico giornalista che dopo il primo sgomento quando si accorge che lei è un fantasma (iconica la scena del bus, che si ricollega a tante leggende metropolitane) decide, assieme alla sua fidanzata, di aiutarla.

Il film è essenzialmente al servizio di Anita Mui, la cui recitazione senza sbavature rende il personaggio emotivamente profondo e commovente. E’ un film più triste e malinconico che spaventoso, attimi di vera paura non ce ne sono. Fleur è un fantasma gentile, pallido ed emaciato, al massimo si sbava il trucco o non sopporta la luce del sole, e si interroga se l’amore eterno esiste con ogni sguardo, con ogni gesto, con un’espressione così straziata e delusa, che lascia un eco profonda nello spettatore.

Ma è soprattutto l’Hong Kong degli anni Trenta che non c’è più: Fleur perde le coordinate anche geografiche, non ritrova le strade, gli edifici, i locali, i mercati, i teatri. Tutto è cambiato, è estraneo e respingente. Non solo non trova l’uomo che amava, ma fatica a ritrovare anche i luoghi in cui era stata in vita provocandole uno spaesamento che l’interpretazione di Anita Mui rende memorabile.

Elegante, profondo, commovente, Rouge è un film per chi ama le storie d’amore che tentano di sopravvivere al tempo, alla morte, alla memoria, non aspettatevi un lieto fine classico, ma in fondo un lieto fine c’è, carico di pathos, drammatico e romantico allo stesso tempo. Per la sua ricchezza evocativa un film moderno ancora oggi.